sabato , Ottobre 12 2024

Un gran giorno per l’archeologia

“Un gran giorno per l’archeologia”

di Mario Marchioni

Apro un occhio, ma non è la sveglia a riscuotermi.

Mancano ancora cinque minuti alle 6:30, ma allora cosa mi ha destato? Impossibile che il mio corpo abbia deciso di riaccendersi spontaneamente. Non sono a casa, altrimenti sarebbe Elia, il mio piccolo terremoto di poco più di un anno che si diverte a limare le mie ore di sonno. Chissà cosa starà facendo adesso. Forse tiene sveglio la mamma. Che voglia di riabbracciarli, ma è solo giovedì. Devo aspettare domani sera per poterli rivedere.

Ci vuole un po’ e finalmente riesco a focalizzare. Il trambusto nella stanza di fianco diventa un andirivieni affaccendato. Il coinquilino si sta muovendo in modo molto aggraziato tra cucina, ingresso, bagno e camera sua, ovvero per tutto il resto dell’appartamento. Non capisco il motivo di tutta questa agitazione, generalmente non fa così. Aspetterò che esca, giusto per non incrociarlo.

Lo sbattere del portone d’ingresso diventa il segnale per alzarmi. Sposto il lenzuolo, (nonostante il freddo dell’inverno, in questo appartamento ci sono costantemente 25 gradi, a causa del riscaldamento centralizzato non regolabile) e mi avvio verso il bagno per la prima tappa.

Quando affronto il water noto qualcosa di insolito. Un foglio A4 attaccato con del nastro adesivo campeggia sopra lo sciacquone. Strano, ieri sera non c’era. Due minuti per mettere a fuoco (sono ancora molto assonnato): “SAI A COSA SERVE LA TAVOLETTA? FORSE CI PUOI ARRIVARE ANCHE TU!!!”

Cosa significa? Cerco di ragionare sul senso arcano di queste criptiche parole mentre mi avvio in cucina, poi l’illuminazione! Da maschietto in un appartamento condiviso con un altro maschietto non mi faccio problemi a lasciare la tavoletta alzata. Evidentemente gli dà fastidio. Cercherò di ricordare di abbassarla (uffa…).

Inizio a preparare il latte per la colazione e noto un secondo bigliettino a fianco del lavello: “QUESTO è UN PIANO DI LAVORO. LE TUE COSE METTILE A SCOLARE DA UN’ALTRA PARTE”.

Questo secondo biglietto mi lascia ancor più perplesso del primo. E poi dove dovrei metterle?!? La parte a fianco del lavello è fatta apposta per lasciare le stoviglie ad asciugare ed è scanalata per far colare più facilmente l’acqua verso il lavandino. Quindi? Che faccio? Se non ci voglio litigare ancora mi toccherà asciugare e riporre tutto. Che due ***** [scatole].

Più sotto un altro bigliettino più piccolo: “QUI E’ TUTTO SPORCO!!!” Guardo bene, passo con il dito. Trovo solamente tre granelli di zucchero… (che ciuccio direttamente dal dito)

Cerco le presine per versare il tè dentro al thermos da portare in cantiere.

Le trovo sopra il microonde. L’ennesimo bigliettino: “E QUESTE COSA CI FANNO QUI???”

Mi sto stancando. Le ho dimenticate in giro, non mi sembra un reato grave.

Cerco di scacciare il fastidio misto ad irritazione che mi ha provocato e la mia mente è già affollata di altri mille pensieri. Mentre mi vesto, cerco di focalizzarmi su quello che mi aspetta oggi, ma il mio cervello si rifiuta di affrontare la vastità di incognite che mi attendono.

Esco di casa in fretta. Con i miei sei strati di vestiti diventerei un bagno di sudore se rimanessi troppo a lungo esposto ai venticinque gradi dell’appartamento.

Cominciamo con ordine: passare a prendere Rosa.

Uno squillo al telefono e scende. Mentre l’aspetto ripenso alla casualità di come ci siamo conosciuti almeno dieci anni fa su uno scavo archeologico della scuola spagnola di Roma a Tuscolo, vicino a Frascati. Lei partecipava come studentessa di una università spagnola, io avevo una borsa messa a disposizione dalla scuola. Sapevo che avrebbe fatto un anno di Erasmus a Bologna, ma ci perdemmo di vista. Ci siamo rincontrati per caso poco tempo fa per lavorare assieme.

Cerco di sciogliere la voce, finora inutilizzata: “Como estas? Todo bien?”

“Sì grazie, todo bien.” Rosa è spagnola, ma si è sposata con un ragazzo di Bologna ed ora vive qua. Il suo viso gioviale mette subito buon umore. Anche se oggi non è proprio in forma.

Il tempo di salire in macchina e noto che traffica con un piccolo sacchettino di plastica. Le nausee mattutine sono già abbastanza fastidiose anche senza le mie raccomandazioni. Poverina, i primi tre mesi sono già passati ma le noie continuano.

La tangenziale di Bologna è trafficata già a quest’ora, così preferisco deviare sugli stradoni della zona industriale Roveri. Un quarto d’ora e siamo in cantiere, con qualche minuto d’anticipo.

Arriviamo in contemporanea con altri colleghi, che io preferisco considerare amici, più che semplici collaboratori. Appena sceso dall’auto Silvia saluta: “Mario, ieri sera ascoltavo la radio. Facevano delle battute così brutte, veramente orrende e ho subito pensato alle tue!”

“Grazie! Hai presente la palude appena scesi dalla rampa? Oggi è tutta per te!” Lei ride e nel frattempo con l’elastico si lega i capelli in una coda: “Li ho lavati ieri sera, vorrei evitare di pulirci lo strato.”

“Che coincidenza, è proprio quello a cui stavo pensando…”

So benissimo che il mio humor non è pienamente apprezzato. In realtà mi diverto a suscitare ogni tipo di emozione, per il solo gusto di osservare le reazioni dei miei interlocutori. Se faccio ridere è ancora meglio, ma non sempre riesce. La parte migliore del gioco è minacciare terribili ripercussioni, soprattutto perché sono il capo cantiere, ma ormai nessuno le prende sul serio, purtroppo. Ad ogni modo, qualcuno dovrà fare quel lavoro sporco.

In realtà in questi giorni è tutto uno sporco lavoro. Dopo le recenti, abbondanti piogge, il cantiere sembra più un enorme ring di lottatori nel fango che uno scavo archeologico.

Saluto le persone che arrivano alla spicciolata e si preparano, intanto faccio l’appello: “Manca Davide. Chi ha visto Davide?”

“Sono qui!” La voce proviene dalla baracca, dove un ragazzo sta finendo di cambiarsi. “Non te, Davide, sto cercando il vichingo.” “Eccolo che arriva.” Silvia indica la sua micra che sfreccia a tutta velocità lungo la strada di accesso.

Si comincia: “Hop, hop, muoversi. Oggi è un gran giorno per l’archeologia!” Le facce perplesse dei ragazzi fanno da contrappunto ai miei tentativi (evidentemente poco efficaci) di infondere entusiasmo. Effettivamente la sola idea di impantanarsi nel fango smorza ogni energia.

7:35. Mi avvio dal geometra con l’elenco dei presenti di oggi. Ventiquattro archeologi, uno nuovo arrivato proprio oggi. Una bella pattuglia, per me, un po’ meno per la ditta che deve costruire e ci deve pagare.

Chissà se oggi è di buon umore. Lascio Rosa in ufficio a fare documentazione (e dove rimane più protetta dai disagi del cantiere, visto lo stato interessante), mi avvicino a quello del geometra che è a fianco e sento che sta urlando cose indicibili al telefono.

Sale l’agitazione. Busso leggermente alla porta aperta per annunciarmi. Lui conclude la telefonata brontolando e mi fa un mezzo sorriso, come per comunicarmi che non ce l’ha con me.

Mi sento leggermente rincuorato, cerco di mantenere un atteggiamento dimesso ed efficiente, per non fare ripartire la sua furia: “Buongiorno, oggi c’è un nuovo ragazzo. Le ho portato i documenti”.

Allungo una pila di fogli sulla sua scrivania. Lui li sfoglia velocemente e urla: “MANCA L’ISCRIZIONE ALL’INAIL!”

Un tuffo al cuore e qualche improperio a chi l’ha dimenticato. Accidenti! La sua faccia tonda torna paonazza fin troppo rapidamente. Cerco di giustificarmi: “Dalla sede mi hanno mandato solo questi fogli, pensavo ci fosse tutto, adesso provo a chiamare…”

Inutile. Ormai la furia è ripartita e la rabbia fa vibrare il suo corpo abbondantemente sovrappeso: “Questo Paolo non entra fino a quando non avrò tutti i documenti in ordine! Non un passo dentro il cantiere!” Con le sue urla è riuscito a pettinare anche la mia pelata.

Non mi rimane che capitolare: “Va bene. Adesso chiamo in sede.” Ed esco velocemente o meglio, scappo dal suo ufficio e da altri improperi lanciati come saette.

Bel modo di cominciare la giornata. Come faccio a spiegare a quel ragazzo che oggi non può lavorare per colpa di un errore della segretaria?

Torno alle baracche. Paolo è abbastanza alto, sembra un po’ goffo, forse non è molto abituato ai sei strati di vestiti. Mi avvicino con aria mesta: “Senti, c’è stato un disguido in sede, non hanno mandato tutti i documenti e non posso farti entrare in cantiere finché non arrivano. Per adesso puoi stare qui in baracca, se ti va…” Per fortuna il nuovo arrivato è comprensivo e gentile: “Va bene. Aspetto qui.” Poi continuo: “Resta con loro – e indico Daniele ed il vichingo – qui in baracca, così intanto ti fanno vedere qualcosa.”

Un sospiro di sollievo. Almeno questa è andata. Devo comunque aspettare le 9 per chiamare la segretaria.

Il vichingo siede davanti a un computer. Lo abbiamo soprannominato così per il fisico muscoloso, la barba ispida ed i capelli lungi e rossi. Evidentemente il fisico possente non l’ha aiutato ed ultimamente ha lamentato alcuni acciacchi alla schiena procurati secondo lui da una intensa sessione di piccone qualche giorno fa o, secondo alcuni maligni, da eccessivi festeggiamenti notturni.

Sta controllando e correggendo una serie di foto sbagliate o sfocate. Mi chiama alla sua postazione: “Cosa devo fare con questa?” Sta indicando una foto dove al centro campeggia la lavagnetta che utilizziamo per annotare l’oggetto della fotografia. Osservo l’immagine e non capisco, ma c’è effettivamente qualcosa di sbagliato. Poi mi rendo conto: qualcuno ha messo la lavagna sopra la buca che doveva fotografare, coprendola. Monta l’irritazione. Com’è possibile fare un errore del genere? Anche solo pensarci è da idioti! “Chi è stato questo genio?” “Non lo so. Ma il numero dell’unità stratigrafica è del settore preistorico, dovresti chiedere ad Ester.”

Per gestire al meglio le risorse ho diviso le persone in cinque squadre, dirette da dei responsabili, che a loro volta fanno riferimento a me. Ester è specializzata in preistoria e gestisce la squadra che ha scavato parte di un villaggio eneolitico. In attesa di completare lo scavo nella zona che adesso è sovrastata dalla villa romana, la sua squadra attualmente è alle prese con un tratto di strada romana che accede direttamente al chiostro interno della villa.

E’ anche il primo settore che si incontra scendendo dalla rampa, così mi fermo subito da lei. O meglio, cerco. Per arrivare devo attraversare un avvallamento paludoso con acqua e fango fino alle caviglie. Accidenti, Silvia non ha preso sul serio le mie minacce… L’itinerario a zig-zag è necessario per evitare le pozze più profonde ed insidiose.

Cerco di portare un po’ di buonumore: “Buongiorno, come va?” Lei mi guarda allucinata, con le mani già sporche si sposta i capelli corti e scuri, lasciando una striscia di fango sulla fronte. Non ci fa caso: “Ti sembra possibile lavorare così?” “Guarda il lato positivo, non hai bisogno della SPA per fare i fanghi…” Il suo sorriso tirato assomiglia più ad un ringhio. Lo ignoro e cerco di rimanere positivo: “Prendete dei frammenti di mattoni dal mucchio di scarico e fate un camminamento dalla rampa fino a qui per superare almeno il tratto peggiore – poi continuo – Davide mi ha fatto vedere una bellissima foto…” Lei ha già capito e risponde mesta: “L’ho vista anch’io, purtroppo è tardi, perché la buca ormai è andata. Credo che l’unico che potesse fare una cosa del genere fosse Matar.”

Dovrei arrabbiarmi, invece rido. Ho capito il soggetto e non fatico a credere alle sue parole. Matar è un ragazzo senegalese venuto in Italia per studiare archeologia, ma non è mai stato particolarmente portato al lavoro sul campo. Se ne è andato qualche settimana fa perché è diventato rappresentante dei giovani senegalesi in Europa e mi ha confidato che nel suo futuro vedeva una carriera politica in patria.

Riprendo il discorso con una dotta citazione dal film Platoon: “le scuse sono come il buco del culo, tutti ne hanno uno. Tu gestisci la squadra e rispondi degli errori dei suoi componenti.” So che non è una frase molto raffinata, ma a volte bisogna essere un po’ duri, soprattutto quando si verificano errori così grossolani. In tutta risposta Flavio, l’unico ragazzo di questo gruppo lancia un: “Bonjour finesse!” a cui rispondo con un sorriso: “Per cominciare bene la giornata!”

Mi sento quasi in colpa per averla sgridata, ma mi sono stancato di continuare a trovare errori, imprecisioni, e dimenticanze. Provo comunque a trovare una soluzione: “Magari possiamo utilizzare quella senza lavagna, e inserirgliela con un po’ di foto ritocco…” “Chiederò a Daniele di metterci una pezza.” Taglia corto lei e si allontana per cercare i frammenti di mattoni.

Attraverso la strada romana e cammino costeggiando la struttura di una enorme fogna costruita agli inizi del XX secolo che ha attraversato i nostri strati archeologici, distruggendo tutto quello che ha incontrato per una fascia larga almeno due metri. Finalmente raggiungo il secondo gruppo. Enrico sta smistando i ragazzi.

Esordisco con il mio incipit standard: “Come va?”

“Pensavo fosse peggio. Il grosso dell’acqua è scolato direttamente nella fogna, dovremmo riuscire a lavorare quasi all’asciutto.” Finalmente una buona notizia: “Bene. Oggi completate la pulizia dell’ambiente S? Mi avvisi che vorrei fare delle foto dall’alto quando è tutto pulito?”

L’ambiente, di cui hanno appena completato lo scavo, è interamente pavimentato con piccoli mattoncini esagonali e si sono conservati anche una parte dei muri perimetrali. Passiamo svariati minuti a discutere dei dettagli che hanno notato durante lo scavo: l’impronta di una soglia, i residui di intonaco alle pareti, un cilindro in terracotta cavo che attraversa uno dei muri proprio all’altezza del pavimento.

Enrico conclude il nostro confronto: “Tranquillo, ci penso io.” Purtroppo ho imparato a mie spese a non fidarmi troppo della sua frase standard: “Paola e Silvia Fly finiscono di pulire il pavimento ad esagonette, ci vorrà poco…” Lo interrompo: “Dall’altra parte della fogna c’è un altro angolo del pavimento. Sarebbe carino aprire anche di là per far vedere tutto…” L’irritazione è chiaramente visibile nel suo sguardo, per lui significa un lavoro extra e dover smuovere dei teli fermi da mesi, con acqua, fango e… chissà. In un altro cantiere, srotolando vecchi teli, ho trovato due piccioni morti… Ma qualcuno lo deve fare. Quella volta toccò a me, oggi a Enrico.

Saluto e mi allontano. Salgo sopra la struttura in mattoni della fognatura e scendo dall’altra parte. Il settore Sud della villa romana è già stato completato, ma non ci possiamo abbassare fino alla quota dei ritrovamenti preistorici fino a quando non bypasseranno la fogna e potranno finalmente demolirla.

In realtà abbiamo trovato qualcos’altro…

Ritrovo Silvia, la responsabile di questo gruppo: “Cosa sta facendo l’escavatorista?”

“Vincenzo sta spostando la terra, dobbiamo allargare la pulizia.”

Per fortuna non devo inventarmi qualcosa da far fare all’escavatore. Il mezzo è fondamentale per tanti lavori e la ditta vuole che stia qui per velocizzare il più possibile il nostro lavoro, ma a volte è incompatibile con i nostri ritmi. Se lo lascio fermo il geometra si imbufalisce, così trovare qualcosa di utile da fargli fare è il mio cruccio quotidiano.

Il sollievo traspare dal mio sorriso e adesso si fa strada la curiosità (insita in ogni bravo archeologo): “Cosa avete trovato?”

“Tombe. Ne abbiamo contate almeno 5. Ma dobbiamo ancora pulire bene l’area per capire se ce ne sono altre.” Iniziamo ad aggiraci tra le macchie del terreno e lei mi fa notare alcuni indizi: “Qui affiora un frammento di vaso, lì un grosso ciottolo. Dal tipo di ceramica dovremmo essere in età etrusca o villanoviana.”

Accompagno le indicazioni su come procedere con ampi gesti, per rendere bene espliciti i miei ordini. Anche se dico cose ovvie e so che sanno benissimo gestirsi da soli, preferisco ripetere le istruzioni fino allo sfinimento, perché il risultato non è affatto scontato.

Continuo il giro. Sto procedendo lungo il perimetro in senso orario. Adesso mi aggiro negli ambienti dell’ala Ovest. Questa zona è interessata da una serie di strutture produttive. Il lavoro certosino di mesi ha permesso di arrivare alla fase originaria che occupa tutta la fascia Ovest del complesso edilizio e consiste in un’area per la spremitura, una vasca per la decantazione del mosto e una serie di dolia, grandi vasi in terracotta, allineati lungo le pareti dell’ultima stanza a Nord-Ovest che servivano per conservare il vino.

Mi avvicino ad Annalisa, la responsabile di questo gruppo ed una dei rari bolognesi della nostra combriccola. In questo momento è estremamente concentrata con foglio e matita e sta disegnando la vasca. Da un pesante paraorecchie in lana emerge un ciuffo di capelli che ricade sulla fronte, mentre la chioma di capelli ondulati sbuca dall’alto e ricade a fontana senza ordine.

L’inizio è sempre lo stesso: “Come va?”

Per la sorpresa la sua reazione è un po’ scomposta: “Mi hai fatto prendere un colpo! Guarda! Mi hai fatto anche sbagliare!” Allungo l’occhio su quella piccola opera d’arte: “Secondo me quello scarabocchio abbellisce il disegno. Gli dà quel non so che di artistico e puoi sempre collegarlo con questa linea, così sembra magari che stia calando…”

Lei mi guarda seccata ed aspetta che finisca con le mie idiozie. Allora riprendo cambiando argomento e analizzo l’aspetto della vasca. Una fascia di ghiaino fine larga una decina di centimetri fa da contorno alle pareti. Dopo aver completato il giro guardo di nuovo Annalisa: “Questa la deve aver costruita Lina!”

Lei mi guarda curiosa e stupita. Non capisce come abbia fatto a ricavare questa informazione e balbetta incerta: “Ma… cosa intendi? Come hai fatto a capirlo? E chi è questa Lina?”

“Beh, perché la vasca la drena Lina!” Il suo sguardo rimane ancora più interdetto fino a quando Davide il giovane interviene: “L’adrenalina, Anna! La drena Lina!”

Penso sia inutile elencare gli improperi che mi lancia cercando di sovrastare la mia sonora risata.

Visto che non posso continuare a dire scemenze, passo alle annotazioni operative: “Quando finite il disegno dovreste ripulire l’area perché voglio fare delle foto dall’alto (e indico la vicina gru), poi dovreste abbassare il livello in questo ambiente, ci sono anche quei due dolia da finire di scavare e dovreste trovare la fondazione del muro perimetrale Ovest” e indico dove abbiamo rinvenuto le tracce.

Annalisa mi ha guardato fisso senza battere ciglio, solo adesso osa ribattere: “Tutto questo ovviamente è il lavoro per il prossimo mese, vero?”

“Io vi dico i lavori che ci sono da fare e le priorità, poi sta a voi gestire i tempi. Tanto sai che dovrà essere fatto tutto entro stasera!”

“Mario!” Il suo urlo a metà tra l’isterico e l’esasperato si scioglie in una risata collettiva. Siparietti del genere ne facciamo almeno un paio al giorno, a me servono per allentare la pressione, almeno ci provo. In realtà però questa invettiva, anche se scherzosa serve anche a far capire che dobbiamo mantenere alti i ritmi di lavoro e non possiamo rilassarci. La proprietà ci incalza costantemente. Qualche giorno fa il geometra mi ha telefonato. Ci stava spiando dall’edificio in costruzione a fianco del nostro cantiere e si è lamentato di un paio di persone che secondo lui non stavano facendo niente. Come faccio a spiegargli che ogni tanto dobbiamo anche ragionare su quello che troviamo?

Concludo il primo giro visitando l’ultimo gruppo. Accidenti devo telefonare in sede per Paolo.

Finita la telefonata mi avvicino a Marco, che ha i capelli e la barba ricci già intrisi di fango. Mi saluta e simpaticamente mi dà un’allegra pacca sulla spalla, lasciando l’impronta sul mio giaccone quasi pulito! La sua squadra sta svuotando un fossato tra una seconda strada (parallela a quella di Ester) ed il lato settentrionale della villa.

Attualmente sono incappati in una pedana in mattoni che sporge dal perimetro della costruzione fino a metà fossato e serviva probabilmente come accesso. Il piccolo vuoto rimasto tra la strada e il podio (un po’ assomiglia, lo abbiamo soprannominato così per capirci) poteva essere superato facilmente con un ponticello ligneo (qualche megalomane, meglio che rimanga anonimo, ha provato a suggerire un ponte levatoio).

Mi allontano solo dopo aver impartito duecento ordini e mille raccomandazioni. Ma so che Marco è ancora più puntiglioso di me, così non mi preoccupo più di tanto e la documentazione di questo settore sarà inappuntabile. Forse.

Torno in baracca, giusto in tempo per sentire le rimostranze di Daniele, che ha perso due ore per correggere l’errore di Matar. Alla radio inizia il radiogiornale delle dieci. Le dieci?! Come fanno ad essere le dieci! Non ho ancora combinato nulla stamattina!

“Ci consoliamo con un po’ di tè?” Accolgo con entusiasmo la proposta di Daniele: “Serve qualcosa di caldo e corroborante dopo tutto quel freddo e quel fango e dopo l’ennesimo numero di lui.” Estraggo il thermos dallo zaino e ripenso ai bigliettini di questa mattina.

Aggiorno quotidianamente dei misfatti del coinquilino e le vicende sono ormai una barzelletta di pubblico dominio. Davide chiede incuriosito: “Cos’ha combinato oggi?”

Mentre verso il tè racconto dei bigliettini. Daniele sembra quasi preoccupato: “Dovresti stare attento. Questo qui sta peggiorando. Potrebbe diventare pericoloso…”

Mi sembra che stia comunque esagerando: “Ma dai! Non credo sia pericoloso. Posso sempre minacciarlo di chiamare il calabrese!” Lui si schernisce: “Ma io non sono capace di spaventare nessuno!” “Ma questo lui non lo sa.”

Si inserisce anche il vichingo nel discorso (non dopo essersi fatto una grassa risata sui miei racconti): “Secondo me è solamente una checca isterica. Per questo si è infuriato con tua moglie, è un ostacolo ai suoi torbidi piani.” “Sono sei mesi che non ci parliamo. Neanche una parola!” Daniele irrompe incredulo: “Impossibile! Non riesci a stare zitto cinque minuti! Figurarsi sei mesi!”

Condividere l’appartamento a 40 anni non era sulla lista dei miei desideri, ma purtroppo lavorare in archeologia non consente grossi guadagni, la crisi economica ha limato ulteriormente i ricavi e poi sto cercando di risparmiare qualcosina per poter finire di ristrutturare la casa. Questo appartamento è di un amico e pago molto poco, per i prezzi di Bologna, per questo non intendo andarmene, nonostante il coinquilino. E poi non voglio dargliela vinta.

Un messaggio sul telefono mi avvisa che dalla sede hanno mandato il documento mancante al geometra, così posso finalmente spedire Paolo a divertirsi con il fango e raggiunge il gruppo di Enrico ringraziandomi (!). Prima di lasciarlo andare mi prodigo comunque con le mie solite regole: “Nel corso degli anni ho stilato alcune regole ben precise da seguire in uno scavo archeologico. La prima e fondamentale, che è eternamente valida, recita che il grande archeologo trova. Prova a pensare: nei tuoi studi hai mai incontrato dei grandi archeologi che non avessero trovato qualcosa di eccezionale?” Daniele cerca di agevolare la partenza di Paolo per risparmiargli queste mie perle di saggezza: “Poverino, non torturarlo con queste idiozie sin dal primo giorno!”

Una telefonata interrompe la nostra chiacchierata: “Vieni in cantiere, è arrivata l’ispettrice.”

Mi aveva detto che sarebbe venuta di pomeriggio! Come fa uno ad organizzarsi?

Torno velocemente in cantiere, o almeno ci provo. Le zeppe di fango continuano ad appesantire i miei passi. Il nuovo stradino in mattoni permette di superare abbastanza agevolmente la zona peggiore.

L’ispettrice mi aspetta in fondo alla rampa, nell’area di Ester. Tra le ragazze c’è un po’ di agitazione, ma adesso non posso soffermarmi a chiedere il motivo. Mi rivolgo all’ispettrice: “Buongiorno dottoressa, come sta?” Nonostante ci conosciamo da diversi anni, preferisco mantenere un deferente distacco professionale nei suoi confronti.

“Ciao Mario. Sono stata influenzata. Mi sembra che le cose siano un po’ cambiate dall’ultima volta che sono passata.”

“Completamente. Come può vedere lo scavo procede celermente!” Cerco di vendere al meglio il lavoro svolto.

“Ma questo cos’è?” Indica lo stradello di mattoni che hanno appena finito di costruire per evitare la palude.

Tentenno in imbarazzo: “Questo non è romano. E’ un percorso che abbiamo costruito con dei frammenti di scarto per superare la zona fangosa. – poi aggiungo ad Ester e alla sua squadra – siete stati troppo bravi, sembra proprio antico originale!” Interviene Flavio, con il suo buffo accento molisano: “Eh, ma noi o così o niente…” Per fortuna l’ispettrice è di buon umore e ce la caviamo con una risata.

Ci addentriamo nelle problematiche del sito e cerco di spiegarle quello che abbiamo trovato e quello che abbiamo fatto. Mi posiziono al centro della strada, rivolto verso la villa e accompagno l’ispettrice: “Qui la strada entra all’interno della villa. Abbiamo individuato alcune fondazioni di muri che sembrano creare una specie di atrio prima di accedere al peristilio interno e, proprio a fianco della strada, c’era un pozzo per rinfrescarsi all’arrivo oppure per fare rifornimento prima di partire.”

Ripercorriamo l’itinerario che avevo appena percorso e continuo a spiegare quello che abbiamo trovato cercando di fornire delle interpretazioni plausibili. L’ispettrice sembra abbastanza interessata, osserva, ogni tanto chiede dei chiarimenti, indica alcuni interventi da fare, ma ho l’impressione che sia sostanzialmente soddisfatta del nostro lavoro.

Ovviamente toccherà a me lottare con il geometra per fargli digerire i lavori aggiuntivi che mi ha richiesto. In questo momento è più viva che mai la sensazione di essere schiacciato tra l’incudine e il martello. Strattonato da un lato dalle esigenze della tutela e dello studio e dall’altro dalla pressione del cantiere, con i suoi ritmi ed i suoi costi, mi sento quasi soffocato dalle enormi responsabilità che devo assumermi, per una paga a dir poco esigua ed in condizioni di lavoro disagiate. In questi momenti mi chiedo: ma chi me lo fa fare! Poi alzo gli occhi, guardo lo scavo, penso a quante cose sono lì che aspettano solamente di essere scoperte, capite, documentate e valorizzate e tutto il resto sfoca in secondo piano.

Quando abbiamo finito, accompagno la funzionaria all’auto, vicino alle baracche e vedo i ragazzi che ci seguono.

Li guardo in modo interrogativo e Flavio mi fa il cenno dell’orologio. Guardo l’ora. Mezzogiorno. Come! E’ già mezzogiorno! Questo vuol dire che ho impiegato quasi due ore per spiegare tutto quello che abbiamo fatto in queste settimane. Oggi non sono ancora riuscito a fare niente!

Il geometra (che non è sempre cattivo) ha fatto chiudere una parte del piano terra dell’edificio in costruzione, nell’area dove abbiamo già completato lo scavo, per ricavare un ampio ambiente mensa ed ha installato dei condizionatori. Io ho portato due microonde per scaldare i lauti pranzi che ci portiamo da casa.

Oggi non mi sono preparato niente. Dopo che ho salutato l’ispettrice vedo Flavio che si allontana solitario verso l’ingresso del cantiere. Con una leggera corsetta lo raggiungo: “Vai dal pachistano?”

“E’ bengalese.” La sua aria mesta è molto insolita per una persona allegra, gioviale e compagnona come lui.

Lo guardo e cerco di capire il perché di quest’anomalia. Inizialmente non sembra abbia voglia di parlare, poi esplode: “Hanno parlato tutta la mattina di assorbenti, mestruazioni, detergenti intimi e cose di questo tipo!”

Sebbene l’argomento sia serio mi scappa un sorriso: “Sai che quando delle ragazze vivono a stretto contatto per qualche tempo, si sincronizzano…” “…E oggi loro sono tutte sincronizzate per rompermi le scatole! Sono tutte mestruate ed insopportabili.”

Non dovrei ridere di gusto, ma non resisto. Arriviamo dal bengalese e ordiniamo due kebab. Il signore dietro al banco mentre prepara il nostro pasto ci tortura con il suo solito (e lunghissimo) discorso sulla qualità dei suoi panini in un italiano piuttosto stentato di cui riusciamo a capire solamente una parola su mille, così noi lo abbiamo soprannominato buono e fresco, le uniche parole comprensibili che escono (a ripetizione) dalla sua bocca.

Mentre addentiamo i nostri panini, cercando di non far colare le salse sopra al fango (ho dimenticato di lavare le mani prima di allontanarmi dal cantiere), Flavio continua a raccontare le vicende della mattina: “Quando è arrivata l’ispettrice, Ester ha iniziato a spiegare, ma è stata un po’ confusa, così la dottoressa l’ha interrotta e ha detto: “Meglio se aspettiamo Mario.” Così ti ha chiamato, ma era furiosa! Si è sentita umiliata. Però il problema è che quando siete andati via, lei si è sfogata scaricando le colpe su di noi. Io le ho risposto male e così abbiamo iniziato a litigare.”

Io rimango molto sorpreso: “Non pensavo che Ester fosse così, mi dispiace ma non me ne sono mai accorto. Con me è sempre molto gentile e disponibile…”

“Non è colpa tua, lei fa così. Con te fa sempre la brava e la perfettina, ma è solo una facciata. Appena ti allontani comanda tutti a bacchetta e scarica le colpe sempre sugli altri, cioè noi.”

Mentre parliamo ci incamminiamo per tornare in cantiere. Io mi sento mortificato per non essermi accorto di questa cosa, che succede proprio sotto al mio naso: “Ma anche io sono così? Ogni tanto anche io lancio ordini abbastanza perentori…”

Lui mi guarda con un sorriso sincero: “No! Tu c’hai il carisma, tu sei autorevole, non autoritario. E con te si lavora bene.”

Faccio un passo, anche due, ci vuole più di un momento per assorbire: “Penso che quello che hai detto sia il più bel complimento che mi abbiano mai fatto.”

Quando arriviamo alla mensa è quasi l’ora di ripartire, ma nessuno si muove. Mi devo fare sentire ancora: “Forza ragazzi, è ora di andare!”

Lentamente le persone iniziano ad alzarsi dalle sedie e raccolgono le loro cose. Annalisa cerca di abbindolarmi con una tazza di caffè (che accetto volentieri, ma non basta per corrompermi).

Davide il giovane si attarda e mi guarda con occhi vacui e lo apostrofo: “Perché non ti alzi?”

“Stavo aspettando il tuo hop hop. E’ molto efficace per spronare la mia fiacca.”

Lo accontento con il tono di un sergente di ferro dei film di guerra holliwoodiani: “Hop Hop, forza, muovi quel culo flaccido e pesante!”

Finalmente soddisfatto scatta in piedi, raccoglie le sue cose e si avvia.

Flavio mi guarda tra il curioso e il divertito, così provo a interpellare la sua voce della verità: “Sono veramente così prevedibile e ripetitivo?”

“Eh, anche di più! Quando fai le foto non mi sposto fino a quando non sento il tuo…” lo interrompo: “…ok, adesso levati dalle balle che scatto!”

Ridiamo e finalmente posso chiudere la mensa perché sono tutti tornati in cantiere.

Mi guardo indietro e vedo un disastro di cartacce per terra e briciole ovunque.

Non resisto. La despy che c’è in me reclama vendetta. Inforco la scopa e dò una ramazzata alla mensa.

Mentre spazzo ripenso al soprannome coniato in un altro cantiere, dove i miei raptus di pulizia non passavano inosservati. Cosa ci posso fare se ogni tanto si risveglia la casalinga disperata che c’è in me? così il soprannome è passato di voce e mi è ancora appiccicato.

Finalmente posso tornare al lavoro. Raggiungo Daniele e Davide il vichingo in baracca e cominciamo a confrontare alcune piante che presentano delle incongruenze.

Il telefono (che maledizione!) interrompe la mia concentrazione. Guardo il display: Anna.

Rispondo: “Ciao Anna, che vuoi?”

“Sono Luca” “Luca? Ma usi il telefono di Anna?” “No. Ho il mio. Perché?” “Il display mi diceva Anna… Che strano.” Mentre parlo mi giro verso la parete della baracca dove è appeso l’elenco di tutti i presenti. Per curiosità confronto i numeri di telefono di Anna e Luca. Poi ricontrollo per verificare di non essermi sbagliato. Non mi sono sbagliato. Scoppio in una fragorosa risata. “Cosa succede?” Interviene la voce preoccupata di Luca che non capisce il motivo del mio improvviso scoppio di risa: “Sai perché ogni volta che chiami tu mi compare il nome di Anna? Avete il numero uguale! Esattamente identico. Cambia solo il prefisso, tu hai un 338, lei un 333…” Interviene Daniele che ha seguito il discorso: “Io pensavo che stessero insieme e quindi ogni tanto uno rispondeva con il telefono dell’altra…”

Calmate le risa ritorno al serio motivo della telefonata: “Perché rompi?”

“Potresti venire giù? Devo farti vedere una cosa…” Sbuffo, ma mi tocca: “Arrivo. Cinque minuti”

Rimetto le piante nella cartellina dove le avevo appena estratte e riparto.

Scendo la rampa e passo davanti ad Ester, provo a saggiare il suo umore: “Ciao, come va?”

Mi accoglie cinguettando con un sorriso radioso: “Tutto bene. Stiamo finendo di pulire l’ultimo angolo della strada. Abbiamo trovato una moneta, guarda.” Raccoglie uno scatolino da terra e me lo porge. Esamino il tondino di bronzo, ma è troppo usurato per riconoscere qualcosa. Si identifica a mala pena il profilo dell’imperatore, ma chissà chi è: “Purtroppo non ci aiuta molto, è illeggibile. Avete messo un chiodo dove l’avete trovata? Così la posizioniamo quando faremo la pianta.”

Un lampo di panico passa nei suoi occhi. Non l’ha fatto, ma sono sicuro che adesso lo farà. Lei comunque risponde rassicurante: “Sì certo! Abbiamo messo anche il cartellino con il numero di reperto per identificarla.”

Mi allontano perplesso. Neanche una parola sul litigio. Flavio è rimasto tutto il tempo a testa bassa. Mi sa che dovrò fare un rimpasto nelle squadre se non voglio che la situazione peggiori ulteriormente e si incancrenisca.

Raggiungo il gruppo di Enrico. Un clima più allegro mi accoglie. Tra una badilata e una picconata, chiacchierano e ridono. Stanno parlando di una classifica Atahualpa: “Scusate, ma cos’è?”

Enrico, per nulla infastidito dalla mia intromissione spiega: “E’ la classifica dei lavori orribili che ci fai fare. Oggi Ester ha guadagnato 50 punti per lo stradino di mattoni nella palude e Paolo, da nuovo arrivato, ne ha subito guadagnati 100 per aver tolto i teloni e il fango che coprivano il pavimento dall’altra parte della fognatura.”

Chissà perché hanno dato il nome dell’ultimo imperatore inca a questa prestigiosa classifica: “Beh, bisogna stare attento quando vai a fare scavi archeologici in Sud America, potresti rimanere Inca-strato nello strato Inca.” Ho raggelato tutto il gruppo con la mia fantastica freddura, così, prima che Enrico mi cacci, chiedo a Paolo: “Come primo lavoro mi sembra ottimo! Niente topi morti? Sei stato fortunato! Ma i punti valgono solo se l’hai fatto da solo, altrimenti vanno condivisi.” Silvia Fly si aggiunge da dietro: “Allora 20 punti spettano a me!” Le timide proteste di Paolo sono sovrastate dalle risa.

Supero la fognatura. Vincenzo sta lisciando il terreno con la benna dell’escavatore. La sua esperienza è molto utile quando si tratta di fare lavori delicati. Luca controlla l’operato a qualche metro di distanza. Mi annuncio: “Sono qua.”

Luca si gira, gli occhi scintillano. Mi porge la mano destra aperta a cucchiaio e dice (o meglio, urla): “Questo è oro?” Io rispondo con lo stresso tono: “Ma no, scemo, è ottone!” Poi abbasso la voce per farmi sentire solo da lui: “Certo che è oro, ma non urlarlo ai quattro venti.”

Lui tutto eccitato per il ritrovamento mi porge l’oggetto. E’ piccolo e circolare, più panciuto da una parte. Mi avvicino ad una pozza d’acqua per sciacquarlo dal fango. Finalmente posso osservarlo con attenzione. E’ molto leggero, l’anello si interrompe ed ha un settore ingrossato. Per fortuna è schiacciato leggermente in un solo punto e non è deformato. Continuo ad osservare e inizio a distinguere piccoli globi e alcune linee decorative, forse applicate o eseguite a sbalzo. Il risultato sembra richiamare l’immagine di un grappolo d’uva. Non insisto con la pulizia perché non voglio rischiare di rovinarlo e poi, rimanere fermo in piedi in mezzo al cantiere come un pirla a guardarmi il palmo della mano potrebbe iniziare a risultare sospetto.

Prendo un fazzolettino di carta, avvolgo l’oggetto e lo metto in tasca. Poi mi rivolgo a Luca: “Dove l’hai trovato?” Lui indica un punto preciso: “Era qui. Ho visto scintillare e sono andato a controllare.” Prendo in prestito la sua cazzuola (chissà dove ho lasciato la mia) e comincio a grattare il terreno attorno alla zona che ha indicato. Bastano pochi colpi e iniziano ad emergere le ossa di un cranio. Mi rialzo, gli rendo l’attrezzo: “E’ di profilo. Il punto che hai indicato corrisponde esattamente al lobo dell’orecchio. Come sospettavo è un orecchino. Ed è magnifico. Identifica i limiti della tomba e stai attento a Vincenzo. Fallo rimanere più alto, così magari non trancia qualcosa.”

Sto per andarmene, ma la mia attenzione viene catturata da alcuni frammenti di ceramica che spuntano a pochi centimetri dal luogo del ritrovamento. Riprendo la cazzuola a Luca e ricomincio a grattare.

Scopro una parte della parete del vaso e vedo un disegno in rosso su sfondo nero. Si riconosce la figura di una persona che indossa un chitone, una tunica che scende con numerose pieghe ed è stretta in vita da una cintura. Questa raffigurazione, così bella e pregiata è caratteristica ed inconfondibile. Ceramica attica. Un oggetto di importazione molto prezioso. Chissà quali altre sorprese ci riserverà questa tomba. Sicuramente contiene i resti di una donna molto ricca.

Dobbiamo proteggere la zona. Anche le altre tombe potrebbero avere oggetti preziosi. Chiamo i ragazzi a raccolta: “Mi serve aiuto per spostare il ragnone!” Il ragnone è una serra larga sei metri e lunga dieci, composta da sei arcate collegate tra loro alla distanza di due metri. Per spostarla serve una persona alla base di ogni arcata, quindi dodici persone. La struttura è molto utile per proteggere una porzione particolarmente delicata dello scavo.

Arriva Flavio: “Hop hop bojoni! Muovetevi!” La genesi del termine bojoni (introdotto da Flavio) è molto dibattuta, il significato dovrebbe corrispondere più o meno all’uomo di fatica, con mansioni servili. Le persone si radunano fino a raggiungere il numero sufficiente, io dirigo le manovre per posizionare la copertura in modo da proteggere tutta l’area delle tombe etrusche.

Una volta finito, le persone tornano alle loro mansioni. Io mi accerto con Silvia che sia tutto a posto, poi mi avvio verso la baracca. Prendo il telefono e chiamo l’ispettrice: “Dottoressa, buon pomeriggio.”

“Mario, è successo qualcosa? Ci siamo visti stamattina…” Sono indeciso se raccontare tutto, dovrei spiegare che abbiamo trovato l’orecchino con l’escavatore e non è proprio una bella presentazione, però non resisto. Speriamo che anche lei si faccia prendere dall’entusiasmo e non si soffermi su questi piccoli dettagli: “Niente di brutto! Ha presente l’area dove abbiamo identificato quelle possibili tombe villanoviane? Ecco… facendo una accurata pulizia abbiamo trovato un orecchino d’oro…” Ovviamente vengo interrotto da un ululato: “D’oro!?!” “Sì, molto bello e sembra integro, ha delle decorazioni che ricordano un grappolo d’uva. Nella stessa tomba si vedono i resti di un vaso in ceramica attica a figure rosse. Quindi dovrebbe essere una tomba etrusca di V secolo. Più o meno.”

La sua risposta non si fa attendere: “Me lo devi portare subito!”

Rimango un po’ perplesso: “Adesso?” Guardo l’ora, le 15,30. Accidenti come passa il tempo: “Quando chiudiamo il cantiere vengo in soprintendenza.” “Grazie, ti aspetto.”

Torno in baracca. Mostro il trofeo a Daniele e Davide ed allestisco un set fotografico per poter scattare due foto all’orecchino prima che sparisca in soprintendenza. Finite le foto, cerco una piccola scatola dove metterlo. Trovo solamente un ovetto di plastica che conteneva la sorpresa di un ovino Kinder. Cerco ancora, ma non trovo niente di più adatto. Speravo in qualcosa di più elegante, ma ho fretta e non posso perdere due ore a frugare in tutti i cassetti.

Ormai è ora di andare, così raccolgo le mie cose e raggiungo Rosa nell’altro ufficio. Prima però mi fermo dal geometra un momento. Speriamo sia tornato di buon umore.

Entro con una chiavetta USB in mano: “Le ho portato le foto delle tombe. Ovviamente questa è documentazione che serve a lei per la rendicontazione delle spese e queste foto non dovranno uscire da questo ufficio.”

Lui mi guarda con un sorriso complice: “Ovviamente. La mia è solo curiosità personale. Sai, ho notato un errore nella relazione che mi hai consegnato l’altro giorno.”

La relazione a cui si riferisce riguarda una tomba in dolio (sempre etrusca, come le altre appena trovate) che dobbiamo asportare e trasportare in soprintendenza. Quale strafalcione avrò mai commesso (perché lui se ne accorga…)?

Mi chiama dietro la scrivania e richiama il vocabolario su una pagina internet: “Si dice doglio, – e legge dalla pagina – grande vaso tondeggiante nel quale i romani conservavano liquidi e aridi. In età arcaica avevano la funzione di conservare un’urna cineraria (proprio il nostro caso), mentre dolio è un mollusco gasteropode.”

Rimango stupefatto per questa precisazione. Evidentemente mi sono sempre sbagliato a chiamarlo così. Però doglio non mi piace. Suona male, allora preferisco usare il termine latino dolium.

Mi tocca dargli ragione, ma non posso rimanere in silenzio, così cerco di sviare: “In fondo le ho aggiunto una nuova cartella, dei ritrovamenti freschi freschi (o forse dovrei dire buoni e freschi…) di oggi. Buona serata. A domani.”

Esco dall’ufficio mentre so che sta già frugando tra le immagini dell’ultima cartella, dove troverà le foto dell’orecchino d’oro. Sarà l’argomento di domani.

Raggiungo Rosa: “Ti dispiace se ti riporta a casa Silvia? Devo passare in soprintendenza dall’ispettrice…”

“C’è qualche problema?” Nelle mie intenzioni non avrei voluto divulgare la notizia, ma proprio non resisto ed estraggo l’ovino di plastica gialla dalla tasca per farle vedere l’orecchino.

A parte questo cedimento resto fedele ai miei propositi e congedo i ragazzi trattenendo (a stento) il desiderio di urlare a tutti quanti la notizia del ritrovamento. Quando mi avvicino a Silvia, noto che è insolitamente pulita rispetto agli altri: “Ma te oggi hai lavorato?” Lei mi guarda sorpresa, come se l’avessi offesa: “Certo! Perché?” “Sei ancora pulita. Come hai fatto?” “Io ho imparato ad aleggiare sul cantiere!” Ridiamo del mio (ennesimo) motto, che ripeto all’infinito per ricordare ai ragazzi che devono evitare in tutti i modi di sporcare dove è già pulito. Silvia in realtà è una di quelle rare persone che ha la dote di rimanere pulita anche nelle situazioni più lerce. Non mi capacito come ci riesca, ma ce la fa.

Mi tolgo le scarpe ed il primo strato di abiti completamente intrisi di fango e salgo in macchina. Raggiungo i viali per avvicinarmi alla soprintendenza. Accidenti, ecco perché evito sempre il centro città. Il traffico è soffocante. Dopo cinque minuti sto schiumando peggio di un cane idrofobo. Per fortuna i finestrini chiusi fermano i miei insulti ai pazzoidi spericolati che popolano queste strade e sembra si divertano a fare a sportellate per guadagnare qualche secondo alla fila continua.

Raggiungo via Irnerio e miracolosamente riesco a trovare un parcheggio libero. Mi infilo e chiamo l’ispettrice. Mi dice di aspettarla qui, così comincio a camminare avanti e indietro, in attesa, frugando nervosamente in tasca per controllare la presenza del reperto.

Finalmente la vedo sbucare dalla strada laterale. E’ accompagnata da un giovane collega, che conosco bene. Assieme a Marco ho passato gli anni della specializzazione, poi io ho continuato con gli scavi, mentre lui è entrato in soprintendenza con l’ultimo concorso, quello che io ho clamorosamente sbagliato… Le domande di selezione erano impossibili e poco pertinenti per un archeologo, ho fatto quello che ho potuto, ma come facevo a ricordare l’anno del bloody Sunday in Irlanda? O della crisi dei missili nucleari a Cuba? Solo chi aveva il tempo per studiarsi le risposte è passato! (Questa è una cattiveria gratuita, lo so, ma in qualche modo devo trovare una giustificazione, non posso ammettere che lui sia più bravo di me e ce l’abbia fatta mentre io no!)

Quando arrivano ci salutiamo, ma l’ispettrice è impaziente: “Beh? Cosa aspetti?”

Io sono un attimo intimorito e penso: qui? Ma nel suo sguardo c’è solo la curiosità bruciante di vedere l’orecchino, così estraggo l’elegantissima confezione: un sacchettino di plastica su cui sono scritti i riferimenti del cantiere, che contiene l’ovino di plastica gialla. Estraggo l’orecchino e lo porgo all’ispettrice che inizia a studiarlo meravigliata e lo porge anche a Marco per farlo vedere anche a lui. Io guardo sospettosamente per strada, ma i passanti non sembrano neanche incuriositi dal nostro siparietto metropolitano, così inizio a spiegare il contesto di ritrovamento: “Ha presente dove stavamo pulendo con l’escavatore attorno a quelle tombe che non riuscivamo a datare correttamente?” Lei mi fa un cenno affermativo e continuo: “Pulendo (ed evito di specificare con il mezzo meccanico) è emerso questo orecchino. Era posizionato proprio nella zona del lobo dell’orecchio, perché il cranio è girato verso sinistra. Potrebbe avere anche il secondo, ma sarebbe sotto e ci arriveremo solo dopo aver scavato la tomba. Abbiamo individuato anche un vaso in ceramica attica a figure rosse, quindi siamo indicativamente tra la fine del VI e il V secolo a.C.”

Lei mi guarda ancora più entusiasta: “Orecchini d’oro, ceramica attica, accidenti è una tomba davvero ricca! Domani ti mando Lucia, così vi aiuta nello scavo e nella documentazione della tomba.”

“Va bene, grazie. Adesso vado.” Lascio l’orecchino nelle mani dell’ispettrice e la guardo allontanarsi assieme al collega. Io cerco di trattenere la frustrazione. Perché ci spedisce la sua assistente? Ha paura che non siamo capaci di fare il nostro lavoro? Come se oggi non avesse avuto una dimostrazione, l’ho tenuta quasi due ore per spiegarle tutto quello che abbiamo fatto… O forse ha paura che ci intascheremo qualcosa di prezioso? Sì, beh, allora non le avrei mai detto dell’orecchino…

Rimango perplesso, ma alla fine non mi cambia niente, perché non ho nulla da nascondere, non temo giudizi sul mio lavoro, quindi? Domani Lucia si godrà lo spettacolo dello scavo di una splendida tomba etrusca. Chissà quanti (e quali) altri reperti troveremo.

Mentre mi butto (letteralmente e nuovamente a sportellate) nel traffico di Bologna, penso a come organizzare il lavoro per domani. Chi scava la tomba (assieme a me, ovviamente)? Cosa faccio fare a Vincenzo? Ester ha finito sulla strada? Devo fare le foto dell’ambiente S dalla gru. Come faccio a spostare diplomaticamente Flavio dal suo gruppo? E chi sarà la vittima sacrificale al suo posto?

Nonostante il traffico, che mi tiene abbastanza impegnato, raggiungo casa che non ho ancora finito gli interrogativi.

Ma adesso basta.

Nel tragitto tra ingresso e camera riesco a liberarmi dello zaino, di varie scatole di attrezzatura e dei sei strati di vestiti (e fango) prima di sciogliermi. Stamattina, prima di uscire, ho lasciato uno spiraglio aperto alla finestra della camera, così la temperatura è più accettabile.

Finita la doccia riporto un po’ di ordine e sistemo tutta l’attrezzatura in camera sotto la scrivania (non sia mai che il coinquilino abbia da ridire qualcosa!), appoggio i vestiti in ordine (di vestizione) sulla sedia e vado in cucina perché mi ha preso un languorino improvviso.

Ispeziono i pensili alla ricerca di qualcosa di sfizioso e soprattutto sostanzioso.

Non trovo nulla che mi convinca pienamente, così decido di farmi un piatto di pasta.

Anche se sono solamente le sei, anticipo la cena (la fame c’è già e pure abbondante), così non dovrò incrociare l’amato coinquilino.

Finita la cena mi rintano nella mia cameretta e inizio a guardarmi l’ultimo episodio del trono di spade. Metto le cuffie, così il rientro dell’essere non mi disturberà (e non voglio dargli nessun appiglio per lamentarsi).

Finalmente riesco a rilassarmi, anche se, mentre guardo il telefilm, non posso fare a meno di notare tante differenze rispetto ai libri che ho avidamente consumato. Fu un mio amico (credo si chiamasse Federico e frequentava lingue orientali), in cantiere (un altro cantiere di qualche anno fa e ora che ci penso, era proprio di fianco a dove siamo ora) a consigliarmi vivamente di leggere George Martin. Da allora sono diventato un fan accanito (soprattutto di Arya), a tal punto da cercare nel blog in inglese notizie sulle nuove uscite dei libri, sulle ultime novità e sui gossip della serie televisiva e ho aspettato con trepidazione l’uscita del telefilm.

Lo scrittore ha una fissazione paranoide per l’araldica ed il cibo. Nei telefilm almeno questi aspetti sono stati leggermente ridimensionati, inoltre hanno fatto sparire qualche personaggio minore (almeno un centinaio).

Nonostante le cuffie ed il volume martellante riesco a sentire i movimenti felpati e gentili del coinquilino al rientro, mentre si prepara da mangiare e soprattutto mentre guarda l’isola dei famosi a tutto volume, come se ci fosse qualcosa di assolutamente fondamentale da non perdere nei discorsi fatui che fanno. Per fortuna ho una scorta sostanziosa di episodi per arrivare fino a tarda sera (poi c’è il ripasso con quelli in lingua originale).

Decido di interrompere la visione quando anche il secondo occhio non ne vuole più sapere di restare aperto. Spengo tutto e mi infilo sotto il lenzuolo.

Gli ultimi pensieri affollano la mia mente. L’orecchino d’oro, la tomba da scavare, dobbiamo fare in fretta perché è venerdì… che bello, finalmente a fine giornata tornerò a casa e potrò riabbracciare Valeria e il piccolo Elia.

 

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