martedì , Dicembre 3 2024

“Scatole cinesi” di Giovanni Renella

Scatole cinesi

di Giovanni Renella

(Questo racconto è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a cose, persone o fatti realmente accaduti è casuale)

Non avrebbe sentito quei primi cinque secondi di vibrazione dell’iPhone neanche se avesse avuto l’apparecchio incollato all’orecchio.

Solo quando la suoneria attaccò con “Take Five”, il commissario Iezzo si destò dal torpore di un sonno sopraggiunto a notte inoltrata.

Anche in quello stato di semicoscienza, tipico del dormiveglia, la sua passione per il jazz riusciva ad avere la meglio e l’obbligo di rispondere, a quella che sicuramente era una chiamata dall’ufficio, sfumava sulle note di Dave Brubeck.

Il protrarsi di quel refrain, per quanto fosse piacevole da ascoltare, non era però foriero di buone notizie: quell’insistenza annunciava l’arrivo di una rogna di dimensioni ragguardevoli.

Pasquale Iezzo avrebbe scommesso un mese di stipendio che a telefonargli fosse l’ispettore Franzese: un poliziotto di una pignoleria che gli dava sui nervi, specie quando gli faceva rapporto sullo stato di avanzamento di un’indagine.

Era così prolisso nel parlare che Iezzo si era ormai convinto che Franzese amasse ascoltare il suono monocorde della sua stessa voce.

Se qualcuno poi provava a tirare le somme del ragionamento e a farla breve, l’ispettore, dopo aver ascoltato in religioso silenzio il suo interlocutore, riprendeva il filo del discorso dal punto esatto in cui era stato interrotto: in quel caso era meglio avere una scusa plausibile per allontanarsi rapidamente.

Tuttavia Iezzo provava un misto di pena e tenerezza nei confronti di quel poliziotto, pensando ai limiti invalicabili che si ergono di fronte ai tanti Franzese incapaci di maneggiare sapientemente l’italiano: ‘La prima lingua straniera che si studia, male, nel nostro Paese’, amava ripetere a se stesso ogni volta che si trovava al cospetto di una storpiatura grammaticale o sintattica o, come nel caso dell’ispettore, all’incapacità di sintetizzare anche il più elementare dei concetti.

Se la sintesi era davvero un dono, Franzese di sicuro non era presente quando l’avevano distribuito.

“Dimmi Franzese- esordì il commissario rispondendo al telefono senza neanche attendere che l’altro si qualificasse- cosa è successo?”

“Buongiorno dottore, ma come facevate a sapere che ero io? Vi sto chiamando dal telefono dell’ufficio, mica dal mio cellulare!”

“Sesto senso ispettore; e poi che ci vuoi fare, non si diventa commissari di polizia così per caso” rispose Iezzo con quella vena di sarcastica ironia cui ricorreva spesso nel tentativo di alleggerire la pesantezza dei dialoghi con Peppino Franzese.

“Dottore, alle otto precise di questa mattina ha telefonato in commissariato la signora Pettinelli Elvira, era sconvolta e chiedeva l’intervento della polizia in via Verdi 19 dicendo di aver trovato il cadavere di un uomo. Il piantone, la guardia scelta Amato Nicola, mi ha passato subito la chiamata e ho inviato immediatamente una volante sul posto; prima di recarmi anch’io lì ho ritenuto opportuno avvisarvi senza ulteriori indugi”

“Va bene ispettore ci vediamo in via Verdi 19, diciamo fra una mezz’oretta al massimo. A dopo” disse Iezzo e chiuse la conversazione senza lasciare al sottoposto la possibilità di trattenerlo ancora al telefono: avrebbe chiesto ulteriori ragguagli una volta giunto sul posto.

Via Verdi distava cinque minuti a piedi da casa sua.

Dopo una rapida doccia e il tempo di vestirsi, in poco più di un quarto d’ora Iezzo era già per strada.

Il civico 19 di via Verdi era una residenza signorile d’inizio Novecento, un tempo appartenuta a un nobile caduto in disgrazia per aver dilapidato una piccola fortuna al gioco e con le donne.

Dopo il secondo dopoguerra, il palazzo aveva cominciato a passare di mano in mano, per diventare alla fine proprietà di un’immobiliare che aveva trasformato il fabbricato, ricavandone una serie di lussuosi uffici da affittare a facoltosi professionisti.

Appena varcato il portone, il commissario Iezzo si ritrovò l’ispettore Franzese piantato lì davanti con il suo inseparabile taccuino su cui annotava anche i più insignificanti dettagli raccolti sulla scena del crimine.

Nell’osservare i fogli penzolanti dalla spirale metallica del bloc-notes, Iezzo pensò che Franzese stesse provando a descrivere, con le parole, l’immagine del delitto: un dispendio di energie inutile, considerati i rilievi fotografici della scientifica.

“In questo stabile – esordì il solerte ispettore, quasi col piglio della guida turistica che accompagna i gruppi di visitatori nei musei – la signora Pettinelli Elvira fa le pulizie delle scale, dalle 7 alle 9, nei giorni dispari. Comincia sempre dal piano più alto e quando è giunta al primo, ha notato una porta socchiusa; il che l’ha lasciata perplessa, sapendo che la segretaria che apre l’ufficio, tale signorina Ruocco, di cui la Pettinelli dice di non aver mai saputo il nome di battesimo, arriva sempre alle otto e cinquanta, poco prima che lei vada via. Allora la Pettinelli, per far presente a chi fosse entrato nello studio di aver lasciato la porta aperta, ha bussato al campanello e non avendo ricevuto risposta alcuna si è affacciata nell’ingresso. È stato in quel momento che ha scoperto il cadavere di un uomo ed è corsa via in preda al panico; una volta giunta nel cortile, dove ci troviamo noi adesso, con il suo cellulare ha telefonato al commissariato per denunciare l’accaduto”.

“Conosciamo il nome del morto?”, chiese Iezzo incamminandosi verso le scale che l’avrebbero portato al primo piano del palazzo.

“Si tratta di Alfredo de Silvestri, -rispose pronto Franzese seguendolo- uno dei commercialisti titolari dello studio”.

Sul pavimento della saletta d’ingresso, illuminato dai flash della polizia scientifica, giaceva, riverso sul fianco sinistro, il corpo senza vita di quello che doveva essere stato un uomo sulla cinquantina, curato nell’abbigliamento e che da vivo, almeno all’apparenza, doveva essere stato in buona forma fisica.

Iezzo ripensò alle ore trascorse sulla sua ipertecnologica cyclette che, per quanti sforzi facesse e a dispetto della copiosa sudorazione, non lo portava mai da nessuna parte; di sicuro era ben lontano dallo smaltire i chili accumulati con le trasgressioni culinarie cui spesso amava abbandonarsi.

‘Uno spreco di tempo’ rifletté pensando alle migliaia di chilometri macinati nel chiuso di casa sua, mentre osservava quel corpo senza vita, che pure doveva aver trascorso chissà quante ore in palestra.

Il cadavere del dottor de Silvestri presentava, a prima vista, una lacerazione sulla parte posteriore del capo, più precisamente all’altezza della nuca.

“Un colpo solo, sferrato con violenza, vista la profondità della ferita; probabilmente non più di 12 ore fa, ma saprò essere più precisa solo dopo l’autopsia, sia sull’orario che sull’oggetto con cui è stato colpito. Va bene, Pasqualino?”

Pasqualino!

Da quando la buonanima di sua madre era morta, era rimasta solo lei a chiamarlo con quel diminutivo: Franca Marino, medico legale e amica d’infanzia di Pasquale Iezzo. Con i suoi cinquant’anni, portati così bene da dimostrarne una decina di meno, la dottoressa Marino faceva ancora girare la testa agli uomini, per quella naturale sensualità che permeava il suo modo di muoversi e di parlare. Cresciuti nello stesso quartiere, sin da bambini erano sempre stati molto legati l’uno all’altra. Stesse elementari, stesse medie e stesso liceo; solo all’università le loro strade si erano divise. Pasquale si era laureato in giurisprudenza e Franca in medicina; e quando lui aveva vinto il concorso in polizia, dopo poco lei aveva conseguito la specializzazione in medicina legale. Per Pasquale Iezzo, Franca era la sua unica, vera amica; per Franca, Pasqualino era più di un amico. Single per scelta, e non perché le fossero mancate le occasioni, la dottoressa Marino aveva assistito prima alle nozze e poi al naufragio del matrimonio di Iezzo: soffrendo per se stessa al principio e per il suo Pasqualino alla fine. Ma anche ora, che era libero da vincoli di coppia, il commissario non riusciva a capire che Franca era innamorata di lui, da sempre.

“Ciao Franca, non sapevo che fossi già qui”

“Ero di là a parlare con i colleghi della scientifica. Sono arrivata poco prima di te e poiché Franzese ti faceva il suo dettagliato resoconto, e non volevo interrompervi, – disse Franca in tono ironico – ho cominciato a raccogliere questi primi elementi: so quanto ci tieni ad avere un quadro preciso della situazione nel minor tempo possibile”.

Mentre si chinava sul cadavere per tornare a esaminarlo, notò che lo sguardo del suo amico, fatto veramente insolito per lui, si era soffermato sulla scollatura della sua camicetta: Pasqualino le stava guardando il seno!

Con nonchalance fece finta di non aver visto dove si era soffermato lo sguardo del sobrio Iezzo, ma quell’occhiata fugace, colta al volo, la interpretò come una incrinatura nel bozzolo in cui Pasquale si era rinchiuso dopo il divorzio.

Più tardi, al commissariato, mentre stava provando a fare il punto sull’omicidio del dottor Alfredo de Silvestri, Iezzo fu raggiunto da Donatella Aspergi, la moglie, o meglio, la vedova del commercialista.

La Aspergi era una donna dotata di una eleganza naturale, di quelle che si incontrano raramente e che non riuscirebbero a risultare volgari neanche se lo volessero essere intenzionalmente, ‘insieme al marito dovevano fare proprio una bella coppia’ pensò il commissario appena si fu accomodata dall’altro lato della scrivania.

“Le esprimo il mio rammarico per l’accaduto. L’ho pregata di raggiungermi subito in commissariato perché ritengo che le ore immediatamente successive alla scoperta di un delitto siano cruciali per la ricostruzione dei fatti”.

“Capisco”

“Signora Aspergi, chi poteva volere la morte di suo marito?”

“Commissario, Alfredo era uno stimato commercialista, con una clientela facoltosa e non mi risulta che qualcuno si sia mai lamentato del suo lavoro o abbia avuto con lui diverbi tali da poter sfociare in un’aggressione”

“Quindi lei esclude che qualcuno potesse provare risentimenti dovuti all’attività professionale?”

“Nel modo più assoluto”

“Di recente ha avuto occasione di notare un atteggiamento diverso dal solito o qualcosa di strano nel comportamento di suo marito?”

Donatella Aspergi per un attimo abbassò lo sguardo, per poi rispondere: “No, anzi. Negli ultimi tempi era particolarmente di buon umore: presumo per il buon andamento dello studio”.

“Che cosa può dirmi dei due soci di suo marito, Gianluca Pisanti e Antonio Della Monica?” chiese Iezzo scorrendo l’informativa dell’ispettore Franzese.

“Gianluca e Antonio erano compagni d’università di Alfredo e vent’anni fa decisero di aprire insieme lo studio di via Verdi. In seguito hanno aperto altre due sedi dell’ufficio, a Milano e a Ginevra. Sono sempre stati intraprendenti, tutti e tre, anche se il vero motore delle attività dello studio era Alfredo”.

“Quali erano i rapporti fra i tre?”

“Buoni, molto buoni direi, visto che ci frequentiamo anche con le rispettive famiglie da quando loro sono in affari insieme e non ci sono mai stati screzi di alcun genere”.

“E i suoi rapporti con suo marito com’erano?”

La domanda, sparata a bruciapelo da Iezzo, sembrò non cogliere la donna alla sprovvista, quasi se lo aspettasse.

Tuttavia al commissario non sfuggì l’impercettibile inarcarsi di un sopracciglio della donna che precedette di un istante la risposta.

“Alfredo ed io siamo sposati…eravamo sposati da più di vent’anni; abbiamo due figli e il nostro è sempre stato un rapporto sereno, leale, basato sulla fiducia reciproca e un grande affetto che ci ha sempre legati. Non voglio neanche supporre che lei possa pensare che io abbia a che fare con la morte di mio marito” concluse la signora Aspergi, ostentando un accenno di risentimento nei confronti del poliziotto per quella domanda che considerava quasi un’insinuazione.

“Al momento non penso nulla – ribatté freddo Iezzo – ma di fronte a un morto ammazzato non ho esitazioni a fare domande di alcun genere, se le risposte mi possono mettere sulle tracce dell’assassino. Comunque per il momento non ho altre domande da farle e la ringrazio per la sua disponibilità”.

“Anzi, un’ultima cosa devo chiedergliela – disse Iezzo mentre congedava la donna –: come mai non si è preoccupata non vedendo rientrare suo marito a casa ieri sera?”

“Nel tardo pomeriggio mi aveva avvisato che aveva un lavoro urgente da svolgere e, se si fosse protratto a lungo, si sarebbe trattenuto a dormire nella foresteria dello studio: il che non era insolito”.

Poi fu la volta dei soci di Alfredo de Silvestri.

Il primo a essere ascoltato da Iezzo fu Gianluca Pisanti, un bell’uomo sui cinquanta, dalla parlantina fluida e, almeno all’apparenza, molto sicuro di sé.

“Mi perdoni se arrivo subito al punto – esordì Iezzo lasciando intendere al commercialista che non aveva nessuna voglia di girare intorno all’argomento- immagino si sarà chiesto chi potesse volere la morte del suo socio”.

“Ci ho pensato, non glielo nascondo, ma non mi viene in mente nessuno che potesse provare un tale risentimento nei confronti di Alfredo da arrivare a ucciderlo. Il nostro è uno studio molto ben avviato, con una clientela scelta e facoltosa che ci garantisce un introito ragguardevole. Curiamo gli investimenti dei nostri assistiti, garantendo loro considerevoli profitti. Offriamo una consulenza a 360° di cui sono tutti più che soddisfatti. Quindi, escluderei l’ambito professionale dalla ricerca dell’assassino”.

A Iezzo apparve subito chiaro che Pisanti volesse tenere lo studio al riparo da eventuali ripercussioni negative che potessero scaturire dall’omicidio del socio: il poverino era morto, ma gli affari venivano prima di tutto!

Ascoltando il terzo associato, Antonio Della Monica, appena rientrato da una trasferta di ventiquattrore allo studio di Milano, il commissario ebbe tutt’altra impressione.

Visibilmente scosso, l’uomo sembrava seguire il filo immaginario dei propri pensieri, alla ricerca affannosa di una motivazione che facesse luce sull’accaduto.

“Alfredo era l’anima dello studio- esordì Antonio con un filo di voce- Gianluca e io abbiamo solo messo in campo le nostre competenze professionali, ma i clienti li procurava Alfredo. Lo studio di via Verdi, il primo che abbiamo aperto vent’anni fa, non è nato dal nulla. I primi clienti li abbiamo, come dire, “ereditati” dal papà di Donatella, il dottor Nicola Aspergi. Agli inizi lavoravamo tutti e tre alle sue dipendenze; poi Alfredo sposò Donatella e quando di lì a poco il vecchio ebbe un infarto e morì decidemmo di aprire uno studio tutto nostro: per i clienti che già ci conoscevano fu naturale seguirci. Da quel momento è stato un crescendo professionale che ci ha portato a espandere la nostra attività di consulenza prima a Milano e poi a Ginevra. Chi può aver ucciso Alfredo?” chiese Antonio torcendosi le mani sudate.

“Veramente questa domanda vorrei farla io a lei, casomai avesse qualche sospetto” disse Iezzo osservando quell’uomo in preda all’ansia.

“Io, commissario, e cosa posso saperne?”

“Dottor Della Monica, non dico che lei ne sappia qualcosa, ma mi piacerebbe conoscere il suo punto di vista in proposito. So che oltre ad essere soci eravate amici e che le vostre famiglie si frequentano abitualmente. Fra ciò che mi ha raccontato, le notizie apprese da Gianluca Pisanti e quanto mi ha detto la signora Aspergi è emerso un quadro di rapporti professionali, familiari e personali idilliaci; ma, se Alfredo de Silvestri poche ore fa è stato ucciso, converrà che in quest’affresco c’è qualche sbavatura e vorrei che lei mi aiutasse a individuarla”

“Mi dispiace ma non saprei che dirle – rispose evasivo Della Monica provando a uscire dall’angolo in cui lo stava stringendo Iezzo – Alfredo era mio socio e mio amico e non immagino chi possa averlo assassinato”

‘Per adesso può bastare così’ pensò il poliziotto accomiatando il dottor Della Monica.

L’ultima a essere interrogata fu Elena Ruocco, la segretaria dello studio.

La Ruocco era alle dipendenze dei tre commercialisti da vent’anni.

All’epoca, con un diploma in ragioneria e la perfetta conoscenza della lingua inglese, era stata scelta fra diverse aspiranti: da allora aveva sempre lavorato lì.

“Signora Ruocco, immagino che anche lei non stia passando un bel momento, ma – le annunciò Iezzo con tutta la sensibilità di cui era capace – ho bisogno di farle alcune domande: se la sente di rispondere?”

Gli occhi della segretaria gonfi di lacrime erano il sintomo di un dolore che meritava rispetto, e quella donna era l’unica, fra le persone interrogate quella mattina, che aveva pianto per la morte di Alfredo de Silvestri.

“Chieda pure, commissario, per quello che posso…”

La dolcezza della voce e il garbo dei modi, con cui Elena dichiarò la propria disponibilità a rispondere, colpirono Iezzo, che già aveva avuto modo di notare una complessiva piacevolezza della figura della donna.

“Quando ha visto Alfredo de Silvestri l’ultima volta?”

“Il giorno in cui il dottor de Silvestri è stato ucciso, sono stata allo studio dalle 9 alle 18, come faccio ogni giorno. Il dottore è arrivato intorno alle 10 e si è trattenuto fino alle 12 e 30. Quando è uscito, mi ha detto che sarebbe andato un’oretta in palestra e poi a pranzo con un cliente. E’ tornato allo studio intorno alle 15 e 30 ed era ancora lì quando sono andata via alle 18. Quella è stata l’ultima volta in cui l’ho visto”

“Se ho ben capito, lei lavora in quello studio sin dalla sua costituzione: com’erano i rapporti tra i tre soci?”

“Da quello che so, loro già lavoravano insieme alle dipendenze del dottor Aspergi, il padre della signora Donatella; poi quando il titolare morì improvvisamente, a causa di un infarto, decisero di creare un nuovo studio associato e si trasferirono nell’attuale sede, più prestigiosa, di via Verdi 19. Sono sempre andati d’accordo fra loro, ma era Alfredo, il dottor de Silvestri, il vero motore dello studio. E’ stato lui a promuovere l’apertura delle sedi di Milano e Ginevra e questo ha dato un ulteriore slancio alla loro attività. Lo so perché spesso accompagnavo il dottor de Silvestri presso le altre sedi per coordinare l’attività delle segretarie che lavorano lì”

“Desumo che de Silvestri ritenesse prezioso il suo contributo per il buon funzionamento della rete degli uffici”

“Il dottore – precisò Elena Ruocco con una punta di orgoglio – si fidava della mia capacità organizzativa: una fiducia che, mi creda, ho guadagnato sul campo, in anni di puntuale ed efficiente lavoro svolto al fianco dei tre soci”

“La ringrazio, signora Ruocco. Al momento non ho altro da chiederle. Se dovessi avere ancora bisogno di lei, glielo farò sapere”

“Disponga pure di me, commissario, e spero che riusciate a trovare chi ha ucciso il dottor de Silvestri: non meritava di finire così”

Congedata la segretaria dello studio, Iezzo pensò che, per quelle prime ore d’indagine, non avesse molto, tranne alcune impressioni su cui avrebbe riflettuto con calma.

Così decise che sarebbe andato da Franca per sapere se c’erano novità sull’ora e la dinamica del delitto.

Prima, però, l’attendeva il resoconto di Franzese, che era andato in giro a fare domande con il suo inseparabile taccuino; per cui fece un bel respiro, bussò ed entrò nella stanza dell’ispettore.

Durante il corso della mattinata i soci della vittima e la segretaria avevano verificato che dallo studio non era stato sottratto nulla e quindi si poteva escludere che a uccidere Alfredo de Silvestri fosse stato un ladro colto sul fatto.

Franzese era anche andato in giro per il quartiere a fare domande e aveva potuto riscontrare che del commercialista parlavano tutti con particolare deferenza, quasi una sorta di rispetto.

Inoltre aveva appreso che la vittima era solita frequentare la palestra poco distante dallo studio, dove si recava almeno tre volte a settimana durante le pause dal lavoro; pertanto il poliziotto aveva ritenuto opportuno fare un sopralluogo in quello che si era rivelato un

centro fitness di lusso, il cui proprietario, Marco Colucci, era a sua volta cliente dello studio associato de Silvestri, Pisanti e Della Monica.

Quanto al resto sembrava non ci fossero chiacchiere sulla sua vita privata che potessero far presumere la presenza di amanti e quindi di mariti traditi in cerca di rivalse.

Infine, l’assenza di negozi, e delle relative telecamere di sorveglianza, nella zona residenziale di via Verdi, non aveva consentito di acquisire immagini che fossero d’aiuto a ricostruire i movimenti lungo quella strada nelle ore in cui era avvenuto l’omicidio di Alfredo de Silvestri.

Questo, in sintesi, fu il resoconto che Franzese avrebbe potuto riferire al commissario in meno di cinque minuti; in realtà il povero Iezzo dovette sorbire, per un’interminabile mezz’ora, un dettagliatissimo rapporto, zeppo d’inutili particolari e ripetizioni che più di una volta avevano rischiato di fargli perdere il filo del racconto.

Sacramentando in silenzio, Iezzo uscì dall’ufficio di Franzese e lasciò il commissariato per raggiungere la dottoressa Marino all’istituto di medicina legale.

Franca aveva ricevuto l’autorizzazione del magistrato a eseguire l’autopsia in tarda mattinata e quando il commissario Iezzo bussò alla porta del suo ufficio, adiacente alla sala mortuaria, stava completando la stesura del rapporto sull’esame autoptico effettuato sul cadavere di Alfredo de Silvestri.

“Se fremevi per rivedermi ti sarebbe bastato farmi una telefonata e sarei venuta io da te: lo sai che non rifiuterei mai un tuo invito, anche se mi chiami sempre e solo per motivi di lavoro” esordì con un tono di falso rimprovero la dottoressa Marino vedendo entrare il suo amico.

“Dai Franca, mi chiedo perché non perdi mai l’occasione per mortificarmi: evidentemente devi provare un sottile piacere nel punzecchiarmi di continuo”

“Che fai, Pasqualino, ora mi metterai il broncio come quando eravamo bambini?” ribatté maliziosa la donna avvicinandosi al commissario e baciandolo sulla guancia.

“Passata la bua?”

“Franca smettila di scherzare. E poi non capisco come fai a essere sempre così di buon umore con il lavoro che fai”

“Commissario, tu ed io abbiamo a che fare dalla mattina alla sera con i peggiori misfatti che le persone possano compiere; ma io, sin da quando ho cominciato a svolgere questo lavoro, che pure mi appassiona, ho sempre pensato che si trattasse, appunto, solo di lavoro. Tu te ne fai una malattia, che ti rode dentro e ti acquieti solo quando risolvi il caso; ma così non va bene, perché ne paghi le conseguenze nella tua vita privata. A proposito: ce l’hai ancora un’esistenza al di fuori del commissariato?”

Pasquale assorbì il colpo sotto la cintura infertogli dalle parole dell’amica senza replicare.

Del resto Franca aveva ragione.

Quel suo modo di essere gli era costato l’abbandono della moglie che un po’ alla volta, con il tempo, si era allontanata da lui.

Franca si rese conto di essere stata brusca, ma la passione che da sempre provava per il suo Pasqualino, ora che dopo il divorzio l’uomo era libero dai vincoli che fino a quel momento l’avevano trattenuta, reclamava di essere corrisposta.

“Perdonami, non volevo ferirti”

“No scusami tu. Il fatto è che dovrei apprezzare di più la tua gioia di vivere e lasciarmi contagiare; invece finisco con il trasmetterti il mio cattivo umore”

“Pasqualino lo sai che non posso avercela con te per più di cinque minuti al massimo” gli sorrise Franca pizzicandogli le guance con tutte e due le mani, come faceva da ragazzina per suggellare la pace fatta dopo un litigio.

“Ad ogni modo t’informo che Alfredo de Silvestri è stato ucciso fra le ventuno e le ventidue di ieri sera, con un solo colpo, violento, sferrato alla nuca con un oggetto metallico. Nulla di affilato, tipo lama di coltello; direi piuttosto una specie di poliedro, vista la lacerazione dei tessuti e la particolare frattura dell’osso occipitale. Azzarderei l’ipotesi che possa essere stato colpito con la base di una statuetta”

“Quindi l’assassino non è andato lì con l’intento di uccidere; probabilmente deve esserci stata una discussione che è degenerata, e la vittima è stata colpita mentre dava le spalle al suo carnefice”

“Esatto”

“Ma per avergli voltato le spalle, in quella che possiamo presumere sia cominciata come una lite verbale, non solo doveva conoscere l’omicida ma doveva anche fidarsi di lui”

“E’ un’ipotesi che sta a te verificare”

“Hai scoperto altro?”

“E dagli con questo hai scoperto altro: come te lo devo dire che il medico legale non scopre, ma esamina. L’autopsia non è una caccia al tesoro, ma un esame scientifico, in cui il paziente non può nascondere nulla”

“Franca, non ricominciare, per favore”

“E va bene. Qualche altra cosa l’ho scoperta”

“Vale a dire?”

“Il nostro Alfredo, poco prima di passare a miglior vita, aveva avuto un rapporto sessuale completo”

Erano da poco passate le diciannove quando il commissario Iezzo varcò il portone del palazzo in cui abitava.

Sull’uscio della portineria c’era la signora Carla, la moglie del custode, insieme al figlio Ernesto, un ragazzone di diciotto anni con una spiccata propensione per la musica, ma un piccolo problema.

“Dottore buonasera” disse cordialmente la portinaia.

La signora Carla nutriva un grande affetto e una smisurata ammirazione per quel commissario così distinto e taciturno che abitava nel suo palazzo e di cui spesso leggeva il nome sulla cronaca nera dei quotidiani, per i casi brillantemente risolti.

Ma Carla era riconoscente a Pasquale Iezzo soprattutto per l’attenzione che riservava a Ernesto.

“Buonasera Carla. Ciao Ernesto, come va?”

“Vaffanculo commissario, tutto a posto”

Ecco, era questo il piccolo problema di Ernesto: era affetto dalla sindrome di Tourette.

Nel ragazzo quel disturbo neurologico, oltre che per i non pochi tic nervosi, si caratterizzava per l’involontario turpiloquio che spesso faceva capolino nei suoi dialoghi.

“Ernesto, chiedi subito scusa al commissario” disse mortificata la moglie del custode.

“Tranquilla, Carla, lo sappiamo che non era intenzionale. Piuttosto, dimmi Ernesto: come procedono le lezioni di piano?”

Dall’età di dieci anni il ragazzo riceveva, gratuitamente, lezioni dal maestro Attilio Cuocolo, un virtuoso del pianoforte, amico di Iezzo. I due avevano stretto un’autentica amicizia anni addietro quando, agli inizi della sua carriera in polizia, il commissario aveva risolto il caso dell’omicidio della moglie di Attilio. Tutto faceva supporre che ad ammazzarla fosse stato il marito, perché avevano trovato le sue impronte digitali sul coltello con cui la donna era stata uccisa. Attilio, in lacrime e sconvolto per la morte della moglie, aveva giurato di aver estratto il coltello dal corpo della donna nel tentativo di soccorrerla. Il fermo e l’arresto erano stati inevitabili. L’indagine fu affidata a Iezzo, commissario fresco di nomina, perché si facesse le ossa con un caso di facile soluzione: sull’arma con cui era stata ammazzata la donna c’erano le impronte del marito. Restava da scoprire solo il movente. Il fascicolo arrivò sulla scrivania di Pasquale Iezzo dopo l’arresto di Attilio Cuocolo, cosicché il giovane commissario dovette recarsi in carcere per raccogliere la deposizione dell’accusato. Durante l’interrogatorio che seguì, Iezzo cominciò a nutrire dubbi sulla colpevolezza del Cuocolo e indirizzò le indagini verso altre piste. Così, in capo a tre giorni, scoprì che a uccidere la moglie del pianista era stato un collega d’ufficio della donna, respinto dopo l’ennesima avance. Attilio tornò libero e si legò a Pasquale di una sincera e ricambiata amicizia.

“Il maestro Cuocolo mi ha detto che fra poco non avrò più bisogno delle sue lezioni perché sono diventato proprio bravo”

“Sono contento. Se Attilio ti ha detto questo, non ci resta che prepararci ad assistere a un tuo futuro concerto: spero che m’inviterai?”

“Certo”

“Ora però vado a casa perché sono un pò stanco  e ho ancora diverse cose da fare”

“Che cazzo hai da fare a quest’ora?”

“Ernesto!”

“Tranquilla, Carla. A domani Ernesto”

“Vaffanculo, commissario”

E Pasquale non poté fare a meno di sorridere, ripensando che quel siparietto tragicomico, che si ripeteva quasi ogni sera, rappresentava la nota più lieve del cupo spartito di cui risuonavano le sue giornate da quando la moglie l’aveva lasciato.

Nel frigorifero non c’era un gran che, giusto degli affettati sottovuoto e uno spicchio di provolone: ‘Non proprio il massimo’ rifletté Pasquale.

Mentre si stava rassegnando alla frugalità di quel pasto serale, squillò il telefono di casa.

“Non dirmi che stavi già cenando” esordì la voce dall’altro capo del filo.

Era Enzo Esposito, suo carissimo amico da più di trent’anni.

“Che ne dici se andassimo a mangiare qualcosa insieme alla locanda di Simone?”

“Dio ti benedica, Vincenzo!”

“Ok, allora passo a prenderti con la moto fra un quarto d’ora”

Seduti a un tavolo appartato nell’accogliente ristorantino, i due amici decisero di affidare al giovane e talentuoso chef la scelta delle portate.

“Simone fai tu, come al solito, che come fai, fai bene” disse Pasquale rivolgendosi al cuoco.

“Enzo, stasera mi hai salvato dalla depressione cronica che mi stava assalendo quando ho aperto il frigo”

“Meglio così, no?” disse Enzo indicando gli antipasti che nel frattempo erano stati portati a tavola.

I due amici mangiarono di gusto e con grande appetito per circa un’ora, accompagnando le pietanze con un ottimo vino rosso consigliato dallo chef.

“Non è solo per il piacere di vederti che ho voluto cenare con te – disse Enzo mentre sorseggiavano due bicchierini di grappa barricata – Ho sentito dell’omicidio di Alfredo de Silvestri e c’è qualcosa che dovresti sapere”

Il riferimento all’indagine in corso colse un po’ alla sprovvista il commissario Iezzo; però, a pensarci bene, il dottor Vincenzo Esposito, oltre ad essere un suo caro amico, era uno dei più noti commercialisti della città.

Figlio di un operaio e di una casalinga, aveva studiato tanto, e lavorato ancor di più, per affermarsi nella sua professione, fino a divenire un punto di riferimento per tanti suoi colleghi.

“Non voglio sapere nulla dell’indagine che stai conducendo, anche perché so che non mi diresti niente; ma sono a conoscenza di qualcosa che penso possa tornarti utile”

Enzo fece cenno al cameriere di portare il conto e, dopo aver pagato e salutato Simone, i due uscirono dalla locanda.

Aspettando che l’amico cominciasse a parlare, mentre camminavano Pasquale accese l’immancabile toscanello aromatizzato al caffè con cui, ogni sera, chiudeva ufficialmente la sua cena.

“La questione è delicata e ciò che sto per dirti è strettamente confidenziale e lo sto dicendo all’amico”

“Ma l’amico è un commissario di polizia che sta seguendo un’indagine” fece per obiettare Pasquale, ma fu subito interrotto da Enzo che sapeva dove l’amico volesse andare a parare.

“Difficilmente scopriresti ciò che sto per rivelarti e, credimi, è una questione molto delicata”

“Ti ascolto”

Steso sul letto, Pasquale Iezzo provò a ricostruire mentalmente il puzzle di quell’indagine, di cui Enzo gli aveva fornito un tassello d’eccezione.

Il racconto dell’amico era partito da lontano, dal 1980.

All’epoca lo studio di Nicola Aspergi, il padre di Donatella, gestiva la contabilità di piccoli esercenti, di alcune aziende agricole dell’hinterland e di un paio d’imprese edili: era un professionista benestante, ma non ricco. La situazione cambiò dopo il terremoto del novembre di quell’anno. Nel gennaio del 1981 il geometra Gennaro Basile, titolare dell’Aurora Costruzioni Srl, di cui Aspergi curava gli interessi, si presentò allo studio del commercialista in compagnia di Giuseppe Sinagra, l’eminenza grigia di uno dei più potenti clan malavitosi della città. Al cospetto di don Peppino Sinagra, Nicola Aspergi capì che il suo lavoro e la sua vita erano di fronte a un bivio. E non ebbe dubbi sulla strada da scegliere. Di lì a poco l’Aurora Costruzioni cominciò ad aggiudicarsi gli appalti più redditizi della ricostruzione. Un fiume di denaro affluì nelle casse della società e anche il conto del commercialista cominciò a crescere. Il dottor Aspergi non si limitò a svolgere la sua attività professionale in quel cono d’ombra in cui le organizzazioni criminali condizionano le dinamiche imprenditoriali, ma seppe fare di più. Individuò le aziende in difficoltà finanziaria a causa del sisma e, con i soldi del clan, le rilevò per avviare il ciclo del riciclaggio; così, nel giro di poco tempo, i proventi delle attività illecite del suo principale cliente diventavano spendibili. Riciclato il denaro, le aziende chiudevano e il commercialista provvedeva ad assorbirne altre, incurante della perdita dei posti di lavoro. Il refrain si era ripetuto inalterato anche dopo la morte del dottor Nicola: era questa l’eredità lasciata ad Alfredo de Silvestri dal padre di Donatella.

Spegnendo la luce sul comodino, Iezzo pensò che fosse una dritta importante quella che gli aveva fornito il suo amico Enzo, all’epoca giovane ragioniere praticante dello studio Aspergi.

Alle otto meno un quarto della mattina successiva, Iezzo era già seduto a un tavolino del bar di fronte al palazzo di giustizia e stava aspettando il dottor Luigi Ametrano, il magistrato che seguiva le indagini dell’omicidio de Silvestri.

I due si conoscevano da tempo e li legava una reciproca stima professionale, consolidatasi in anni d’indagini condotte congiuntamente.

Solo il confronto fra i due caratteri strideva: riservato e schivo il commissario, estroverso ed espansivo il giudice.

“Commissario carissimo” esordì il magistrato accomodandosi accanto a Iezzo.

“Giudice, la ringrazio per avermi concesso quest’appuntamento così presto, ma avevo urgenza di parlarle”

“E se facessimo prima colazione, visto che siamo già al bar? Che ne dice? Cappuccino e cornetto? Qui hanno un cornetto ischitano, crema e amarena, che è una delizia per il palato” disse Ametrano avvicinandosi all’orecchio di Iezzo, quasi a voler condividere un segreto.

Gustata la prelibatezza consigliata dal magistrato, il commissario fece il punto sulle indagini e, mantenendo l’anonimato della fonte, rivelò il lato oscuro degli affari del commercialista ammazzato.

“Per cui- concluse il commissario – potrà ben comprendere che ho bisogno di accedere all’elenco dei clienti e alle scritture contabili delle società che hanno la sede legale negli studi di Via Verdi 19, di Milano e di Ginevra, e agli atti notarili della loro costituzione”

“Nient’altro?” disse ironicamente Ametrano, quasi a voler sottolineare la complessità della richiesta appena ricevuta.

“Sì, giudice, c’è un’altra piccola cosa: devo poter esaminare i movimenti sui conti bancari dei tre soci dello studio”

“Non le garantisco di poter esaudire rapidamente le sue richieste, ma vedrò cosa posso fare” rispose il magistrato salutando il commissario e dirigendosi verso l’ingresso della Procura.

La pista fiutata da Iezzo lo convinceva.

Prima di entrare in magistratura, Ametrano era stato anche lui in polizia, quel tanto che basta per restare “sbirro” dentro: avrebbe firmato subito il mandato con tutte le autorizzazioni richieste.

Nel frattempo Iezzo aveva detto a Franzese di raggiungerlo nel centro fitness frequentato da Alfredo de Silvestri.

La seconda visita della polizia, in meno di ventiquattr’ore, mise in agitazione Marco Colucci.

Il titolare della palestra aveva qualche precedente per traffico di sostanze anabolizzanti –steroidi – e in passato aveva subito un processo, in cui era stato assolto per insufficienza di prove, per induzione alla prostituzione: insomma, la compagnia delle forze dell’ordine non gli piaceva.

“Signor Colucci buongiorno, sono il commissario Pasquale Iezzo – disse il poliziotto presentandosi- Stiamo indagando sull’omicidio del dottor de Silvestri, come le ha già detto ieri l’ispettore Franzese e avrei bisogno di farle qualche domanda”

“Ancora – rispose risentito Colucci- ieri l’ispettore qui presente è stato più di un’ora a farmi domande su Alfredo e tutto quello che avevo da dire l’ho detto”

Per un attimo Iezzo provò, come dire, quasi una sorta di commiserazione per quell’uomo, pensando al supplizio rappresentato da un’ora di colloquio ininterrotto con Franzese.

Ma fu giusto un istante, poi sibilò “Vorrà dire che la convocherò in commissariato per ciò che ho da chiederle: a presto Colucci”.

E gli voltò le spalle per guadagnare l’uscita.

“Un attimo, commissario, mi avete frainteso – disse un più conciliante Colucci-. Non so che altro dirvi sulla morte del dottor de Silvestri, ma se avete ancora domande da fare approfittiamo che siete qui e fatele”

L’idea di rimettere piede in un posto di polizia, visti i suoi precedenti, non lo entusiasmava; e se voleva liberarsi di quel commissario, che aveva tutta l’aria di un segugio abituato a prendere le sue prede per stanchezza, era meglio rispondere alle domande, senza ulteriori indugi.

Il titolare del centro fitness rivelò così che il suo amico Alfredo era uno che ci sapeva fare con le donne e che non perdeva mai l’occasione per una nuova conquista.

La palestra era il suo territorio di caccia preferito, grazie alla ruffiana complicità che lo stesso Marco gli garantiva.

Non di rado capitava che il de Silvestri consumasse i suoi amplessi in un locale appartato del centro; insomma era un tombeur de femme senza scrupoli morali.

“Anche se ultimamente – osservò Marco, come se lo stesse notando solo in quel momento – Alfredo non sembrava più propenso a cogliere l’attimo e avventurarsi in nuove relazioni ”

‘Avrà avuto bisogno di ricaricare le batterie’, pensò ironicamente Iezzo mentre usciva dalla palestra e rifletté sul fatto che, dopo l’immagine del professionista integerrimo, era andata in frantumi anche quella del marito leale e fedele.

Era ancora in commissariato quando, a tarda sera, ricevette la telefonata del giudice Ametrano: aveva firmato le autorizzazioni richieste per procedere all’acquisizione della documentazione da esaminare.

Nelle quarantott’ore che seguirono, sebbene per nulla entusiasti dell’intrusione nei loro affari, Gianluca Pisanti e Antonio Della Monica, i soci di Alfredo de Silvestri, si attennero a quanto disposto dal magistrato e fornirono al commissario tutto ciò che aveva chiesto, movimenti bancari dei conti personali compresi.

Procedendo nell’esame della documentazione acquisita, Iezzo riscontrò che lo studio curava gli interessi di numerose imprese, presumibilmente intestate a vari prestanome del clan: era chiaro che quelle attività imprenditoriali servissero a ripulire i soldi sporchi, ma non c’era alcuna prova.

‘I tre commercialisti sono proprio bravi’ fu l’amara riflessione di Iezzo, che provò ad ipotizzare quale fosse lo schema criminoso messo in atto.

Innanzitutto gli emissari del clan consegnavano il contante da riciclare a imprenditori collusi; poi le società controllate dai malavitosi, tramite prestanome, emettevano fatture false

intestate a quegli stessi imprenditori; questi ultimi, a loro volta, pagavano le società con bonifici; e, alla fine, gli uomini del clan ritiravano i soldi puliti con ripetuti prelievi di somme modeste, per non dare nell’occhio. La procedura coinvolgeva numerose aziende ed era spalmata su decine di conti correnti bancari e postali sparsi sull’intero territorio nazionale. Per di più si potevano anche iscrivere le perdite al passivo sul bilancio delle varie società coinvolte nel riciclaggio e così evadere le tasse.

Ma di tutto questo non c’erano prove evidenti a carico degli studi di via Verdi 19, di Milano o di Ginevra, dove avevano sede legale le imprese, né riscontri palesi sulla riconducibilità delle stesse aziende agli affari illeciti del clan.

Al momento restava un’ipotesi.

‘Quando il giudice investirà la Guardia di Finanza delle indagini patrimoniali sulle cartiere coinvolte, saranno le fiamme gialle a scavare più a fondo ’ pensò Iezzo: lui doveva concentrarsi sull’omicidio.

‘Se sotto la guida di Alfredo de Silvestri e dei suoi soci gli investimenti del clan andavano a gonfie vele, il boss non aveva motivo di far uccidere il commercialista: quella pista era quindi da escludere’

Mentre seguiva il filo di questo ragionamento Iezzo sentì bussare alla porta del suo ufficio.

“Sì?”

“Si può?” chiese una voce di donna affacciandosi sulla soglia della stanza.

“Prego”

“Pasqualino!”

“Franca! Sono contento di vederti” disse Iezzo alzandosi per andare incontro all’amica.

“Sono due giorni che sei sparito dalla circolazione e, nell’ordine, ho pensato: l’hanno rapito gli alieni; è rimasto chiuso nel bagno di casa; è fuggito con una donna; sarà in ufficio a lavorare. Ti confesso che sono un po’ delusa di trovarti qui”

“Avresti preferito che mi avessero rapito gli alieni? E poi chi ti restava da prendere in giro? O che fossi rimasto intrappolato nel bagno per poter ridere di me?”

“In fuga con una donna non rientra neanche fra le possibilità, o sbaglio?”

“Se fossi scappato in compagnia di una donna, tu saresti stata la prima e l’unica a saperlo, non credi?”

La risposta, fra l’allusivo e il sibillino, riuscì, per la prima volta in assoluto, a spiazzare Franca, lasciandola per qualche secondo senza parole.

Che voleva dire il suo Pasqualino: che l’avrebbe informata in quanto sua migliore amica, o che avrebbe scelto lei per una fuga romantica?

A ridestarla da quell’attimo di smarrimento arrivò il delicato ganascino con cui il commissario le pizzicò la guancia.

“Comunque ci avrei scommesso che ti avrei trovato in commissariato” disse Franca riacquistando la sua abituale verve.

“E se riesci a staccarti dalle tue carte e mi offri una pizza, ti dico qualcosa che ancora non sai”.

Mezz’ora dopo Pasquale e Franca erano seduti in una pizzeria sul lungomare, davanti a uno specchio d’acqua illuminato dalla luna piena.

“C’era qualcosa d’insolito sul cuoio capelluto di Alfredo de Silvestri, proprio all’altezza della nuca, dove è stato colpito mortalmente – disse Franca -. All’inizio non ci avevo fatto caso perché era nascosto sotto il sangue raggrumito. Poi quando ho lavato la ferita e rimosso i residui ematici, è venuto fuori. Tu sai quanto io sia curiosa, per cui, anche se poteva apparire come un dettaglio insignificante, dovevo andare a fondo: indovina cosa ho scoperto, come dici tu?”

“Sai, ero proprio contento di essere qui con te a godere di questo incantevole chiaro di luna, davanti alla migliore pizza della città, bevendo due birre ghiacciate, e invece … non potevi proprio aspettare che finissimo di mangiare prima di addentrarti nella descrizione dei dettagli dell’autopsia? Non ti sembrava vero di poter evocare il sangue, proprio mentre mangiamo una pizza al pomodoro, eh? Dai, Franca, pare che tu lo faccia apposta!”

Più delle parole, fu l’espressione del viso di Pasquale a suscitare la risata di Franca: quel sorriso avrebbe riconciliato con se stesso anche il più burbero dei misantropi in lite con la propria immagine riflessa dallo specchio.

E Iezzo finì con il sorridere anche lui.

“Va bene – disse il commissario – ora che mi hai rovinato la pizza, e che ti sei divertita alle mie spalle, mi dici cosa hai scoperto?”

“Sulla pelle che ricopriva la nuca di Alfredo de Silvestri, proprio all’altezza del bordo superiore della ferita, ho notato qualcosa d’insolito, come se l’oggetto con cui è stato colpito avesse lasciato impresso un segno”

“Un’unica percossa, vibrata con una tale violenza da ucciderti sul colpo, lascia sicuramente il segno” sottolineò ironico Iezzo per punzecchiare l’amica che gli aveva tolto l’appetito raccontandogli i macabri dettagli dell’esame autoptico.

“Scemo – ribatté piccata Franca- ho il sospetto che si tratti di segni dell’alfabeto, lettere insomma; il che confermerebbe la mia supposizione che il de Silvestri sia stato colpito con la base di una statuetta su cui, probabilmente, c’era un’iscrizione in rilievo ”

Riaccompagnata Franca, che ancora una volta aveva sperato invano in un diverso epilogo della serata, tornando a casa Pasquale ripensò a quanto gli aveva riferito la sua amica: l’ipotesi lo convinceva, ma purtroppo dell’arma del delitto non c’era traccia.

La ricostruzione del quadro d’insieme appariva più complessa del solito: la vittima, era un donnaiolo, che curava gli affari sporchi di un clan malavitoso.

Ad averlo ucciso poteva essere stato un marito tradito o una donna abbandonata, a voler seguire la pista del delitto passionale.

Oppure l’omicidio era maturato nell’ambiente della criminalità organizzata.

Ma in questo caso gli avrebbero sparato, con un’esecuzione in piena regola, anche per dare il messaggio che non erano tollerati sgarri.

E se i due moventi si fondevano fra loro?

Se cioè Alfredo aveva una relazione con la donna di un criminale e quest’ultimo aveva deciso di vendicarsi per l’affronto e fargliela pagare?

In quel caso il de Silvestri doveva essere eliminato in modo che il suo assassinio non fosse riconducibile a un appartenente al clan perché, senza il permesso dell’anziano boss Peppino Sinagra, nessuno poteva torcere un capello al commercialista che curava gli affari della famiglia e se qualcuno fra i suoi uomini aveva la moglie zoccola, doveva tenersi le corna, ma de Silvestri non si toccava.

Così, inscenare un delitto al di fuori dei tradizionali canoni malavitosi, poteva essere la soluzione escogitata dal cornuto di turno per vendicarsi dell’offesa subita, senza dover incorrere nella punizione del boss, che di sicuro sarebbe stata una condanna a morte senza appello!

Iezzo ebbe la sconfortante sensazione che il filo dei suoi pensieri lo conducesse al cospetto di quelle scatole cinesi, che una volta aperte rivelano al loro interno solo la presenza di altre scatole vuote.

Assorto nei suoi ragionamenti, varcò soprappensiero la soglia del palazzo e non si accorse di Ernesto che stava fumando affacciato alla finestra della casa del custode.

“Buonasera commissario” disse il ragazzo.

“Ciao Ernesto, ancora sveglio a quest’ora?”

“Un’ultima sigaretta prima di andare a dormire”

“Pessimo vizio, ma sono il meno indicato per ricordartelo”

“E allora non dire niente e fatti i cazzi tuoi”

“Buonanotte, Ernesto”

“Vaffanculo, commissario”

Con quel saluto, ormai consueto, Ernesto gli ricordava che anche quella giornata stava volgendo al termine.

Era sveglio dalle sei e mentre sorseggiava il secondo caffè della giornata non poté fare a meno di pensare agli ultimi dettagli rivelati dall’autopsia eseguita da Franca: quei segni impressi sulla pelle del cranio di Alfredo de Silvestri e il rapporto sessuale consumato dalla vittima poco prima di essere ucciso.

Erano passati già quattro giorni da quando il commercialista era stato ucciso e non aveva un’idea precisa né del movente, né dell’arma del delitto.

‘Complimenti Iezzo’ pensò sconsolato il commissario ‘con l’età stai cominciando a perdere colpi ’.

La vibrazione del cellulare gli annunciò la chiamata di Franzese che, ne era certo, gli avrebbe rovinato la prima parte della giornata.

“Buongiorno commissario, sono Franzese, vi disturbo?”

“Non sono ancora le sette di mattina e già senti il bisogno di chiamarmi: ma ti fossi preso una cotta per me, ispettore? Che poi non ci sarebbe niente di male. Potrei capirti sai, non sono da buttare, sono il tuo capo, lavoriamo a stretto contatto molte ore al giorno: ci sta che può nascere del tenero fra colleghi! E poi lo sai che sono di vedute aperte.”

Sbigottito, per una naturale incapacità di cogliere al volo l’ironia, l’ispettore cominciò a balbettare fonemi incomprensibili, più simili a lamenti che a parole.

Convinto che con Franzese la sua vena sarcastica rischiasse il dissanguamento, Iezzo dovette chiarirgli che stava scherzando.

“Commissario mi avete fatto prendere un colpo; ho pensato: vuoi vedere che ho detto o fatto qualcosa che il commissario ha potuto equivocare? e mi sarebbe dispiaciuto. Chi glielo diceva a mia moglie che il commissario Iezzo pensava che fossi gay!”

“Peppino, – tagliò corto un esasperato Iezzo – perché mi hai chiamato?”

“Giusto commissario, mi avete fatto distrarre ed era una cosa importante”

“Era importante: ora non lo è più?”

“No, no, è ancora importante”

Pasquale ci era ricaduto, era più forte di lui: Franzese sembrava stuzzicare la sua predisposizione al sarcasmo.

“Stanotte Antonio Della Monica, il socio del de Silvestri, è stato ricoverato al policlinico in seguito a un incidente d’auto: è in coma!”

I neon degli ospedali suscitavano nel commissario sempre la stessa sensazione d’ansia, nonostante l’abitudine a frequentare quei luoghi di dolore e di speranza.

L’ispettore l’aveva preceduto e già stava annotando chissà quali informazioni sul suo inseparabile taccuino.

La malcapitata di turno era una bella donna, col viso stravolto, che sembrava rispondere meccanicamente alle incalzanti domande di Franzese.

A salvare la poverina, dal pressing asfissiante dell’ispettore, giunsero di lì a poco Gianluca Pisanti e Donatella Aspergi, l’altro socio e la vedova di Alfredo de Silvestri, che strinsero la donna in un abbraccio.

Tagliato fuori da quell’effusione d’affetto, solo allora Franzese si accorse della presenza di Iezzo che, poco distante, osservava la scena.

Deferente, l’ispettore si avvicinò al suo superiore pronto a sciorinare le informazioni trascritte sul block notes.

Rassegnato, Iezzo si predispose all’ascolto e venne a sapere che la donna si chiamava Laura Somma, era la moglie di Antonio Della Monica, aveva quarantacinque anni ed era a capo di uno studio di architetti molto noto in città.

Al momento dell’incidente, Della Monica era alla guida dell’auto della moglie.

Dalla pattuglia della polizia stradale, che aveva eseguito i primi rilievi sul luogo dell’incidente, Franzese aveva appreso che l’auto era stata tamponata a forte velocità – non c’erano tracce di frenata sull’asfalto – ed era finita nella scarpata dopo aver sfondato il muretto di cinta.

L’uomo al volante era rimasto ancorato al sedile di guida dalla cintura di sicurezza, ma l’auto si era ribaltata più volte prima di finire la sua corsa in fondo al dirupo, a decine di metri di distanza dalla sede stradale: quasi un miracolo che non fosse morto sul colpo.

Era in coma e i medici non si pronunciavano su quante possibilità avesse di potersi riprendere.

Sebbene fosse questo il succo della relazione di Franzese, Iezzo dovette pazientare per un buon quarto d’ora e ascoltare per intero il prolisso racconto del sottoposto, senza commettere l’errore di interromperlo, per non sentirlo ricominciare daccapo.

“Peppino, per cortesia, non sono ancora le otto, vedi un po’ se le infermiere hanno fatto il caffè e se te ne offrono un paio di tazzine”

“Vado subito, dottore, ma se l’hanno fatto ne chiedo una sola di tazzina di caffè, perché io già l’ho preso alla macchinetta poco dopo il mio arrivo in ospedale: comunque grazie per aver pensato anche a me, gentilissimo”

“Se c’è, portamene due lo stesso”

“Commissario, troppo caffè vi fa male: una tazzina non basta? Due insieme ve ne dovete prendere?”

“Franzese, se non è di troppo disturbo, sempre che nel frattempo non sia già finito, di tazzine fattene dare due, per piacere”

“Agli ordini Commissario, come comandate, mi faccio dare un bel caffè doppio, in una sola tazza”

“Peppino, stavo pensando che le infermiere, in quest’ospedale, il caffè lo devono fare proprio bello carico”

“E come fate a saperlo se ancora non l’avete bevuto?”

“Appunto, io non l’ho ancora neanche assaggiato, ma al solo pensiero di berlo già sono nervoso”

“Uh, commissario, e come mai?”

“Franzese, abbi pietà, vedi se riesci a farmi avere due, dico due, tazzine con del bel caffè caldo: vai, e non aggiungere altro”

Mentre l’ispettore si allontanava perplesso, Pasquale pensò che in un’altra vita dovesse aver fatto incazzare qualcuno di brutto, e in questa, per una sorta di contrappasso dantesco, gli era toccato dover sopportare Franzese per uscire in pari con i conti.

Nel presentarsi e porgere uno dei due caffè a Laura Somma, Iezzo ebbe modo di costatare che, da vicino, la donna era ancora più bella di quanto avesse già notato osservandola da lontano.

Pur nascoste dal soprabito, s’intuivano le forme generose del fisico, ma ciò che più colpiva era la perfetta simmetria del volto su cui spiccavano due occhi di un blu intenso: Pasquale pensò che non sarebbe stato difficile smarrirsi in quello sguardo.

“Signora Somma, lei ha riferito all’ispettore Franzese che suo marito era andato a ritirare la sua auto dal carrozziere perché un impegno di lavoro l’aveva trattenuta all’ultimo momento”

“Sì, commissario, un cliente si è presentato allo studio con un problema serio che doveva essere risolto subito, per cui ho telefonato ad Antonio pregandolo di andare a ritirare l’auto che era stata riparata. L’ho comprata appena il mese scorso e dopo qualche giorno qualcuno mi ha rigato il cofano a bella posta e quindi l’ho portata in carrozzeria. Ieri sera dovevo passare a ritirarla perché era pronta, ma, come le ho detto, sono stata trattenuta da un impegno improvviso. Commissario nell’auto dovevo esserci io e mi sento responsabile per l’incidente occorso a mio marito”

“Non si dia la colpa di ciò che è successo – disse Iezzo provando a consolare la donna dagli occhi blu –; non possiamo immaginare cosa ci riservi il futuro, bello o brutto che sia: l’imprevedibilità è parte della nostra vita”

Le parole pronunciate da Iezzo distolsero Laura dai cupi pensieri in cui era assorta e, per un attimo, alleviarono quell’angoscia che la stava consumando.

Lo sguardo riconoscente che rivolse a Pasquale era così naturalmente seducente che l’uomo non poté fare a meno di tornare col pensiero al gioco di sguardi che annunciava l’imminenza di ogni amplesso con sua moglie.

La sua ex moglie.

Era stata dura accettare la volontà della donna di separarsi definitivamente. Si stavano lasciando perché non trovavano più le parole per comunicare; forse non c’erano mai state, ma l’attrazione reciproca li aveva uniti quasi per istinto e il sesso, sempre appagante, aveva finito con il tenerli insieme così a lungo. I suoi silenzi, col tempo, l’avevano resa triste, il desiderio era scemato e la loro intesa sessuale ne aveva risentito fino ad affievolirsi sempre più. Venuto meno il cemento dell’attrazione fisica, il rapporto si era consumato fino a esaurirsi del tutto. E quando lei l’aveva lasciato, lui si era chiuso in un silenzio che gridava al mondo la sua ammissione di colpa.

Dell’auto che aveva tamponato Antonio Della Monica non c’era traccia: chi la conduceva non si era fermato né per prestare soccorso, né per avvisare la polizia o i carabinieri dell’accaduto.

Sul luogo dell’impatto non c’erano elementi sufficienti a fare chiarezza sulla dinamica dell’incidente e l’assenza di telecamere di sorveglianza, in quel tratto in cui la carreggiata formava una curva a gomito, non era di grande aiuto: ‘se avessero voluto far uscire di strada deliberatamente l’auto del commercialista – pensò Iezzo- non avrebbero potuto scegliere un posto migliore’.

“Prima l’assassinio di Alfredo, ora l’incidente ad Antonio: cosa sta succedendo?” si chiese Laura mentre Iezzo le accendeva la sigaretta che si era portata alle labbra appena furono usciti dal pronto soccorso dell’ospedale.

Pasquale non poteva fare a meno di osservare la moglie di Della Monica e pensare quanto fosse stridente l’assortimento di quella coppia in cui a un uomo dall’aspetto insignificante si accompagnasse una donna di una tale bellezza e sensualità, che solo per un caso fortuito era scampata a un incidente che avrebbe potuto ucciderla.

‘Cazzo! L’auto precipitata nel dirupo era della Somma e al volante doveva esserci lei! Se non si fosse trattato di un incidente causato da un pirata della strada, ma di un deliberato tentativo di far fuori quella donna?’

Mentre provava ad annodare i fili di pensieri apparentemente distanti l’uno dall’altro, il commissario si congedò da Laura Somma e in compagnia di Franzese, che lo aveva atteso in auto, fece ritorno in ufficio.

Per il resto della giornata Iezzo restò in commissariato a sbrigare quelle noiose pratiche amministrative che aveva momentaneamente accantonato per dedicarsi all’indagine sull’omicidio di Alfredo de Silvestri.

Solo nel tardo pomeriggio, complice un ricorrente brontolio dello stomaco, si rese conto di aver saltato il pranzo.

Fuori era scuro e già stavano subentrando gli agenti del turno di notte.

Nel silenzio del corridoio, che conduceva alla sua stanza, risuonò un ticchettio di passi femminili che non ebbe difficoltà a riconoscere.

“Entra Franca” disse Iezzo mentre la donna bussava alla porta.

“Se non avessi la certezza di essere l’unica donna che viene a trovarti in ufficio, sarei lusingata dal fatto che riconosci il mio modo di camminare dal rumore dei tacchi”

Sollevando gli occhi, che fino a quel momento aveva tenuto bassi sulle carte, Iezzo fu colpito dalla donna che, in un normalissimo tailleur pantaloni e dopo una giornata di lavoro, era più attraente che mai.

Franca, facendo finta di non aver notato lo sguardo ammirato di Pasquale, lo raggiunse dietro la scrivania per dargli un bacio sulla guancia, come faceva sempre quando s’incontravano da soli.

Questa volta, però, le sue labbra indugiarono qualche attimo più del solito sul volto dell’amico, che arrossì per l’imbarazzo.

“Sono venuta in commissariato, sperando di trovarti ancora qui, per invitarti a cena; e aspetta, prima che tu possa inventarti chissà quale scusa per sottrarti, voglio dirti che ho chiesto a Simone di riservarmi un tavolo per due fino alle nove. Ho pensato: se non gli basta l’invito di una bella donna, di sicuro non saprà dire di no alle prelibatezze cucinate dal suo chef preferito. Ora non ti resta che accettare, ma per cortesia lasciami credere che avremmo cenato insieme anche se ti avessi proposto un fastfood”.

La malinconica dolcezza di quelle ultime parole di Franca accarezzò il cuore di Pasquale che tornò a pulsare, di battiti dimenticati, per quella donna che aveva davanti a sé e che solo ora vedeva sotto una luce diversa.

Raccolse le sue cose dalla scrivania, prese Franca sottobraccio e uscirono insieme dal commissariato per raggiungere la locanda di Simone.

Seguirono il percorso di mare consigliato dallo chef e affidarono a due bottiglie di Biancolella d’Ischia il compito di condurli, almeno per quella sera, il più lontano possibile dai loro affanni quotidiani.

Mentre gustavano quell’unica porzione di cannolo scomposto che avevano ordinato per concludere la cena, Pasquale si chiese cosa potesse nascere dall’unione di due solitudini e Franca, come se gli avesse letto nel pensiero, in quello stesso momento gli accarezzò il viso.

Pagarono il conto, salutarono Simone e, in silenzio, si avviarono verso l’auto della donna.

Durante il tragitto verso casa del commissario, cosa alquanto insolita per Franca ma normale per Pasquale, i due restarono in silenzio.

Giunti a destinazione, Iezzo si girò verso l’amica per salutarla, incrociò il suo sguardo e finì per perdersi nel verde di quegli occhi.

Le note di “Take Five”, che annunciavano la prima telefonata della giornata per il commissario Iezzo, li trovarono ancora a letto, nudi e abbracciati come due teneri amanti che non vorrebbero separarsi.

Fu Franca a far notare a Pasquale che il suo cellulare squillava da un bel po’ e che forse, data l’insistenza, era il caso di rispondere.

Iezzo guardò quella splendida donna nuda stesa al suo fianco e, per la prima volta da quando si conoscevano, si rese conto di quanto fosse bella.

Quello sguardo carico di ammirazione non sfuggì a Franca che, con un pizzico di malizia, colse l’attimo per alzarsi dal letto con la scusa di recuperare il telefono di Iezzo, finito chissà dove nella concitazione della sera prima, che intanto continuava a squillare: cercandolo, offrì al suo Pasqualino una diversa prospettiva da cui farsi osservare.

“Dimmi Franzese- rispose Iezzo senza neanche guardare il display del telefono, poiché sapeva che solo quell’uomo avrebbe potuto spezzare la magia di quel momento- cosa è successo?”

“Commissario, pochi minuti fa hanno telefonato dall’ospedale: Antonio Della Monica è deceduto”

La notizia della morte del commercialista fece svanire l’incanto che aveva trasformato i due amici in amanti.

Giusto il tempo di un caffè e di una doccia e già erano pronti per uscire.

Nell’androne del palazzo incrociarono Ernesto, che mai avrebbe potuto perdere l’occasione di un caloroso vaffanculo mattutino al suo amico commissario e a quella bella donna che lo accompagnava, di cui ebbe modo di apprezzare le generose forme con un ammirato “che tette!”: di certo l’interesse del diciottenne per la sensualità di Franca Marino era dovuto al subbuglio ormonale tipico di quell’età e il complimento, non certo galante, espresso ad alta voce, fu solo in parte, almeno questa volta, ascrivibile alla sindrome di Tourette.

Mentre saliva le scale del commissariato e si preparava psicologicamente a sostenere l’urto del dettagliato resoconto di Franzese sul decesso di Antonio Della Monica, nella mente del commissario prendeva sempre più corpo la convinzione che l’auto del commercialista fosse stata volutamente tamponata per farla precipitare nel dirupo: in quel caso ora gli omicidi su cui indagare sarebbero stati due e, molto probabilmente, connessi fra loro.

Così la pista lo riconduceva allo studio dei tre soci, di cui ormai ne rimaneva solo uno.

Il ricordo della notte appena trascorsa fra le braccia di Franca aiutò Pasquale a sopportare pazientemente l’ascolto del tedioso rapporto stilato da Franzese sulla morte del secondo commercialista.

Quando un improvviso silenzio gli diede la certezza che l’ispettore non avesse più nulla da aggiungere, Iezzo dispose che Laura Somma, la moglie di Della Monica, fosse convocata in commissariato.

Appena la donna entrò nell’ufficio del commissario, Iezzo non poté fare a meno di notare che quei bellissimi occhi blu, che l’avevano colpito al primo incontro in ospedale, ora sembravano spenti e in quello sguardo si poteva leggere qualcosa che andava oltre il dolore, ma che il poliziotto non riusciva a decifrare.

“Signora Somma, mi dispiace molto per suo marito e ancora di più di averla convocata in commissariato in un momento così triste per lei, ma ho bisogno di chiederle alcune cose”

“Faccia pure, commissario, se può servire a fare chiarezza sull’incidente, ma non so cosa altro potrei aggiungere a ciò che le ho già detto ieri”

“Il fatto è che non credo si sia trattato di un incidente: l’auto è stata volutamente spinta fuori strada”

Di fronte all’affermazione di Iezzo, la donna impallidì e il commissario continuò.

“Antonio stava guidando la sua auto e solo per un caso non c’era lei al volante. Mi ha raccontato che avrebbe dovuto ritirarla dal carrozziere, ma era stata trattenuta da un impegno di lavoro e così aveva pregato suo marito di andarla a prendere: nell’auto volata giù nella scarpata avrebbe dovuto esserci lei. E questo è quello che credeva anche chi ha volutamente tamponato la sua auto per farla uscire fuori strada. Qualcuno la voleva morta. Chi può avercela con lei fino a questo punto?”

La rivelazione di Iezzo gettò la donna, già provata dalla morte del marito, nello sconforto più assoluto: volevano ucciderla e Antonio era morto al posto suo.

Iezzo chiamò Franzese e gli chiese di portare due caffè e una bottiglia d’acqua e, mentre aspettavano, riprese a interrogare la donna.

“Signora Somma, so che in questo momento è difficile, le chiedo, però, di fare uno sforzo e concentrarsi: provi a ricordare se negli ultimi tempi lei abbia avuto contrasti personali o professionali con qualcuno che potrebbe essersi risentito a tal punto da volerla uccidere”

La donna rimase alcuni istanti in silenzio, come se stesse provando a riavvolgere il filo degli avvenimenti delle ultime ore, che avevano visto suo marito morire e lei vittima mancata di qualcuno che, chissà per quale motivo, volesse la sua morte.

L’ingresso di Franzese con l’acqua e i caffè le fece riprendere il contatto con la realtà.

“Non ho idea di chi possa volermi ammazzare e tanto meno del perché voglia farlo”

“Eppure, se la mia ipotesi non è sbagliata, lì fuori c’è qualcuno che voleva ucciderla e non è escluso che possa riprovarci”

La sola idea di un assassino in agguato fece rabbrividire la donna, gettandola nello sconforto.

“C’è qualcosa d’insolito che ha fatto, anche inconsapevolmente, o che le è capitato di recente che può aver scatenato la rabbia omicida di qualcuno?”

“Commissario, conduco una vita tranquilla e penso di non aver fatto del male a nessuno”

“Cominciamo allora dal suo lavoro. Ha avuto screzi o discussioni con i colleghi?”

“Il nostro è un team di architetti molto affiatato, lavoriamo insieme da anni in grande armonia; per cui escludo che qualcuno di loro possa provare anche un minimo risentimento nei miei confronti”

“E riguardo a suo marito: quali erano i vostri rapporti?”

“Antonio era una persona tranquilla, ci volevamo bene”

“Quindi potremmo dire che il vostro era un matrimonio sereno, senza scossoni”

Il riferimento al rapporto sentimentale che la legava al marito provocò un improvviso quanto impercettibile irrigidimento della donna che non sfuggi a Iezzo.

“Antonio aveva un’amante?” chiese il commissario a bruciapelo.

“No, che dice”

“E lei? C’è qualcun altro nella sua vita?”

La domanda del poliziotto ebbe l’effetto di una doccia gelata su Laura Somma, che abbassò lo sguardo.

Le lacrime le rigarono il volto: Iezzo aveva colto nel segno!

Laura raccontò una storia uguale a tante altre.

Antonio era sempre più preso dal lavoro; rientrava a casa tardi, era taciturno, spesso nervoso e preoccupato. Si recava continuamente a Milano o a Ginevra, dove avevano sede gli altri due studi di cui era socio con Gianluca Pisanti e Alfredo de Silvestri. Negli ultimi tempi a casa si vedeva di rado e, quando c’era, non è che comunicassero più di tanto. Quei silenzi stavano logorando il loro rapporto; e Alfredo de Silvestri se ne era accorto. In occasione dei frequenti viaggi di Antonio fuori città, Alfredo ne approfittava per invitarla a pranzo o a cena, con la scusa di volerla aiutare a superare il momento di difficoltà che lei e il marito stavano attraversando. L’interessamento per la crisi coniugale si trasformò ben presto in un serrato corteggiamento; e divennero amanti.

Laura, dopo la confessione dell’adulterio, provò la sensazione di essersi liberata di un peso che la stava opprimendo fino a farle mancare l’aria.

I tratti del suo viso si distesero e, mentre accendeva l’ennesima sigaretta, fornì a Iezzo un tassello importante nel complicato puzzle dell’indagine sull’omicidio di Alfredo de Silvestri.

La telefonata di Pasquale, in tarda mattinata, suscitò in Franca l’eccitazione tipica delle adolescenti che ricevono un invito dal ragazzo di cui sono invaghite; ma la sua euforia era giustificata da un attesa durata anni.

Iezzo voleva sentire la voce di Franca, però, impacciato come al solito, non sapeva cosa dirle.

Fu la donna a toglierlo dall’imbarazzo di un balbettio che comunque le restituiva l’esatta misura dell’interesse di quell’uomo nei suoi confronti.

I due, dopo qualche velata allusione a quanto era accaduto la notte precedente, si accordarono per cenare insieme a casa di Franca.

“Ti ho preparato del sushi accompagnato da un prelibato sakè” esordì Franca accogliendo il commissario Iezzo, che rimase impietrito sulla soglia di casa della donna.

“Su dai, non restare lì impalato, accomodati a tavola mentre finisco di preparare, vedrai che prelibatezze”

Per un attimo Pasquale fu sul punto di scappare via.

Il sushi: perché Franca gli aveva fatto questo?

A lui, che non era mai entrato in un ristorante giapponese e per principio si era sempre rifiutato anche solo di assaggiare il sushi.

Franca lo raggiunse a tavola e si sedette al suo fianco.

L’abito di seta, indossato per l’occasione, esaltava la figura della donna.

Dimenticando per un attimo lo strazio che lo attendeva per cena, Pasquale guardava Franca, grato per aver avuto la pazienza di attenderlo tanto a lungo.

E si chiese perché, in passato, non avesse scelto lei.

Era andata così, ma per fortuna il loro rapporto ora si stava trasformando in qualcosa di diverso da una grande amicizia; e questo gli piaceva molto.

Franca notò che Pasquale era assorto in chissà quale pensiero e, per riportarlo a un presente che aveva agognato tanto a lungo, avvicinò le sue labbra a quelle di Pasquale e lo baciò.

La cena dovette attendere un po’ prima di essere consumata.

Quando più tardi Pasquale tornò a tavola, mentre Franca armeggiava in cucina, pensò che per quella donna avrebbe potuto mangiare anche il sushi!

“Et voilà, linguine ai frutti di mare e Falanghina del Sannio” disse Franca portando i piatti a tavola: era riuscita a prendersi gioco di lui ancora una volta.

L’orata al cartoccio, la macedonia di frutta e la delizia al limone completarono il menù preparato dalla dottoressa Marino per il suo amato commissario e resero Iezzo l’uomo più felice del mondo, anche per lo scampato pericolo della pietanza giapponese.

Mentre erano sul terrazzo a fumare, Pasquale informò Franca degli ultimi sviluppi dell’indagine sull’omicidio di Alfredo de Silvestri e dell’ipotesi che l’auto su cui viaggiava Antonio Della Monica fosse stata spinta deliberatamente fuori strada.

“In realtà, però, non volevano uccidere lui, ma sua moglie, Laura Somma. Una gran bella donna, che non mi spiego come potesse aver sposato un uomo dall’aspetto così insignificante”

“Pasqualino, devo essere gelosa? Non è che ti stai svegliando un po’ troppo dal letargo?” disse Franca fra il serio e il faceto.

“Chi vuole uccidere la moglie di Della Monica? E soprattutto perché?”

Quando le note di “Take Five” gli annunciarono l’inizio di una nuova giornata, queste domande continuavano a frullargli nella testa e ritenne doveroso informare il pubblico ministero che seguiva l’indagine dell’omicidio de Silvestri.

Il dottor Ametrano era già seduto al tavolino del bar di fronte al Palazzo di Giustizia quando Iezzo lo raggiunse a metà mattinata.

Appena il commissario si sedette, il magistrato fece cenno al barista di portare due caffè e si dispose all’ascolto del poliziotto.

In breve Iezzo lo informò del fatto che ritenesse la morte di Antonio Della Monica un omicidio, ma che il vero obiettivo dell’assassino fosse la moglie del commercialista; e rivelò al pm che Laura Somma aveva una relazione con Alfredo de Silvestri.

Perciò, se la sua intuizione era corretta, bisognava capire perché l’assassino di de Silvestri volesse uccidere anche la moglie di Della Monica.

Quella di Iezzo più che un’ipotesi sembrava una scommessa, ma Ametrano non era il tipo di persona che quando qualcuno indicava la Luna lui guardava il dito e dell’intuito di Iezzo aveva imparato a fidarsi già da qualche tempo.

Tornato in commissariato, Iezzo informò Franzese del colloquio con il magistrato e dispose che Laura Somma fosse sorvegliata, discretamente, perché non era da escludere che l’assassino potesse riprovare a ucciderla.

L’aria frizzantina della sera accolse Iezzo all’uscita dal commissariato, che tirò su il bavero dell’impermeabile e si avviò verso casa.

Mentre seduto sul divano guardava la televisione, passando distrattamente da un canale all’altro in una sorta di zapping compulsivo, Pasquale pensò che le indagini non l’avevano condotto da nessuna parte, che c’erano già due morti ammazzati e, al di là dell’essere soci, l’unico legame che univa l’omicidio di de Silvestri a quello di Della Monica era Laura Somma, amante del primo e moglie del secondo.

Riflettendo sconsolato sulla situazione, decise che il giorno dopo avrebbe fatto visita all’architetto Somma, per verificare se fosse saltato fuori qualche altro indizio utile a dipanare la matassa delle congetture che lo stava avvolgendo.

Lo studio dell’architetto Somma era al secondo piano di una palazzina in stile liberty nel quartiere più elegante della città e Laura era già in ufficio quando la segretaria gli annunciò che il commissario Iezzo era all’ingresso e chiedeva di essere ricevuto.

Il giorno prima si erano svolti i funerali del marito, ma gli impegni dello studio non consentivano alla donna di potersi concedere una pausa, neanche in un frangente così doloroso.

Laura fece accomodare Iezzo in un salottino appartato e si predispose all’ascolto delle domande che il commissario le avrebbe rivolto.

“Mi perdoni se sono venuto a disturbarla mentre lavora e in un momento non certo facile per lei, ma ho bisogno di farle una domanda e la prego di rispondermi con la massima sincerità”

“Dica pure, commissario, – rispose Laura- quanto alla sincerità, avendole confessato la mia relazione con Alfredo, penso che lei non abbia motivo di dubitarne”

“Signora Somma – riprese il commissario- mi creda, non è facile per me chiederglielo, ma ho bisogno di sapere se lei, la sera in cui è stato ucciso, abbia incontrato Alfredo de Silvestri allo studio di via Verdi 19”

La domanda di Iezzo, così diretta, lasciò, per un attimo, la donna interdetta che poi rispose: “Sì, commissario, quella sera Alfredo ed io ci siamo visti al suo studio. Mi aveva chiesto di raggiungerlo lì, dopo la chiusura e di aspettare, giù per strada, che la segretaria, la signorina Ruocco, fosse andata via. Solo dopo averla vista uscire dal palazzo, sono scesa dall’auto e l’ho raggiunto nello studio”

“L’esame autoptico – disse Iezzo – ci ha rivelato che Alfredo ha avuto un rapporto sessuale poco prima di essere ucciso”

La donna abbassò lo sguardo.

Non era necessaria una conferma esplicita.

Iezzo, però, da consumato investigatore, sapeva di dover approfittare dell’imbarazzo di Laura per porle una domanda cruciale proprio nel momento in cui era emotivamente più vulnerabile; per cui, a bruciapelo, le chiese: “Quando è andata via Alfredo era ancora vivo?”

“Se pensa che possa averlo ucciso io, si sbaglia: ne ero innamorata e non avrei potuto mai fargli del male”, rispose con inaspettata veemenza la donna.

Poi, placata la foga, riprese

“Il rapporto con Antonio si trascinava da anni, senza più alcun sussulto, in una calma piatta da cui Alfredo mi aveva tirato fuori, restituendomi la gioia di sentirmi desiderata. Mi creda commissario, non c’è nulla di peggio per una donna di essere diventata indifferente agli occhi del proprio marito. So che Alfredo prima di me aveva avuto altre donne, ma l’attrazione che provavamo l’una per l’altro si stava trasformando in qualcosa di più profondo, in un rapporto esclusivo. Non posso dirle cosa sarebbe successo in futuro: qualcuno ci ha negato la possibilità di scoprirlo”

“Quanto tempo si è trattenuta allo studio del de Silvestri?”

“La segretaria è andata via alle diciotto e subito dopo sono salita da Alfredo. L’ho lasciato poco prima delle venti e trenta: lo ricordo bene perché in auto ho acceso la radio proprio mentre davano il segnale orario che precede il notiziario delle venti e trenta”

“Uscendo dallo studio ha incontrato qualcuno per le scale o nel portone?”

“No commissario, non c’era nessuno”

“Le devo chiedere di tenersi a disposizione e di non lasciare la città: lei, se escludiamo l’assassino, è stata l’ultima persona ad aver visto vivo Alfredo de Silvestri e capirà che potrei avere bisogno di rivolgerle altre domande”

“Crede che sia stata io a uccidere Alfredo?”

Iezzo si trincerò dietro un formale ‘ A presto ’ e congedò da Laura Somma senza aggiungere altro.

Non era ancora mezzogiorno, ma non aveva alcuna voglia di tornare in commissariato a firmare la pila di scartoffie che si stava ammassando sulla sua scrivania; così decise di passare a salutare Franca.

Da qualche giorno gli era difficile stare a lungo senza vederla o sentirla e ripensò a quanto gli aveva confessato poco prima Laura Somma, sulla ritrovata gioia di essere desiderati da qualcuno: Franca lo desiderava, forse da sempre, e questo lo faceva sentire vivo come non mai.

La trovò seduta alla sua scrivania, intenta a stilare chissà quale referto, e rimase sull’uscio, senza entrare, limitandosi a osservare quanto fosse bella.

Passarono alcuni istanti prima che Franca si accorgesse della presenza di Iezzo e quando lo vide gli occhi le si illuminarono.

“Che bella sorpresa – disse sorridendo – spero non sia stato il lavoro a portarti qui da me; ma anche se fosse, va bene lo stesso. Pensavo proprio a te” gli confidò mentre si alzava per salutarlo e, richiusa la porta alle spalle dell’uomo, lo abbracciò baciandolo con passione.

Le mani di Pasquale corsero lungo le curve sinuose del corpo di Franca, che apprezzò molto lo slancio sensuale dell’uomo: finalmente la passione che provava per l’introverso poliziotto era ricambiata.

“Sono venuto perché avevo voglia di vederti – disse Iezzo mentre si staccava, dolcemente, dall’abbraccio di Franca – ma, a dire il vero, ho anche bisogno di un tuo parere in merito ad un’ipotesi che mi frulla nella testa da ieri sera”

“Per il trasporto con cui mi hai abbracciato poco fa, non ho alcun dubbio che tu desiderassi vedermi, e che non desiderassi solo quello, – sottolineò Franca con sapiente malizia- ; quindi ti concedo il beneficio del dubbio e voglio pensare che, trovandoti già qui con me, ti sia, poi, anche venuto in mente di chiedermi cosa ne penso di una tua certa idea”

“Le cose stanno esattamente così – rispose Iezzo stando al gioco della Marino -: il desiderio mi ha portato da te ma, visto che ci troviamo, ne approfitto per chiederti un’opinione su una mia supposizione a proposito degli omicidi di de Silvestri e Della Monica”

“Sentiamo”

“L’omicida ha colpito deliberatamente de Silvestri; invece, Della Monica è stato ucciso per sbaglio”

“Quindi sei convinto che l’incidente in cui è morto Della Monica sia stato provocato intenzionalmente, visto che parli di omicidio anche in questo caso”

“Sì, ma la vittima predestinata doveva essere Laura Somma, perché l’assassino ha spinto fuori strada l’auto della donna, immaginando che ci fosse lei al volante”

“E sei anche convinto che fra i due omicidi ci sia una correlazione”

“E’ proprio questo il punto: perché dopo aver ucciso Alfredo de Silvestri l’assassino voleva eliminare anche Laura Somma?”

“Bella domanda. Ma cosa ti fa pensare che possa esserci un legame fra i due omicidi?”

“Il fatto che Alfredo e Laura fossero amanti”

La rivelazione, inaspettata, della liaison fra i due lasciò Franca interdetta per un istante.

“Come lo hai scoperto?”

“Me l’ha confessato Laura Somma”

“Hai capito, la bella donna dagli occhi blu se la intendeva con il socio del marito” disse Franca in tono ironico, lasciando trasparire un pizzico di gelosia nei confronti dell’architetto.

Iezzo colse lo stato d’animo di Franca e si affrettò a rassicurarla.

“Guarda che Laura Somma, per quanto sia una bella donna, mi è indifferente”

“Sì, va bene”

“Franca, non ti ho rivelato la confessione della sua relazione con Alfredo de Silvestri per vederti fare la gelosa, ma per sapere quale possa essere, secondo te, il legame fra l’omicidio del de Silvestri e il tentativo di uccidere Laura Somma”

“Io non faccio la gelosa, io sono gelosa di te e, se proprio lo vuoi sapere, penso che la gelosia sia il movente di molte azioni sconsiderate”

Le parole di Franca ebbero l’effetto di illuminare una scena che, fino a quel momento, era rimasta avvolta dall’oscurità.

‘Come aveva fatto a non pensarci prima’ rifletté il commissario abbracciando Franca e baciandola appassionatamente, riconoscente per aver squarciato il buio in cui stava brancolando da giorni.

La gelosia.

Ma se Alfredo de Silvestri era stato ucciso in un raptus di gelosia, l’assassino era di sicuro una donna: la stessa che poi aveva tentato di uccidere anche Laura Somma.

Quindi l’assassina era al corrente della relazione fra i due e temeva che quel rapporto, come gli aveva confidato Laura, potesse diventare esclusivo, tagliandola fuori dalla vita di Alfredo.

Il pensiero di Iezzo corse subito alla vedova del de Silvestri.

Erano da poco passate le diciassette quando Donatella Aspergi entrò nell’ufficio del commissario.

“Spero si tratti di qualcosa d’importante, considerata l’urgenza con cui sono stata convocata – esordì, risentita, la donna – ho dovuto disdire un appuntamento per essere qui da lei e non è mia abitudine venir meno, all’ultimo momento, a un impegno già programmato”

“Mi scuso per la fretta con cui l’ho sollecitata a venire in commissariato e, mi creda, sono rammaricato per aver scombussolato i suoi programmi, ma c’è qualche aspetto della vita di suo marito che solo lei può aiutarmi a chiarire”

L’allusione a un lato oscuro della vita di Alfredo, su cui il commissario volesse far luce, non fu gradita dalla donna, che si mise subito sulla difensiva.

“Commissario, non capisco cosa intende dire quando si riferisce ad aspetti della vita di Alfredo che non le sono chiari”

“Ha ragione signora Aspergi e, poiché non voglio offendere la sua intelligenza, sarò franco. Quando l’ho sentita la prima volta, dopo l’omicidio di suo marito, lei mi ha descritto un quadretto coniugale idilliaco; le indagini, però, ci hanno rivelato ben altro”

“Cioè?” replicò Donatella, con falsa indifferenza.

“Suo marito la tradiva; ma, forse, questo lei già lo sapeva: o mi

o mi sbaglio, signora Aspergi?”, la buttò lì Iezzo, senza altri preamboli.

etro cui si era nascosta la donna fino a quel momento.

Non era più il caso di fingere e Donatella decise di raccontare quanto fosse stato frustrante, nel corso degli anni, far finta di nulla di fronte alle tresche del marito con le sue innumerevoli amanti.

All’inizio, quando aveva scoperto che Alfredo la tradiva, non erano mancate le scenate di gelosia.

In seguito lui era diventato solo più discreto, ma non aveva rinunciato alle sue relazioni extraconiugali e Donatella, fatti due calcoli, non era disposta a rinunciare alle agiatezze garantite da quel matrimonio.

Alla fine i due, di comune accordo, avevano deciso di continuare a vivere insieme, ma solo per salvare le apparenze.

“Banale come epilogo: non trova commissario?” concluse la Aspergi recuperando il consueto autocontrollo che era il tratto distintivo del suo carattere.

Dopo aver ascoltato la donna, Iezzo si convinse che lei non avrebbe mai agito d’impulso e ucciso suo marito, neanche in un raptus di gelosia.

Da fredda calcolatrice, sapeva bene che ciò avrebbe significato dover rinunciare al lusso in cui viveva; e Donatella Aspergi non era il tipo di donna abituata alle rinunce.

Rimasto solo, dopo aver congedato la vedova de Silvestri, Pasquale Iezzo dovette costatare di aver aperto l’ennesima scatola vuota.

Gli restava solo la ferma convinzione che l’omicida fosse una donna: ma chi?

La domanda, senza risposta, sull’identità dell’assassina agitò la notte del commissario Iezzo.

Oramai erano trascorsi otto giorni da quando Alfredo de Silvestri era stato ucciso e le indagini non erano ancora approdate a nulla.

Certo, aveva stabilito un nesso fra gli omicidi dei due commercialisti ed era convinto che il movente fosse la gelosia; ma chi, fra le tante donne avute da Alfredo, di cui peraltro ignorava le identità, avrebbe provato un tale rancore da indurla a ucciderlo e tentare di eliminare anche Laura Somma?

A sentire Marco Colucci, il titolare del centro fitness che frequentava il de Silvestri, e che era solito fare da paraninfo al suo amico commercialista, quelli di Alfredo erano rapporti da ‘toccata e fuga’ con donne sempre diverse.

Di conseguenza era difficile che qualcuna di loro potesse sapere della relazione nata far Alfredo e Laura e addirittura provare un risentimento tale nei loro confronti da volerli morti.

No, questa ipotesi non stava proprio in piedi.

Quindi?

Quindi doveva esserci una donna che aveva un rapporto stabile con il de Silvestri e, quando ha intuito che quella con Laura Somma non era l’ennesima scappatella, ma qualcosa di più, ha temuto di perdere il suo Alfredo.

Una donna capace di tollerare le avventure di un giorno, ma che non avrebbe mai potuto accettare di essere messa da parte: devota al suo amante, disposta a subire i rapporti di Alfredo con altre donne e ad accontentarsi dei momenti in cui tornava da lei, ma non a perderlo.

‘Cherchez la femme’ , certo, ma chi era la donna?

Chi, fra le donne che de Silvestri conosceva e frequentava, l’aveva raggiunto allo studio dopo che Laura Somma era andata via, e per quale motivo?

Sicuramente una della quale si fidava, la cui presenza allo studio, in tarda serata, non aveva destato in Alfredo alcun sospetto.

Un dubbio lo assalì.

‘No, non poteva essere stata lei’

Iezzo provò a convincersi del contrario, ma lo sbirro che era in lui continuava a insistere: l’ha ucciso lei!

Un’ora dopo, la donna era seduta di fronte a lui.

L’inaspettata telefonata di Iezzo l’aveva raggiunta appena rientrata a casa e, con il consueto garbo che la caratterizzava, si era resa subito disponibile a raggiungerlo in commissariato.

Il poliziotto premuroso, che aveva incontrato poco più di una settimana prima, era però diverso dal freddo investigatore che ora aveva davanti.

“Ho ragione di credere che lei fosse allo studio di via Verdi la sera in cui Alfredo de Silvestri è stato ucciso”

L’affermazione di Iezzo fu pronunciata con un tono inquisitorio che non lasciava spazio a repliche.

Senza attendere la risposta della donna, il commissario proseguì.

“Quando ha visto la signora Somma uscire dal palazzo dove ha sede lo studio, in un orario così insolito, ha capito che l’unico con cui poteva essersi incontrata era Alfredo, visto che Antonio Della Monica, il marito di Laura, era a Milano, come lei ben sapeva. A quel punto è salita su e ha affrontato Alfredo, chiedendogli spiegazioni. Vuole che continui o preferisce dirmi lei cosa è accaduto dopo, signora Ruocco?”

Per Elena, essere stata scoperta, fu quasi una liberazione.

E cominciò a raccontare.

Aveva ventidue anni quando fu assunta allo studio e le sembrò di toccare il cielo con un dito. Dopo il diploma aveva svolto solo lavori saltuari e sottopagati presso alcuni esercizi commerciali, dei quali curava la contabilità. Poi aveva risposto a quell’inserzione, che cercava

una diplomata in ragioneria con conoscenza della lingua inglese, e si era presentata allo studio di via Verdi. I tre soci erano rimasti colpiti dalla preparazione della ragazza e l’avevano assunta. Lei era rimasta colpita da Alfredo. Quel trentenne di bell’aspetto, galante e raffinato, così sicuro di sé nella vita come nel lavoro, riusciva a esercitare su di lei un’attrazione che presto si trasformò in qualcosa di più. Pensava di aver trovato l’amore, invece si stava perdendo. La relazione con Alfredo iniziò dopo qualche mese ed era convinta che il suo amore fosse ricambiato. Ben presto, però, capì che per Alfredo si trattava solo di sesso, oltretutto comodo, perché a portata di mano sul luogo di lavoro. Un oggetto sessuale a sua disposizione, quando non aveva tempo o voglia di accompagnarsi ad altre donne. Era questa la schifosa realtà con cui si era trovata a fare i conti: eppure non poteva fare a meno di lui. Sapeva che era un rapporto tossico, dal quale avrebbe dovuto tirarsi fuori con ogni mezzo; ma quell’uomo gli era entrato nel sangue, oltre che nella carne, e andava bene anche così. Col tempo si abituò ad accontentarsi di fugaci rapporti, fra un’amante e l’altra, convinta di essere l’unica costante nella vita del suo Alfredo. E quando l’uomo le rivelò che con la moglie era tutto finito, sperò in qualcosa di più. Negli ultimi tempi, però, Alfredo aveva smesso di cercarla, arrivando addirittura a trattarla in maniera sgarbata quando lei tentava un approccio per sedurlo. Che cosa può esserci di peggio del rifiuto dell’uomo che si ama? La paura di perderlo per sempre; e quella eventualità rischiava di farla impazzire. Alfredo era diventato molto riservato e le loro conversazioni si limitavano solo a questioni di lavoro. Ormai non riteneva più necessaria la sua presenza quando si recava agli studi di Milano o di Ginevra e questo la faceva stare male: erano quelle le rare occasioni in cui poteva averlo tutto per sé, anche se solo per il breve spazio di pochi giorni. Dormire e svegliarsi con lui accanto, seppure in una stanza d’albergo, le dava l’illusione di vivere quel rapporto di coppia che tanto desiderava. Stava finendo tutto e non capiva neanche perché. Il motivo l’avrebbe scoperto proprio in quella tragica sera in cui era tornata in via Verdi. Uscita dallo studio, non aveva voglia di andare subito a casa e così aveva deciso di fare una passeggiata lungo il corso. Era quasi l’orario di chiusura quando si soffermò a guardare la vetrina di un negozio di antiquariato. Una statuetta di bronzo attirò la sua attenzione. Raffigurava due amanti, le cui nudità erano celate dall’abbraccio che univa i loro corpi; ma ciò che la colpì fu l’incisione in rilievo impressa sulla base: ‘Le cose che si amano non si posseggono mai completamente. Semplicemente si custodiscono’. L’antiquario le aveva rivelato che la frase era di Catullo e lei pensò che non si potesse esprimere meglio il sentimento che provava per Alfredo: non l’aveva mai avuto tutto per sé, ma l’avrebbe sempre amato. Acquistò la statuetta e decise di tornare allo studio: l’avrebbe lasciata sulla scrivania di Alfredo, e lui avrebbe capito. Era già in prossimità dell’ingresso del palazzo quando vide Laura Somma uscire dal portone e salire in auto. Se Antonio era a Milano, perché quella donna si trovava lì? Fece le scale di corsa, entrò nello studio e vide che c’era Alfredo. Fuori di sé, pretese una spiegazione sulla presenza di Laura, ma Alfredo la redarguì in malo modo, dicendole che non doveva permettersi di interferire nella sua vita e che non tollerava le sue scenate di gelosia. Riuscì a essere ancora più cattivo, confessandole il suo amore per Laura, e che con lei era stato solo sesso. Fu un attimo e la sua mano, stretta intorno ai corpi dei due amanti abbracciati, si alzò per colpire Alfredo.

La segretaria confessò al commissario anche il tentato omicidio della Somma, che aveva portato alla morte di Antonio Della Monica: Laura gli aveva rubato l’amore e non meritava di continuare a vivere.

Quell’amore malato le aveva fatto perdere il senno e compiere lo scempio che ne era seguito.

Mentre gli agenti la portavano via dal commissariato, Iezzo pensò che se Elena avesse compreso il vero significato della frase di Catullo, che era ben diverso da come lei l’aveva interpretato, forse non avrebbe comprato la statuetta e non sarebbe tornata allo studio e…

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