martedì , Aprile 23 2024

“L’ultima notte” di Renata Rusca Zargar

L’ultima notte

di Renata Rusca Zargar

Oetzi camminava un po’ ansimante lungo il sentiero che si inerpicava su per la montagna. Il mantello di lunghi fili d’erba intrecciati e annodati che portava sulle spalle e che, di solito, gli serviva per ripararsi dal freddo e dalla pioggia, quel giorno, lo appesantiva. Infatti, aveva dovuto fuggire dal piccolo villaggio dove aveva sempre vissuto e trasportava tutte le sue cose con sé.

Di là dal sentiero, tra le cime che stava percorrendo, esistevano altri villaggi dove avrebbe trovato rifugio. Il tempo era ancora buono e, anche se aveva con sé solo un pezzo di carne secca e un frutto di prugnolo, avrebbe trovato qualche bacca lungo la strada e sarebbe arrivato a un gruppo di case prima che iniziasse la stagione delle nevi. Anzi, appena giunto, avrebbe finito di intagliare il suo arco la cui asta in legno di tasso era rimasta incompiuta per la fretta di fuggire. Om, l’uomo che aveva preso il suo posto al villaggio scacciandolo, non gli aveva dato, certo, il tempo di ultimare i suoi lavori. Se avesse avuto bisogno di combattere durante il viaggio, però, avrebbe potuto adoperare l’ascia che aveva costruito diverse stagioni prima, utilizzando il legno di tasso che prediligeva e il rame per la lama, chiusi insieme dal catrame di betulla. Oppure avrebbe sfoderato il suo pugnale di selce con il manico di frassino che portava sul fianco destro, assicurato alla cinghia. Oetzi era un abile intagliatore e sapeva bene che spesso la sopravvivenza di un uomo impegnato a lottare, magari contro un orso, dipendeva anche dalla resistenza delle sue armi.

Quando si sedeva all’ombra della capanna tutto intento a lavorare per aggiustare o costruire qualche strumento, Kol, che invece separava il grano dalla paglia proprio là vicino, lo guardava con i suoi occhi blu come il cielo luminoso che si stendeva sopra le cime degli alberi. Allora le mani di Oetzi divenivano più capaci e veloci.

Kol… Egli aveva dovuto lasciarla a Om, insieme a Itzi. Che ne sarebbe stato di loro?

Il sentiero si restringeva man mano che le rocce prendevano il posto della sterminata foresta. Gli ultimi raggi di sole si infiltravano tra i rami delle betulle, degli abeti rossi e dei pini, scherzavano quasi, producendo lame di luce che squarciavano l’ombra umida del sottobosco. Stava scendendo la sera e conveniva trovare una grotta dove accamparsi. Là avrebbe acceso il fuoco (a tale scopo portava con sé la sua ciotola di corteccia di betulla con le braci) e si sarebbe almeno riscaldato. Forse, una volta raggiunti altri uomini, avrebbe potuto raccontare la sua storia e trovare aiuto.

Om era arrivato al villaggio prima del tempo della grande neve. Era giovane e forte, recava con sé, oltre a bacche, mele selvatiche e nocciole, una lince appena uccisa. Tutti gli avevano fatto festa e avevano condiviso il suo cibo. Una delle capanne della tribù era da poco rimasta vuota per la morte di uno degli uomini durante una battuta di caccia al bisonte. Egli avrebbe potuto prendere il suo posto, vivere nella capanna, collaborare con gli altri per l’approvvigionamento di cibo e tutti gli appartenenti al clan avrebbero potuto contare su di un uomo giovane e forte in più. Per questo nessuno gli aveva chiesto da dove venisse e perché avesse lasciato il suo villaggio.

Poi, la neve aveva ricoperto ogni cosa. La vita nel piccolo gruppo di case era attenuata dal freddo e solo qualche volta gli uomini si avventuravano al di là degli alberi per uccidere degli animali con i quali sostenere donne, bambini e vecchi. Om si univa agli altri nella caccia e tornava ogni volta con qualche preda.

Intanto, Kol era diventata donna ed era pronta a lasciare la capanna del padre per andare nell’abitazione di un giovane uomo. Oetzi aspettava da molte stagioni il momento in cui ella sarebbe andata a vivere con lui. Kol gli toccava, infatti, perché tutti gli altri maschi (escluso Om, ma egli non lo includeva nel calcolo) avevano già una compagna. Spesso si attardava a osservare il suo corpo che si stava trasformando, gli occhi blu, come la volta del cielo della sera, o i capelli lunghi e gialli, come il grano che raccoglieva nei campi… Anch’ella lo guardava, aspettando un suo cenno.

Così, una gelida notte all’inizio della lunga stagione invernale, Oetzi era andato alla capanna di Motz, il padre di Kol, a prenderla. In cambio aveva lasciato una falce con la lama di selce da lui stesso costruita e una pecora ancora giovane.

Kol aveva allietato a Oetzi il tempo dell’attesa della bella stagione.

Allora, appena la neve aveva iniziato a sciogliersi, egli era andato alla ricerca di una poiana. Dopo averla catturata, ne aveva usato gli artigli per fare una collana da regalare a Kol. Quando la sera stessa gliel’aveva infilata al collo, gli occhi di lei si erano illuminati di pagliuzze dorate che sembravano stelle e le sue braccia dalla pelle liscia, come le corolle dei fiori che spuntavano dalla terra non appena la neve se ne andava via, avevano cinto le sue spalle e l’avevano riscaldato di un fuoco che non aveva bisogno di legna da ardere.

Lungo il sentiero in salita, spingendo avanti lo sguardo, Oetzi aveva visto, vicino a un grande masso, un’apertura: si sarebbe sistemato al riparo delle rocce e si sarebbe riposato un poco.

Proprio in quell’attimo, però, aveva sentito un dolore atroce trafiggergli la spalla sinistra. Girandosi per vedere ciò che fosse successo, aveva scorto l’arma infilata nel suo corpo e, contemporaneamente, più in basso, il viso di Om che spariva con un ghigno tra i cespugli. Dunque, egli l’odiava tanto da averlo seguito fin lassù, per colpirlo a tradimento!

Faticosamente, Oetzi si era trascinato alla grotta. Aveva sistemato all’interno, appoggiate a una lastra di pietra verticale leggermente inclinata, la sua gerla di legno ed erba che conteneva quei pochi oggetti che aveva portato con sé e la faretra con le asticciole delle frecce. Prima di tutto aveva cercato di togliersi di dosso la freccia che l’aveva colpito. Con un grande sforzo e tanto dolore, era riuscito, però, a staccare solo l’asticella mentre la punta era rimasta conficcata all’interno della ferita. “Non fa niente,” pensava Oetzi “molte altre volte la mia pelle è stata lacerata nella lotta contro qualche animale. Anzi, una volta, un orso sanguinario mi ha squarciato il petto. Brandelli di carne si sono staccati e parecchio sangue è uscito dalle ferite, rendendomi debole per tanto tempo. Ma, infine, sono guarito e sono tornato a cacciare più forte di prima! Ho mangiato il poliporo, sì, quel fungo dall’aspetto ripugnante che cresce sulle vecchie betulle e sono guarito. Sarà così anche questa volta, prenderò quella medicina, guarirò, raggiungerò un altro villaggio, racconterò di Kol e Itzi… Qualcuno mi aiuterà.”

Oetzi si era sdraiato a terra, avviluppandosi nel suo mantello e stringendo le bande di cuoio del cappello di pelliccia sotto il mento. Subito era caduto in un dormiveglia leggero: Om, ecco, era giunto fin là, lo colpiva ferocemente con l’ascia, il suo sangue sgorgava dalle ferite e si spargeva intorno mentre il suo avversario rideva, rideva…

No, non vi era traccia di Om: ormai se n’era andato credendo di averlo ucciso, non doveva più temere! Oetzi aveva aperto gli occhi: la notte era scesa piuttosto buia e fredda. Batteva i denti. Allora, con fatica, aveva aperto il marsupio di vitello conciato che teneva legato in vita e ne aveva estratto l’occorrente per accendere il fuoco (la ciotola con le braci gli doveva essere caduta da qualche parte): un pezzo di pirite, un nucleo di selce, una miccia di lapacendro… Allungando la mano aveva tolto dalla gerla dei pezzetti di legno e, con poche mosse, era riuscito ad accendere il fuoco.

La fiamma scoppiettava leggera, le sue punte si allungavano da una parte e dall’altra creando un alone di luce contornato da ombre nere. Il calore si spandeva sul suo corpo intirizzito ed egli si era raggomitolato ancora di più sotto il prezioso mantello d’erba. Doveva mangiare la sua carne di stambecco per riprendere forza, anche se ora gli sembrava dura e insapore. Eppure, era stata Kol a prepararla, tagliando lunghe strisce di carne e appendendole alle travi del tetto in modo che il fumo del focolare, una volta raffreddato, le facesse essiccare. Era un cibo molto nutriente, ma in quel momento lo trovava immangiabile.

Oetzi non aveva molta legna con sé: partendo, aveva pensato che avrebbe trovato rami ovunque, lungo il cammino. Ma ora non era in grado di procurarseli. Non riusciva, infatti, quasi a muoversi e il fuoco, non più alimentato, stava diventando debole.

Nella luce sempre più fioca, l’immagine di Kol danzava nell’aria. Gli veniva incontro, dolcissima, con il loro bimbo tra le braccia e i morbidi capelli biondi che contornavano il viso fresco e scendevano lungo le spalle…

Poi appariva Om, proprio come quel giorno che l’aveva sfidato a combattere per lei. Chi avesse vinto, avrebbe avuto Kol. Oetzi non voleva combattere perché Kol era ormai sua di diritto: il padre di lei gliel’aveva data! E poi nella stagione calda era nato un bimbo. Anzi, quando il piccolo Itzi era nato, Oetzi si era praticato un tatuaggio incidendo la pelle e sfregandola con carbone di legna polverizzato: egli avrebbe segnato la nascita di ogni loro figlio sul suo corpo, anche se usava sottoporsi a tatuaggi solo per lenire il dolore alla schiena e alle gambe. Avrebbe cresciuto Itzi facendolo diventare un forte cacciatore. Tutto il villaggio sarebbe stato fiero, un giorno, di quel giovane cacciatore!

Oetzi non provava odio per Om: l’aveva accolto volentieri nel clan, aveva compiuto molte battute di caccia insieme a lui e sempre avevano collaborato per uccidere i grandi orsi. Gli aveva insegnato molti segreti per intagliare le armi, aveva diviso grano e bacche durante il lungo inverno. Ancora poco tempo prima avevano raccolto, tutti insieme, il farro nei campi intorno al villaggio! Ma ora Om pretendeva di portargli via la donna e il bambino ed egli avrebbe dovuto ingaggiare una lotta che ristabilisse i suoi diritti!

«Avanti, battiti!» gli urlavano gli uomini, mentre le donne, lasciate per un po’ le loro usuali occupazioni, osservavano con i bambini in braccio.

Infine, Om aveva vinto, lo aveva colpito duramente, costretto a terra con il viso nel fango. Con un piede sulla sua schiena gli aveva detto: «Vattene, ti lascio salva la vita, ma devi andartene. Stasera stessa Kol sarà nella mia capanna.»

«E Itzi?» aveva chiesto Oetzi senza respiro.

«Non so, vedremo, se non mi darà fastidio…»

Oetzi aveva capito che la loro sorte era segnata. Non aveva avuto il coraggio di alzare gli occhi a guardare Kol, ma sapeva che le lacrime le segnavano le guance arrossate dall’intensa emozione.

«Via! Via! Devi andare via!» urlavano ora gli uomini con le facce feroci. «Sei un debole, non ti vogliamo. Vai, e ringrazia che Om ti salva la vita.» I membri del clan non volevano più con loro chi aveva perso. Anzi, qualcuno cominciava a dire: «Bisogna ucciderlo. È sconfitto, gli spiriti sono contro di lui.»

Non ricordavano le tante e tante stagioni condivise: da bambini prima, a imparare dagli anziani i segreti del bosco, dei campi, del tempo. Da adulti, poi, le giornate spese alla ricerca di animali da conquistare per il villaggio, i lavori svolti insieme nei campi e nella stalla, le sere passate davanti al fuoco…

Le donne, in cerchio intorno allo spiazzo dove si era svolta la lotta, ridevano. Qualche bambino aveva iniziato a lanciargli dei sassi e dei pezzi di terra raggrumati, imitato dai piccolissimi che si divertivano, considerandolo un nuovo gioco.

Solo Kol teneva il viso basso e sembrava che nessuna espressione si disegnasse dai suoi gesti.

In fretta, Oetzi aveva raccolto le sue poche cose, le sue armi, alcune, come l’arco e le frecce, non ancora ultimate, la scheggia di corno di cervo che usava per rifinire un coltello o un pugnale, i suoi abiti che aveva indossato uno sopra l’altro, tutti insieme… Tristemente, battuto, si era avviato verso i monti, per un sentiero che molte altre volte aveva percorso alla scoperta del mondo, orgoglioso della sua forza e del suo coraggio.

 

 

La notte era trascorsa, il sole si alzava splendido tra le foglie degli alberi e la temperatura diventava più mite. Kol, che aveva dormito riparandosi sotto cespugli di erbe che ella stessa aveva tagliato con la sua lama di selce, aveva attaccato Itzi, il suo bimbo, al seno. Il piccolo, riscaldato dal corpo della madre e avviluppato in pelli di vitello, beveva con avidità, ignaro di ogni problema.

“Mai” pensava Kol “starò con l’uomo che ha fatto del male a Oetzi e che sicuramente farà del male al mio bambino. Raggiungerò Oetzi, anch’io so attraversare le montagne, insieme ci rifugeremo in un altro villaggio o nella foresta.”

Nessuno tra la gente delle case dal tetto di paglia poteva aiutarla: suo padre, che l’aveva ceduta a Oetzi, non vantava ormai più alcun diritto su di lei. Ella sapeva che, tornando da lui, nella sua capanna, egli l’avrebbe puntualmente restituita a Om. Sua madre era andata via da tante stagioni, fiaccata dalle nascite dei figli, molti morti da piccoli, e da una malattia che l’aveva presa durante il tempo della grande neve.

Allora ella, approfittando della distrazione di uomini e donne, intenti a festeggiare la vittoria di Om, era fuggita con il suo bambino. Come un animale, si era nascosta tra le foglie e Om, che era partito subito dopo all’inseguimento di Oetzi, non l’aveva trovata.

Così, quella mattina sulla fine della bella stagione, Kol saliva per lo stesso sentiero percorso la sera prima da Oetzi. Arrivando, infine, vicino a un grande masso, aveva scorto un’apertura.

Quella era la grotta dove erano stati un giorno insieme: Oetzi stesso gliel’aveva mostrata. Sulle pareti interne c’erano dei disegni fatti da qualcuno prima di loro. Sì, li ricordava bene, alcuni stambecchi si delineavano neri e rossi sulla pietra. Nello stesso giorno, Oetzi era riuscito a catturare e uccidere uno stambecco vero e, alla sera, al villaggio, avevano fatto festa. Kol ricordava la gioia sul viso del compagno, che era la sua stessa gioia.

Ora, invece, appena all’interno della fenditura nella roccia, ancora raggomitolato per il freddo patito, Oetzi giaceva esanime. Il fuoco si era spento da quando la luna brillava ancora alta nel cielo, intorno erano sparsi gli oggetti che egli aveva usato per l’ultima volta e l’asticciola della freccia traditrice che l’aveva colpito alle spalle.

Le lacrime avevano preso a sgorgare dagli occhi di Kol che, però, aveva compreso che non ci fosse tempo da perdere. Nuvole nere e minacciose si addensavano dietro le cime dei monti: sicuramente Om era nei dintorni ed ella doveva salvare almeno il bambino.

Oetzi aveva tentato di strappare la freccia dal proprio corpo, cercando di serbarsi la vita, ma la punta era rimasta all’interno e aveva portato via il suo spirito. Egli aveva sbocconcellato, prima di morire, un piccolo pezzo della sua provvista di carne. Un altro giaceva sul terreno. Kol l’aveva preso perché l’avrebbe sostenuta durante il viaggio.

Con un ultimo gesto gli aveva aggiustato addosso la veste di pelliccia, i gambali di pelle che ella aveva cucito con filamenti di tendini di animale, raddrizzato il grembiule di cuoio. Una scarpa gli era sfuggita da un piede ed ella gliela aveva rinfilata, dopo averne sistemato il fieno interno, quindi l’aveva ricoperto completamente con il bellissimo mantello d’erba che Oetzi stesso si era fabbricato qualche tempo prima perché lo riparasse da neve e pioggia durante i giorni di caccia nella brutta stagione. Così, avrebbe trovato l’ultimo riparo, mentre il cielo si era fatto grigio e grossi fiocchi di neve iniziavano lentamente a cadere.

Avrebbe voluto piangere il suo compagno, dargli il conforto di una sepoltura, ma non poteva farlo perché doveva fuggire. Itzi sarebbe diventato un grande cacciatore come suo padre e per proteggerlo ella sarebbe scesa velocemente verso valle per scampare alla tempesta che ci sarebbe stata di lì a poco.

Aveva sentito, dai racconti degli anziani, che a valle si trovavano villaggi ospitali. Là scorreva una grande acqua e l’uomo sapeva prendere i pesci che vivevano all’interno dell’acqua con una rete (anche Oetzi ne aveva una). Ella avrebbe offerto la sua forza e la sua abilità nel separare il grano dalla paglia, nel cuocere i cibi, nel costruire oggetti utili. Molto aveva imparato da Oetzi e dagli altri del gruppo osservandoli sempre quando lavoravano. Avrebbe insegnato tutto questo a chi non lo sapeva ancora. In cambio avrebbe chiesto asilo per sé e per il bimbo, il figlio del suo compagno Oetzi.

Avrebbe ricordato sempre Oetzi nelle lunghe notti della stagione fredda e il suo spirito l’avrebbe raggiunto, un giorno.

Così, quando Om era tornato alla grotta a controllare che Oetzi fosse veramente morto, aveva trovato solo il suo cadavere. Spinto da un ultimo gesto d’odio, gli aveva sferrato un calcio nelle costole e velocemente era tornato, vincitore, al villaggio.

Ma Kol non l’aveva vista mai più.

 

Nota al testo

 

Questo racconto si ispira al ritrovamento nel settembre 1991 della mummia del tardo Neolitico nel ghiacciaio dello Hauslabjoch, nel comune di Senales, provincia autonoma di Bolzano, Alto Adige, Italia.

Le notizie scientifiche riguardanti la vita degli uomini di 5300 anni fa sono tratte dal libro di Konrad Spindler L’uomo dei ghiacci, Edizioni Net, 2006 e dal programma La macchina del tempo di Retequattro.

L’ultima notte racconto

Renata Rusca Zargar è autrice di  PRATOLINE ROSSE DI SANGUE

una complicata storia di violenza e d’amore, per chi vuole credere ancora nell’Amore.

Nella foto di copertina Samina Zargar e Claudio Esposito Papa

Dalla sinossi:

“Infine, dopo un tempo che era sembrato eterno, quelle bestie fameliche se ne erano andate sghignazzando. –Ringrazia che non ti facciamo fuori, sporco serbo. – gli avevano gridato ancora, mentre si allontanavano. –Adesso tocca a te, se vuoi divertirti! Non è male, la ragazza. – E avevano sputato per terra.” Igor spera di sposare Janina e di avviare un’officina meccanica. Janina viene, però, violentata da alcuni delinquenti. Il destino, che si accanisce contro di lui, lo porterà a commettere dei reati ma anche a vivere un’appassionante storia d’amore. “La mamma aveva già, un tempo, affrontato la vergogna di un figlio ladro e stupratore. Adesso, anche assassino. -Non è tutto colpa mia, mamma! – avrebbe voluto dirle. Ma ormai era tardi. Stava morendo.”

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Chi è Renata Rusca Zargar

 

Savonese, impegnata in ambito sociale, studiosa di cultura islamica e indiana, insegnante in quiescenza, ha pubblicato diversi saggi e romanzi anche con il marito Zahoor Ahmad Zargar.

L’ultimo nato è, però, una raccolta di lavori delle signore anziane che hanno seguito i suoi corsi gratuiti di Lettura e Scrittura Creativa: “Leggere e scrivere …per divertimento, raccolta di racconti, poesie, disegni, calligrammi dei Corsi di Lettura e Scrittura Creativa”, pubblicato da Amazon.

Si occupa della Biblioteca di volontariato Libromondo e, prima del Covid, portava i libri in prestito nelle Scuole. Cura un blog di cultura, ecologia e società Senzafine: Arte, Cultura e Società di Renata Rusca Zargar.

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