sabato , Aprile 20 2024

Il rumore dell’acqua

Le giornate di lavoro al Museo di Patan terminavano con un the sulla terrazza panoramica di un hotel affacciata sulla piazza monumentale, oppure, quando il tempo lo permetteva, con una gita nella valle per visitare i siti archeologici e religiosi di cui è ricca. Spesso percorrevamo a piedi brevi tratti di strada per ammirare il paesaggio e godere della rigogliosità della natura tra risaie, campi coltivati e boschi di bambù che si susseguivano in festoni regolari lungo i fianchi dei monti.

Avevamo avuto una giornata calda e faticosa, ed era un sollievo camminare su quel letto di foglie secche, mentre la foresta faceva ombra al nostro lento procedere lungo il sentiero che portava alle rovine di Changunarayan non lontano dal piccolo centro di Nagarkot. Era una salita lieve e il fresco del primo pomeriggio rendeva il cammino gradevole, nonostante i chili di troppo, la mancanza di allenamento e le numerose sigarette facessero sembrare il percorso una piccola parte di un ben più impegnativo trekking. Gli allegri frizzi che ci lanciavamo all’inizio del cammino già si erano diradati fino a divenire poche parole sussurrate a mezza voce più per commentare la bellezza del paesaggio che per tenere attiva una conversazione che ormai era divenuta, ce ne rendevamo conto, faticosa per tutti.

Il ruscello che scorreva al lato del sentiero accompagnava il ritmo dei passi con il suo acciottolio mutevole che sottolineava le variazioni di pendenza del cammino fino al silenzio di una vasta cisterna nella quale la velocità dell’acqua si stemperava nella cristallina trasparenza di una corrente lieve, percepita solamente per l’ondeggiare delle alghe e per il continuo movimento caudale di piccoli pesci dalla livrea bruna.

Si respirava quiete in quel luogo; una tranquillità che si trasmetteva all’anima, mentre con passi attenti avanzavamo sulle pietre piatte che dividevano quel piccolo lago artificiale in tanti riquadri nei quali sembrava che la vita acquatica avesse forme indipendenti. Il pesce si nascondeva nelle pozze maggiormente in ombra, mentre le piante acquatiche erano più rigogliose laddove la luce del sole batteva durante il giorno, pur senza riuscire a riscaldare quella massa d’acqua in lento, ma continuo movimento.

India

Piccole onde silenziose fluivano tra le pietre trascinando con sé le immagini caoticamente affastellate nella mente durante i mesi appena trascorsi e che ora, in quella ritrovata temporanea pace, proiettavo sulla mobile superficie dello stagno: il sorriso di una moglie perduta per sempre, il viso triste di quel figlio desiderato, vissuto, strappato via da una separazione non voluta, né cercata, eppure inevitabile. Perché tutto questo dolore? Perché i sogni vanno sempre a morire su spiagge desolate dove non c’è riparo per nascondersi, né rifugio dove stendersi per rimettere insieme i pezzi della propria anima? Le immagini si allineavano con ordine, le sequenze acquistavano significato, le domande erano finalmente comprensibili. I pensieri si diluivano nello scorrere della corrente e le sensazioni divenivano cristalline come quell’acqua fredda che bagnava le dita. Lacrime di dolore fondevano il loro salso sapore con la dolcezza di quella fonte e il senso di solitudine, di isolamento, di inutilità si stemperavano in una nostalgia che stringeva l’essere in un abbraccio caldo e riposante. Il dolore si disperdeva nell’immobilità dell’aria sfrangiandosi in mille filamenti nel leggero vento che scendeva dalle montagne. Era pace, finalmente.

Sonore risate esplosero all’improvviso appena dietro il boschetto che chiudeva il lato a monte della cisterna interrompendo il flusso dei ricordi e l’isolamento del luogo. Erano risa allegre, spontanee, non trattenute, di giovani, forse. Ma chi mai poteva essersi messo a giocare in quel luogo dai più ritenuto sacro, come sacri sono tutti i fiumi e le acque di questo paese così fortemente intriso dalla spiritualità indù prima e buddhista dopo? Ci guardammo sorpresi e quasi sconcertati da quel suono che così improvvisamente aveva invaso il sito strappandoci alle nostre fantasticherie e lentamente risalimmo il sentiero per aggirare il bosco di pipal che chiudeva lo stagno. Una cascatella riversava un fiotto schiumoso all’interno di una piccola pozza che interrompeva uno spiazzo di roccia levigato dal continuo scorrere dell’acqua e da secoli di uso. Una diecina di giovani monaci era accalcata in quel piccolo spazio e, deposte le rosse vesti solitamente indossate dai seminaristi delle gompa, si accingeva a compiere le abluzioni rituali. I giovani erano di età diverse. Alcuni più anziani si tenevano al margine del circolo, mentre i più giovani, poco più che decenni, schizzavano i pochi che, con un perizoma stretto ai fianchi, si immergevano nella pozza esponendo le membra al getto diretto della cascata. L’intera scena appariva in netto contrasto con la sacralità del luogo, eppure ne esaltava la spiritualità creando un collegamento diretto tra il mondo degli dei e dello spirito e la vita di tutti i giorni di quei giovani chierici; una vita fatta di meditazione, di preghiere, di silenzi e di innocenti fughe in massa dall’atmosfera a volte cupa dei monasteri. Erano felici e disinibiti, eppure colmi di dignità in quella loro pudica quasi nudità che faceva da contraltare al loro quotidiano rigore. Un sorriso esplose sul volto degli anziani mentre, inchinandosi nel loro tipico saluto, ci rivolgevano un fiume di parole per noi incomprensibili interrotto, infine, da una allegra risata collettiva. Salutammo a nostra volta con deferenza e, scusandoci per la non voluta intromissione, tornammo sui nostri passi riflettendo tra noi sul significato di quella inusitata scena.

L’acqua, il suo fluire continuo, la stessa ampiezza dei fiumi una volta giunti nella valle sono quasi un cemento collettivo di queste popolazioni povere di averi, ma ricche di spiritualità. Il grande oceano fa da letto al Vishnu-Narayan di Budhanilkantha e simboleggia l’inizio dell’Universo, della vita, del tutto.

Un fiume giace ai piedi di Krishna che, in quanto nona reincarnazione di Vishnu, è identificato come il dio della vita, dell’amore e della gioia. L’acqua come sorgente di vita che purifica il corpo e monda l’anima dai peccati della carne. L’acqua che accoglie le ceneri dei defunti cremati sui ghat ordinatamente disposti lungo le rive del fiume Bagmati, sacro quanto il Gange, sporco come una marrana, eppure affollato di pellegrini e penitenti. Sulle sue sponde fangose e nere le donne lavano i panni attente a che i loro piccoli non vengano portati via dalla corrente tra un tuffo e l’altro durante i loro chiassosi giochi. Più in alto, su una piattaforma di pietra solitamente utilizzata per le cremazioni, un vecchio esegue una danza rituale: è un uccello che vola silenzioso come un’aquila sui fedeli che, lì attorno, si immergono in quelle sacre quanto scure e fetide acque per le rituali abluzioni, tappandosi narici e bocca con una mano e serrando gli occhi prima del rapidissimo tuffo, timorosi, o forse coscienti, di quanto la loro salute fisica sia a rischio in quei brevi istanti di intimo contatto con la sacralità del fiume. Poco più avanti un giovane uomo spinge nel fuoco la gamba di un cadavere che non manifesta alcuna disponibilità a bruciare rapidamente per dare la possibilità ai parenti riuniti lì attorno di allontanarsi dal fumo acre e denso che si innalza in volute capricciose dalla pira. Nel frattempo un altro inserviente ripulisce una seconda piattaforma dalle ceneri mentre una piccola processione scorta il defunto composto su una lettiga avvolta in un telo bianco e prepara la pira funebre, con calma reverenza e attenzione a che non ci siano rumori a molestare l’ultimo sonno del loro caro. Di lato scorre una fila interminabile di pellegrini, il capo protetto da sciarpe di mille colori, in mano l’offerta per il Dio. In testa un corteo di monaci vestiti di giallo sfila salmodiando davanti all’ingresso del tempio, gli ombrellini di seta aperti per proteggersi dai raggi del sole, le macchine fotografiche digitali, appena acquistate negli empori giapponesi, nascoste tra le pieghe delle vesti e già pronte per fissare le immagini più significative della cerimonia, il sorriso del monaco amico, la folla adorante.

Dall’altro lato del fiume i piccoli templi accolgono cenciosi sadhu qui convenuti per la grande festa di Shiva-ratri. Sono ciarlieri, festanti e si aggirano seminudi tra i fedeli, noncuranti del mondo circostante. Alcuni giocano a carte. Un vecchio conta l’ammontare delle offerte dispiegando con le mani aperte i biglietti di banca per poi riporli in ordinati mucchietti. Una grassottella e ancora piacente santona esercita la prostituzione sacra in un tempietto che si distingue dagli altri per la fila di sadhu in ordinata attesa del loro turno. Accanto, una figura ieratica sta ritta in equilibrio su una sola gamba, il tallone dell’altra ben poggiato sotto i genitali, le mani congiunte dinanzi al petto: è nudo, interamente ricoperto di grigia cenere, i lunghi capelli scendono in dred scomposti fino alle ginocchia, il viso è incorniciato da una lunga barba, gli occhi si muovono vigili, attenti a cogliere i movimenti attorno, le labbra si aprono in un incessante sussurro. È una preghiera quella che recita, un mantra che risuona stranamente familiare alle mie orecchie di viaggiatore curioso. È una lingua nota, quella; è un dialetto o forse una giaculatoria già sentita altrove, ma non sembra nepalese quell’idioma, è una sonorità familiare, una serie di assonanze che fanno parte del mio stesso repertorio fonetico. Ma è pazzesco quello che improvvisamente intuisco: quel giovane santone eremita e penitente è italiano e quell’idioma così familiare utilizzato per recitare il suo mantra … è romanesco!

Il sole cala lentamente mentre frotte di pellegrini si affollano attorno all’incantatore di serpenti e al suo aiutante che con un lungo bastone riporta al centro dello spazio, opportunamente lasciato libero dal pubblico, i boa e i pitoni che tentano di allontanarsi verso il verde degli alberi. L’incantatore se ne sta seduto al centro e suona un flauto dinanzi a una cesta chiusa da un coperchio di fibre vegetali. L’inserviente sposta un poco il coperchio ed ecco che, con una lentezza esasperante, dal buio del canestro emerge la testa di un cobra dagli occhiali. Si guarda attorno, il serpente, con circospezione esamina lo spazio attorno, poi, spira dopo spira, scivola via dal cesto strisciando al suolo verso il suonatore. Il suono del flauto sembra che lo attragga irresistibilmente. Si arresta a poco meno di un metro da quell’uomo che è la sorgente del suono; alza il corpo affusolato distendendolo verso l’alto, dondola al ritmo cantilenante della musica, quasi danzasse. All’improvviso si immobilizza e rimane così fermo, poggiato sulla coda, eretto, la testa leggermente china in avanti protesa ad ascoltare la melodia, la lingua saettante tra le labbra appena schiuse come se sorridesse. Poi la musica cambia di ritmo, accelera si fa insistente; i suoni sono quasi striduli, penetranti. Il serpente si rimuove dallo stato di ipnosi che lo aveva immobilizzato, la testa si china verso il suolo, le spire del corpo si contraggono come se l’animale si preparasse a un fulmineo attacco all’uomo che gli sta di fronte. Invece, lentamente come ne era uscito, il serpente rientra nella sua cesta, il coperchio viene chiuso e legato ben bene perché non ne possa uscire, la festa è finita e lui, anche quest’oggi, il suo topo vivo se l’è guadagnato.

Più in alto, noncuranti dello spettacolo, le donne sistemano ampi sari ai piedi dei pipal sovraccarichi di schiamazzanti scimmie e chiamano i parenti per consumare insieme un fugace pasto ristoratore a conclusione di quella estenuante giornata. Migliaia di persone si affollano e si disperdono in questo sacro recinto ciascuna intenta alle proprie attività, partecipi degli altri eppure isolati. Questa è Pashupatinath, e c’è la festa, mentre dall’orizzonte lontano le innevate cime himalayane osservano imperturbabili questo mondo brulicante di minuscoli esseri caparbiamente intenzionati a sopravvivere.

Costantino Meucci

Questo racconto è tratto dal libro di Costantino Meucci “Fuori c’è anche il paese”, una raccolta di racconti ambientati tra Nepal, Egitto, Grecia.

Il libro può essere acquistato sul sito ilmiolibro.it

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