mercoledì , Maggio 8 2024

“Il camerino del trapezista” di Matteo Rossi

Il camerino del trapezista

di Matteo Rossi

Racconto vincitore ex aequo con “I gemelli Oddone” di Francesca Mairani del concorso per racconti “C come Circo” organizzato da zoomma.news

 

Sono nel camerino. Nel mio camerino che condivido -se così si può dire- con altre tre persone, perché la produzione non ha previsto benefit per le star. Sono un personaggio a tratti complesso, a noi artisti piace crederlo. Ogni artista ha almeno due facce. Gli artisti come me ne hanno almeno due nel rapporto con sé stessi, duecento nel rapporto con i colleghi e almeno due mila con il pubblico. Ma tornando in quel camerino, non esiste luogo più sacro e mistico. Nasce tutto qui dentro, prima dello show siamo qui dentro, prima di ogni show. Lo show è la nostra vita, per cui la nostra vita la prepariamo qui dentro.

Per potermi rintanare in questo microcosmo fatto di solitudine, occorre una sana organizzazione. Urlare “occupato” va bene una, va bene due volte, ma se l’insistenza diventa maggiore sono costretto, inesorabilmente, ad aprire la porta e fare entrare il prossimo. La star non ha privilegi, la compagnia viene prima di tutto. “Siamo dei semplici ingranaggi di un sistema molto più complesso” – direbbe un bravo ingegnere. Definirmi un maniaco dell’organizzazione risulterebbe piuttosto surreale, non tanto agli occhi di chi può tranquillamente credermi, quanto nella mia personale convinzione –o meglio consapevolezza- di non esserlo. Diciamo che apprezzo l’organizzazione, provo una forte simpatia per questa ragazza, ma alla prova del fare, il nostro è un matrimonio che non potrà mai funzionare. Un maniaco di per sé si combina sempre male con l’universo che gli sta attorno, che sia maniaco dello sport, della precisione, del lavoro. Un maniaco arriva sempre al punto di rimanere isolato per cui io, consapevole di quanto sia importante per me il mio camerino –che lo è tale per un tempo limitato- decido di svegliarmi un’ora prima di tutti e iniziare a prepararmi. Ed è qui che comincia il mio circo.

Sono le 5.30 del mattino. L’umore non è dei migliori. Oggi sarà una giornata torrida e dovrò convivere con caldo, sudore e stratagemmi per apparire sempre fresco, lucido e riposato. E tutto questo incide inesorabilmente sul mio umore. Sono nel mio camerino ‘part-time’ e “Quest’ora non è già più un’ora”. Può sembrare inappropriato citare Primo Levi? Credetemi che ci sono giorni che in questa mia ora, con i primi raggi di sole che penetrano dalla finestra e il rumore delle prime macchine che iniziano a trafficare le strade, riesco a percepire il valore della sua ora d’aria, raccontata in un capitolo del suo libro. Un’ora che sembra l’unico momento di tranquillità dentro a questo circo. Un’ora dove mi raccolgo e che mi dà la forza di affrontare le restanti 23. Mi spoglio. Mi guardo allo specchio. “Accidenti” -chioso perplesso. Questo mestiere ti trasforma anche esteticamente, è vero. Poi guardo il rasoio: “Barba lunga? La accorcio? Raso?”. Mi fisso negli occhi. Fare la barba è una scelta di vita: “E se poi non mi piaccio?”. Noi ci nutriamo della stima di noi stessi. E poi –francamente- se mi tagliassi la barba sembrerei Winnie the Pooh. No. Niente rasoio. Decido che la barba la taglierò quando sarò pronto per guardarmi allo specchio e vedere un ragazzino di seconda media -brufoli a parte.

Sciolto il dilemma mi guardo le unghie delle mani. Pardon, quel che resta.  Generosamente arrivo alla conclusione che almeno non devo perdere del tempo per tagliarmele e poi pulire, in fondo quest’ora passa troppo in fretta. Piuttosto, guardo l’orologio. Dannazione, “quest’ora non è già più un’ora”.

Lo conosco troppo bene quel passaggio. Ho scoperto Se questo è un uomo in un campo estivo (di villeggiatura) organizzato dalla parrocchia in una di quelle mattinate che gli educatori chiamavano “il deserto”. Il gioco era semplice. Si doveva stare da soli, silenzio assoluto e al massimo si poteva godere della compagnia di un libro che la ben fornita biblioteca parrocchiale poteva garantire. Quel giorno conobbi questo racconto e quindi conobbi il male creato dall’uomo; ma conobbi anche il senso della cultura umana, l’importanza che ha avuto per la vita e la sopravvivenza di Levi l’arte e la letteratura. In un luogo che sulla terra ha sostituito l’inferno di Dante, nel luogo più terribile creato dall’uomo, i campi di sterminio, nell’unica ora di vita che gli era concessa, lui si rifugia in Dante e in Ulisse: ci sarà un perché!

E io, che questo passaggio lo conosco a memoria, questa mattina, in questa ora, non mi trattengo e mi immedesimo nel racconto, accendo la doccia e inizio.

[…] “Lo maggior corno della fiamma antica

cominciò a crollarsi mormorando

pur come quella cui il vento affatica

indi la cima qua e la menando” [..]

Proprio come Levi, che nella sua ora di libertà tentava di spiegare al suo giovane compagno di viaggio il significato del canto di Ulisse, della Divina Commedia, dell’allegoria, del viaggio, della fede, così faccio io. Con me stesso ovviamente. Provando a mettere a fuoco la mia vita da acrobata. Metto la testa sotto l’acqua calda, appoggio i palmi alla parete, apro gli occhi e la vedo, la mia vita. Prendo lo shampoo, richiudo gli occhi e lo passo tra i capelli cercando di ricordarmi i passaggi di questo canto, quando arrivo al punto a me più caro ed esclamo con tono sicuro:

[…] ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto […]

Misi me, che non è ‘mi misi’. “Che forza questo passaggio” – penso soddisfatto. Oggi mi serve, sento di averne un gran bisogno. Perché qui si gioca la potenza del messaggio di Ulisse, che Dante vuole darci. In questo passaggio l’uomo diventa Dio, l’uomo è Ulisse in questo caso, ma dentro ognuno di noi c’è un Ulisse. Un eroe che sfida Dio, che decide per sé della sua vita, con determinazione e forza. “Ma misi me”. Sentite? Come se Ulisse prende sé stesso e si dice, “Devi stare qua!”. E va avanti.

[…]Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza […]

E questo cos’è, un inganno? Un abile mossa fatta per convincere i suoi uomini ad intraprendere con lui un viaggio verso la morte o un appello ad abbandonare i propri limiti e gettare il cuore oltre l’ostacolo? Nel nostro circo viviamo tra ostacoli di ogni natura; vale la pena rischiare il collo per un obiettivo nemmeno troppo chiaro, che nella migliore delle ipotesi porta ad un applauso? Il tutto mentre tu sei lì a roteare in cielo, più vicino alle nuvole che alla terra, terra che però hai ben chiaro come è fatta e che in un attimo può diventare il luogo dove tutto terminerà. Io ci penso. A volte esco dalla doccia che sono più determinato, altre volte mi chiedo se ne valga veramente la pena, e penso. Una vita normale, chissà come è fatta. Penso a quel mestiere tranquillo, nell’ufficio ics dell’azienda ipsilon. Per le emozioni rivolgersi altrove, certo, ma è umanamente possibile passare la vita sul filo del rasoio? Non è che il circo sia stata la scelta più saggia della mia vita. Normalmente a questo punto mi ricordo dei versi che ho appena sussurrato. Penso a me, alla mia forza d’animo, alla mia innata e insana voglia di spingermi oltre. E quindi resisto. Esco dalla doccia, attento a non bagnare più del dovuto il pavimento allungo il braccio e prendo l’accappatoio, è caldo, era appeso al termo arredo, e mi lascio coccolare un po’, circondato dal vapore che nel frattempo ha riempito il camerino e dal profumo di eucalipto che volutamente rende questo piccolo luogo molto simile a una baita di montagna.  Ritrovo il bandolo della matassa “dov’ero rimasto?”, e riparto, questa volta a bassa voce.

[…]Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino […]

I miei compagni? Me lo son sempre domandato. Chi sono questi dannati? Sono in tanti, ma sono davvero così tanti? Cosa posso fare io per loro? Qui vado in difficoltà e mi fermo. Respiro, guardo l’ora. Accidenti è tardi.

[..] Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto […]

Quante volte sono passato da eroe, per gli altri del circo e per il pubblico. Quanta euforia in giornate memorabili, quando tutto è girato per il meglio e quando sembrava che il cielo era lì, alla portata della mia mano. Giorni di gloria nei quali ho percepito il rispetto degli altri. A tratti anche l’invidia. Quanti momenti di esaltazione, “oggi ero in formissima” mi ripeto, oppure “sei stato un grande, hai avuto le palle” ti ripete la gente. Ma poi arrivano anche i momenti no. Ed è per quei momenti che si lavora tutta la vita. Per arrivare pronto alla giornata no, al periodo no. Uno scivolone può sempre capitare. Un giorno in cui ti tremano le mani, le ginocchia. Il giorno in cui si cade, nel silenzio del circo e del pubblico attonito.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso

“Questa è la mia vita” mi ripeto mentre lavo i denti. Mi passo la crema sul viso e sistemo i capelli. Sono quasi pronto. Prendo il costume, normalmente blu scuro, modello stroncato con la gamba stretta. Per quanto scomodo per il lavoro che faccio, anche l’occhio vuole la sua parte, d’altronde viviamo spesso soltanto per un applauso e quel gesto è un giudizio che racchiude tutto. Allungo la mano e prendo il mio profumo, un paio di spruzzate e sono pronto. Cerco le cuffie, prima dello spettacolo ho bisogno della mia musica. Le trovo, spingo Play. In playlist ci sono i Dire Straits, il rif di Mark Knopfler mi dà la carica, Walk of Life. Sono pronto per lo show.

Esco carico e fiducioso: sarà una grande giornata! Qualche minuto e arrivo davanti all’ingresso del circo. Lo staff in uniforme mi saluta portando la mano al capo: anche oggi sento grandi aspettative. Mi posiziono dove posso trovare serenità, aspetto il mio turno. Ripasso mentalmente ogni passaggio, ogni movimento, ogni collegamento. Mi guardo in giro e vedo tutti, il Clown (anche più di uno), il domatore di leoni, la donna Cannone, il mimo, l’incantatore di serpenti, il prestigiatore, il funambolo, il fantasista, giocolieri ed equilibristi. Mi sento pronto. I battiti iniziano a salire, il cuore è in gola. “Non posso sbagliare” – ripeto come un mantra. L’attesa è spasmodica, istanti interminabili e poi, all’improvviso, ecco il momento. Pochi secondi di un silenzio senza spazio e senza tempo, attimi vissuti come in slow motion fino a che una voce squilla come la tromba di un Bersagliere e riempie la sala:

“È iscritto a parlare il Consigliere Rossi Matteo”. È il mio momento, mi alzo in piedi, regolo il microfono, spingo il bottone, luce verde: “Grazie Eccellenza”.

E si va in scena.

 

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