venerdì , Aprile 19 2024

Parlami di te: “L’ultimo saluto”

“L’ultimo saluto”

di Renata Rusca Zargar

Cara figlia Zarina,

forse, quando sarò morta, non potrò venire, durante la notte, a sollevare il tuo dolore.

Dunque, ti lascio queste parole in testamento perché tu raccoglierai la mia eredità, cioè i valori della vita.

Dato che questo è un racconto, c’è qualcosa di vero e qualcosa di immaginario.

Ma tu saprai distinguere, perché si tratta  della nostra vita.

Tua mamma

 

L’ultimo saluto

 

Era lì, sul tavolo dell’obitorio, con il viso duro, inespressivo, gli occhi chiusi. Non avrebbe più parlato. Anche le mani erano rigide e immobili, così, una sull’altra, come vengono deposte le mani dei defunti. Non avrebbe più gesticolato, quando parlava.

Non le avevo dato l’ultimo saluto, non ero arrivata in tempo. Ma cos’era l’ultimo saluto? Una finzione? Una cancellazione dei conflitti?

Era morta  e, nei suoi occhi, quando guardavano per l’ultima volta, io non c’ero stata.

Non avevo capito che sarebbe morta e non l’avrei vista più.

Ero annichilita. Cosa avrei fatto ora?

Non era così che si sarebbe dovuto tagliare il cordone ombelicale, avrei avuto bisogno di più tempo, di diventare autosufficiente.

Ma io ero autosufficiente!

Avevo una professione, una storia sentimentale, un’esistenza mia.

Lontano da lei.

Eppure, nulla avrebbe avuto più senso. Anche se ero altrove, avevo sempre potuto pensare che lei ci fosse perché vedeva la mia stessa volta del cielo, respirava la stessa atmosfera che io respiravo, esisteva, con le sue risposte, la sua logica, le sue arrabbiature…

Sì, le arrabbiature! Le insopportabili arrabbiature.

Sono ancora incredula, fin dal momento della scarna telefonata di mia sorella: “È morta.”

E ora?

L’angoscia mi prende al petto, ecco, torna quel “male di vivere” di cui si parla tanto, l’angoscia esistenziale, quel dolore insopportabile dentro, da cui ognuno si difende come può. Forse, con l’indifferenza,  l’apatia, l’anaffettività…

A causa di quel male, io avevo tentato il suicidio, parecchi anni prima. Avevo inghiottito un po’ di pastiglie, a casaccio. Ma non ero morta, allora. Il mio corpo aveva rifiutato quel cocktail, avevo vomitato e tutto era finito lì.

Perché l’avevo fatto? Non so, ma, in quel momento, non capivo più perché dovessi continuare a vivere. Ero diventata come immobile, dentro. Non sopportavo quello che fanno tutti: uscire, parlare, condividere, lavorare, studiare… Non m’importava più di nulla.

Poi, mi ero curata, a lungo. Altri mi avevano aiutata. Eppure, dicono che chi ci ha provato, a morire, ci proverà ancora.

No, non lo farò, ora sono adulta, l’adolescenza è finita.

Eppure, come posso continuare la mia vita, incontrare i miei pazienti, far loro coraggio, risolvere i loro problemi? Io non so risolvere i miei.

La mia vita non ha più un senso. Il mio lavoro non ha più un senso.

Io non ho più un senso.

Lei, invece, era sicura. Amava il suo lavoro, che era tutto per lei! I suoi alunni le volevano bene, la stimavano. Anche quelli più complicati. C’era un tipo che andava a scuola, in prima superiore, con un cuscino, senza libri, senza cartella, solo con quel cuscino che teneva stretto a sé per tutta la mattina. Non disturbava, ma non faceva nulla. Persino con lui, lei aveva stabilito un buon rapporto, di fiducia, di accoglienza. Tanto che, l’anno dopo, il tipo era tornato, in prima, ma con il materiale scolastico e aiutava persino lei, che era sempre indaffarata e distratta, addirittura a compilare il registro di classe!

Poi, c’era chi si nascondeva dentro l’armadio, chi scappava dalla finestra al pianterreno, chi stava ore sotto la sedia, chi si girava di spalle quando lei entrava in classe… In tanti anni, aveva conosciuto parecchi ragazzi speciali e li amava tutti, comunque, e provava a fare qualcosa per loro.

Esco dall’obitorio.

Vado a casa, la casa dove sono cresciuta, dove sono stata con lei. La casa che mi è stata stretta per colpa sua, dove mi sono sentita oppressa. Volevo essere libera, come mia sorella, sapere sempre cosa fare, non dare peso alle sue parole. Le sue parole mi facevano male, troppo male. Avrei voluto ucciderla. Ma non ne ero capace.

Detestavo le videocassette con i filmatini che documentavano la nostra infanzia. Per me, erano l’ipocrisia della “bella famiglia felice”. Quando lei mi parlava, mi chiudevo in camera e non uscivo più.  La moralista, la chiamavo.

Intanto, anche lei, a suo tempo, non era andata d’accordo con la madre. L’aveva accusata di non volerle bene, di preferire il figlio maschio.

Ma poi, la nonna si era ammalata e  l’adorato figlio maschio non ne aveva voluto sapere. Proprio lui, quello che “partorire un maschio è un’altra cosa, un’emozione diversa, una femmina non vale nulla, le femmine sono piscione”, come diceva sempre la nonna. Era sparito con la proprietà che i nonni gli avevano assurdamente intestato, fidandosi di lui. Nonostante ciò, lei aveva assistito la madre con tutta la dedizione, l’ostinazione e il coraggio di cui era capace. Così, tutti i conflitti precedenti erano stati risolti e dimenticati. Quando la nonna era morta, lei aveva potuto accettare il dolore della perdita della radice di sé, la propria madre, perché aveva fatto  di tutto e di più per alleviarle i dolori in quei lunghi anni della malattia. Era stata capace di farla divertire, di farle credere, quando era ormai immobile nel letto, che presto, se avesse mangiato, sarebbero andate insieme a fare shopping… La foto sulla lapide è della nonna che ride, proprio pochi giorni prima di morire.

Invece, io non ho avuto tempo. Non credevo sarebbe andata via così presto. Senza più vedermi.  Le avevo detto una volta: “Se hai bisogno, io ci sono.”

E, invece, non c’ero.

E ora?

Basta. Voglio dormire. Non pensare a nulla. Butto giù la solita pastiglia.

 

È lei.

Mamma? Sei qui? Sei in casa?

-Sono venuta a salutarti.

-Perché vai via?

-Fatti coraggio. So che, alle volte, non è facile… Non è facile essere figli, si immaginano genitori perfetti, come noi li vorremmo. Ma i genitori sono persone con i loro problemi, disagi, identità, caratteri, con un passato e meccanismi psicologici che li condizionano… Tu dovresti saperlo. –

Le lacrime inondano i miei occhi.

-Quello che conta, – continua lei- o almeno io l’ho sempre pensato, è l’amore che riscatta gli errori che commettiamo. Non è facile neppure essere genitori. Si cerca il figlio ideale, quello che incarnerà il nostro progetto. Ma i figli sono altro da noi e non seguono il nostro progetto. Non esiste il figlio ideale.

-Avrei voluto che tu fossi orgogliosa di me.

-C’è stata tanta disperazione, tua e mia, specialmente per la tua malattia. Ma siamo andate avanti. Nulla è semplice.

-Lo so, ora ho conosciuto la vita.

-Un genitore deve chiedere di più, indicare la strada, non fermarsi mai, continuare a spiegare, correggere, fino alla fine. Ti ricordi quante volte abbiamo citato i versi del Foscolo? “Celeste è questa / corrispondenza d’amorosi sensi”, cioè l’intesa  tra chi non c’è più e chi è rimasto in vita. Dunque, non importa se ci sarà o no un’esistenza dopo quella terrena. Quello che conta è il bene che lasci qui, su questa terra, le “egregie cose” compiute, la felicità che hai saputo, qualche volta, dare a chi non l’aveva, l’attenzione agli altri, anche quando sono diversi, incomprensibili… È sempre l’amore che guida. Non deve esistere l’odio per un altro essere umano, la derisione per chi è diverso, l’ostilità per chi non la pensa come te. Allora, davvero, la tua esistenza non sarà stata inutile. Allora, avrai piantato un seme di bene e bontà, indicato una luce nell’oscurità, spezzato la catena del male, regalato un sorriso, una carezza al cuore di qualcuno che sarà una carezza anche al tuo. E altri seguiranno il tuo esempio. Ma tu lo sai già. Ne abbiamo parlato sempre. Non importa se tu non c’eri, quando ho chiuso gli occhi. La relazione privilegiata che hai avuto con me doveva essere chiusa.

-Hai voluto morire senza di me?

– Alle volte, come ti ho detto, bisogna fare cose dure. Il dovere viene prima di tutto, anche se è difficile seguirlo e spesso è percepito persino come crudeltà dagli altri.

-Non posso farcela senza di te, non riuscirò a seguire questa strada, la tua strada, mamma. Non sono ancora pronta.

-Sì, puoi. Puoi iniziare e qualcun altro vedrà la tua luce, qualcun altro coltiverà il tuo seme, coglierà il frutto, pianterà un nuovo seme. La Terra sarà madre ospitale anche grazie a te.

‒ Ma tu non ci sarai…

Il mio tempo qui è finito. Ora inizia la tua storia.-

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