giovedì , Maggio 2 2024

La stradicciola

Era una piccola stradicciola tortuosa e dissestata a portare al convento claustrale, scelto come nuova, definitiva e inviolabile casa, dalla sua dolce e mistica Carmela.

Entrarvi non era compito semplice: una volta, aver percorso la stradicciola molto lentamente, per evitare di bucare una ruota della vecchia e arrugginita Volvo, prendendo uno di quei profondi ed enormi buchi che sembravano delle vere e proprie voragini lunari, si giungeva all’alta cancellata.

Questa era formata da una struttura muraria, al di sopra della quale vi era un susseguirsi di grasse sbarre, terminanti in una sfilza di gugliacce gotiche in ferro battuto e, questi grossi muro-paletti invalicabili erano posti molto vicino l’uno all’altro, talmente vicini, che lo spazio rimanente tra queste sbarre era così stretto e miserrimo da divenire impossibile intrufolarvici anche un unico e piccolo occhietto curioso e vederne il di dentro dal di fuori.   Per tentare, poi di osservare dal di dentro la vita (se ce ne fosse stata veramente una) di questo pianeta nel pianeta, in cui la quotidianità si svolgeva assai raramente all’esterno del chiostro interno, nella parte astante il convento, dove c’era un ampio, buio e inospitale cortile attorniato da un rigoglioso e intricato giardino,  celato anch’esso al mondo, si doveva chiedere il permesso al parroco del posto che lo domandava, a sua volta, alla madre badessa, che solo se strettamente necessario lo concedeva di malavoglia.

Il cortile-giardino davanti era il luogo del loro piccolo mondo antico, più vicino al mondo esterno, ma proprio nel circolare giardino di cinta, le suore avevano interrato e coltivato una piantagione di aceri, abeti e una vasta scelta di altre conifere e sempreverdi talmente ricca e fitta che, si era creata una tale, folta e nera foresta lussureggiante, che contribuiva definitivamente a ottenebrare la già minima visuale, così ancor più chiusa e impenetrabile a occhio umano da impedire  di scorgere dal di fuori della fredda cancellata, anche una sola finestrella del convento e neppure la struttura edile del bianchiccio e severo convento era visibile interamente e, solo alcuni particolari dell’edificio, sfuggiti al folto della vegetazione per un miracoloso caso, davano un’idea parziale dell’insieme e, infine, da lontano, l’esistenza del convento si poteva solo intuire, per via della presenza della cancellata stessa.

Questo luogo per lo spirito delle suore ameno, era però ben poco attraente, per chi veniva dal fuori e quindi, era raramente frequentato dai napoletani autoctoni della zona circostante e, tanto meno da casuali e incerti turisti che, non si avventuravano quasi mai su questa impervia stradicciola deserta, per raggiungere la collinetta dove il convento murato delle suore riposava solitario.   Se non quando, dovevano placare  un castigo divino talmente grande e imperituro, da non poter evitare di mettersi in pellegrinaggio per raggiugere la cappelletta, unico spazio del vasto convento aperto al pubblico, per purificarsi dall’immondo peccato commesso, andando contriti alla messa del primo mattino, l’unica concessione di tempo offerta dalle suore al mondo dei viventi, trascorribile all’interno del loro mondo, flagellandosi quindi di giaculatorie cantilenanti all’infinito.

Queste anime peccatrici iniziavano a pregare assiduamente all’inizio della stradicciola fino a quando, giunti alla maestosa cancellata, suonando un vetusto campanaccio, venivano immessi nella grigia e polverosa guardiola dalla suora custode, che senza guardarli negli occhi, silenziosa e guardinga, li accompagnava discosta fino al sacro luogo di preghiera, dove la litania continuava sommessamente ma incessante durante tutta la celebrazione e ancora oltre la conclusione di questa messa liberatoria, poi ancora e ancora fino al raggiungimento dell’ultimo tratto della stradicciola percorsa, questa volta, in discesa.

La funzione religiosa del mattino veniva tenuta dal parroco del rione, don Vincenzo, in quest’austera cappelletta profumosa d’incenso, dimora del Signore come delle suore stesse, che fungevano da corollario attorno all’uomo scarno e così ascetico, da apparire quasi incorporeo, o almeno costituito da una materia a tal punto eterea e intangibile da non poter neppure essere toccata da mani d’uomo, figuriamoci quindi se mai stretta tra quelle di una donna, che sembrava far concorrenza alla sofferenza del Cristo, con quell’espressione fortemente addolorata e contrita, che faceva paventare una sua improvvisa dipartita da questo mondo umano troppo carnale e reale per lui..

La congregazione di suore, pregando e cantando devotamente, ma senza eccessivo zelo tantomeno con troppa gioia, perché sarebbe stato a dir poco sconveniente se non addirittura un vero sacrilegio di fronte al Cristo morente, sembrava una covata di goffi e tristi pulcini bagnati, tutti neri.   Stavano imperturbabili, l’una accosta all’altra, come a darsi sostegno e coraggio di fronte all’immensità del mistero divino

Le consorelle, capeggiate dalla Madre superiora, suor Matilde, erano rigorosamente separate dal resto della misera congregazione di peccatori. Quest’ultimi provenivano da quel mondo esterno dominato da lorde pulsioni e bassi istinti tanto torbidi e sacrileghi, che nessuna delle sorelle del convento poteva anche solo pensarne senza essere attraversata da brividi caldi generati da quel forte senso di colpa, che nasceva e si diffondeva in tutte loro proprio a causa dall’aver osato troppo e poi, ritornare alla meditazione e alla preghiera con quella tranquillità e pace interiore che permettevano loro di vivere in quel luogo dimenticato dal resto del mondo, diveniva un arduo compito.   Queste peccatrici immaginarie si radunavano silenti, davanti al tragico crocefisso di semplice legno di frassino, che issato al soffitto della cappella da una corda serpentina, pendeva al di sopra del candido e immacolato manto reso dalle tovaglie che ricoprivano l’altare.   Relegate in questo loro piccolo mondo arcaico e inviolabile, l’unico mondo che riconoscevano come legittimo e legittimato dal Signore, pregavano febbrilmente senza sosta, neppure per alzare il fervido sguardo di quando in quando e, scambiare così almeno un tacito saluto con gli astanti.   Quello sguardo di un momento, che Giovanna agognava dalla figlia perduta, Carmela, ormai da un lasso di tempo così lungo, da non ricordare neppure più da quanti mesi, che il Signore evidentemente non voleva proprio concederle.

La Madre superiora era anch’essa vestita di solo nero, ma questa era ben lungi dall’essere un pulcino spaurito era, a differenza delle sue subalterne, come un corvo impagliato a cui avevano dimenticato di vetrificare gli occhi, rendendoli inoffensivi, fermi e sereni.   Occhi in cui si inietta quella fissità di sguardo che mostra di avere imparato ad accettare la lezione della morte senza vita, che una tale esistenza in un luogo di così netta inviolabilità, portava inevitabilmente con sé.   I suoi occhi erano errabondi e inquieti invece, tipici di un animale in gabbia e, quando li posava sulle altre addolorate consorelle, le osservava come a volerle castigare ulteriormente e a voler rendere le loro già particolarmente austere e oscure vite nella clandestinità dal mondo, ancor più infelici, se fosse stato possibile, fulminandole con sguardi fatti di veri e propri accecanti lampi che saettavano come fruste attraverso l’aria, posandosi infingardi sulle loro bianche e pallide guance, facendole divenire inevitabilmente per un breve attimo, ma molto doloroso, rubizze e infuocate.   Al ché, le poverette, già fortemente castigate e contrite, dovevano tenere il più lungamente possibile, lo sguardo basso e lontano da quell’altro rabbioso e astuto di rapace, che però, le perseguitava volutamente ovunque e sempre e prontamente le coglieva spesso in flagrante colpa, nell’unico infinitesimale attimo della loro giornata in cui osavano in extremis alzare lo sguardo a livello di reciprocità umana, perché bisognose di trovare un contatto carezzevole, seppur esclusivamente visivo, con qualunque altro essere vivente esclusa naturalmente l’amara madre superiora e di ricordare fugacemente di che cosa fosse fatta la vita, seppur brevemente..

Giovanna non riusciva assolutamente a spiegarsi la scelta di non vita, secondo lei, compiuta dalla figlia e, si capacitava ancor meno, di come, la sua dolce Carmela riuscisse con pacifica e ossequiosa reverenza, a chiamare quella specie d’arpia medioevale di suor Matilde, “Madre”!   Mentre lei, Giovanna, l’unica, vera madre naturale di Carmela, era stata dimenticata in totale solitudine e, abbandonata nella confusione del mondo sempre più moderno e sempre più incomprensibile per una donna sola e ormai anziana come lei, dall’amata figlia, rinchiusasi di sua volontà dentro un mondo incorporeo e nascosto ai più tra gelide e inospitali mura, senza considerare tutto questo un peccato mortale!

Carmela era stata una bambina obbediente e serena, nella semplicità delle sue umili origini natali. Era nata in un vecchio e grigio palazzotto stretto e alto di periferia, vicino alla famosa clinica delle bambole, nel rione Sanità di Napoli, uno dei luoghi più povero e malfamato dell’Italia del novecento. Nata da madre certa ma da un padre sconosciuto a quasi la totalità dei parenti e degli amici di Giovanna, e la stessa dolce Carmela non aveva fatto in tempo a conoscerlo. Un uomo ben conosciuto invece e, mai dimenticato né ancor meno perdonato dalla forte, vivace e umanamente terrena Giovanna, per il repentino ed inaspettato abbandono coatto, definitivo e irreversibile del tetto coniugale a soli pochi giorni dalla nascita della piccola Carmela, morendo in un incidente assai poco probabile nel cantiere dove lavorava. E la allora giovane e volubile donna che era Giovanna, amante della vita e vogliosa di viverla appieno, per sopravvivenza ma non solo si attaccò visceralmente a quella docile bambina, che riusciva ad essere così pacifica e serena nonostante tutto il disarmante subbuglio chiassoso e irriverente del loro mondo di periferia.

Il fatto che sconcertava e addolorava maggiormente Giovanna, però, era che il bellissimo nome di battesimo dato alla figlia, dopo nove mesi in cui oltre a portare e proteggere il feto nel suo caldo utero materno, e ad amare e accrescere di luce propria e cullare nella vivace mente, quel nome proprio di persona, per lei, prezioso ed elegante da subito, che sentiva di avere scoperto e tratto in salvo come una lucente perla dall’immenso caos dei marosi in tempesta dell’oceano terra, non esisteva più.  Che, proprio questa perla scritta con amore infinito, venisse poi cancellata senza alcuna vergogna,  come una brutta e ingiustificata macchia d’unto sul tavolo da pranzo, con una stracciata veloce veloce, e,  senza alcun timore di ferire a morte lei, la madre effettiva, come invero quest’atto compiuto senza il suo permesso ma addirittura a sua completa insaputa, fece, la portò quasi alla disperazione.

Nella cerimonia d’investitura dei sacri voti accolti tacitamente da Carmela, la sua bambina consigliata dalla Madre superiora, aveva infatti scelto di sacrificare il suo nome di nascita, facendone dono con umiltà al Cristo, Re dei cieli, abbandonandolo nella sua vita precedente come un vecchio e consunto vestito e, aveva assunto al posto di quello con cui lei, Giovanna, l’aveva sempre chiamata, il nome di suor Lucia, per divenire luce del mondo (quale mondo? Si chiedeva Giovanna).   Come se il dono di un nome così pieno e sonoro, e così carnale e rigoglioso dato dalla madre terrena fosse ben poca cosa e anzi fosse divenuto un orpello troppo ingombrante e artificioso, per una casta e rispettosa suora di clausura.

Giovanna non capiva e non avrebbe mai capito, ma continuava a raggiungere in visita l’amata figlia nel convento, uscendone ogni volta più arrabbiata e frustrata, e sentendosi sempre più impotente verso questa scelta di vita così morigerata e spenta da parte della sua dolce Carmela. E anche a lei, tradita ma pur sempre colma d’amore per sua figlia, sembrava di essere senza più nome né più vita.

Caterina Ferri

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