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Un futuro con meno plastica negli oceani?

Un futuro con meno plastica?

Ocean Cleanup: le piattaforme per pulire gli oceani

Da una parte il progetto Ocean Cleanup, ideato 5 anni fa dall’ora diciottenne Boyan Slat, partito quest’anno in California con l’installazione delle barriere galleggianti in grado di pulire gli oceani dalla plastica.

la soluzione escogitata da Slat promette di raccogliere 7.250.000 tonnellate di spazzatura in plastica dagli oceani, grazie ad un dispositivo costituito da una lunga rete collegata con alcune piattaforme galleggianti (ciascuna da uno a due chilometri di lunghezza) in modo da convogliare la plastica verso i punti di raccolta. Lo sfruttamento delle correnti marine favorisce la raccolta della plastica all’interno di questo meccanismo, che però non intrappola i pesci; una volta che la plastica si trova all’interno del circuito, viene ripulita da plancton e microorganismo ed è pronta per essere riciclata.

La sperimentazione del sistema di raccolta è andata avanti circa due anni elle acque che circondano l’isola di Tsushima, in Giappone, dove, a causa dei vortici d’acqua, ogni anno si depositano circa 30 mila metri cubi di rifiuti. In seguito, la Ocean Cleanup – che oltre ad essere il nome del sistema di raccolta, è anche l’organizzazione no-profit che si occupa del progetto -ha mappato gli oceani per avere la reale dimensione dell’inquinamento da plastico e all’inizio del 2018, nella baia davanti a San Francisco sono iniziate le vere e proprie operazioni di pulitura con le piattaforme di Slat: l’obiettivo è di entrare a pieno regime entro il 2020.

Il super enzima che mangia la plastica è realtà

Mentre il giovanissimo Boyan Slat installa le sue piattaforme per pulire gli oceani, un gruppo di ricercatori guidati dal  biologo strutturale John McGreehan della University of Portsmouth, nel Regno Unito, ha, del tutto fortuitamente, potenziato il batterio Ideonella sakaiensis, scoperto due anni anni da ricercatori giapponesi, rendendolo più efficace.

Il batterio, che dominava indiscusso il suo regno situato nel suolo di un impianto per il riciclaggio della plastica, era in grado di digerire la plastica: mentre i ricercatori studiavano la struttura della PETasi – ovvero l’enzima che permette al batterio giapponese di mangiare il particolare tipo di plastica chiamata PET* – si sono imbattuti nella sua versione mutante, che loro stessi avevano accidentalmente creato.

Se la PETasi naturale, ovvero quella che si è evoluta naturalmente dal momento in cui l’uomo ha creato il PET nei lontani anni ’40, è già di per se una proteina straordinaria (in genere ci vogliono ben più di qualche decade perchè un microrganismo possa sviluppare un sistema efficiente nel digerire un materiale che prima non esisteva), la versione potenziata creata in laboratorio, solo del 20% più efficiente, apre un’infinità di nuovi scenari di evoluzione delle future forme ingegnerizzate della proteina: non solo digerire di più e meglio il PET, ma anche altri tipi di materiali.

«Ciò che abbiamo imparato è che la PETasi non è ancora pienamente ottimizzata nel degradare il PET», ha dichiarato il biotecnologo Gregg Beckham del NREL. «Ma adesso che sappiamo come fare, è tempo di applicare gli strumenti di ingegnerizzazione proteica che abbiamo a disposizione per continuare il potenziamento».

Un futuro con meno plastica negli oceani diventa ogni giorno più possibile!

*Il PET (polietilene tereftalato o polietilentereftalato) è una resina termoplastica adatta al contatto alimentare utilizzato per produrre tubi, bottiglie e contenitori.

 

Fonte: biopills.net

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