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Il ricciolino che cercava i tartufi

Il ricciolino che cercava i tartufi - Racconto di Carmine Tedeschi

 Il ricciolino che cercava i tartufi

Io e la mamma, figlio mio, siamo cresciuti in questo quartiere ove oggi festeggiamo il Natale. Qui, a scuola, ci siamo conosciuti; qui, siamo diventati uomini; lì, nel parco ove più tardi andrai a giocare coi tuoi amichetti, in un freddo giorno di gennaio, abbiamo capito che eravamo fatti per vivere insieme, per creare una famiglia.

Mi raccontava la nonna che, quando ero fanciullo come te, trent’anni fa, il quartiere non era come lo vedi oggi, centro nevralgico della città. Era, al contrario, un ammasso di palazzine in costruzione, circondato da terreni acquitrinosi e pochi spazi verdi che qualcuno, senza chiedere il permesso alle autorità, coltivava e rendeva floridi. Si conoscevano tutti, in quel granello di case. Quando la neve – allora ne cadeva tanta – mollava la presa e le luci della primavera facevano capolino, sembrava di stare nel piccolo borgo ove abbiamo trascorso le vacanze d’agosto: fino a tarda sera, le strade si popolavano di passeggiatori e di vecchiette che bruciavano i loro giorni spettegolando, mentre i ragazzi adibivano pietre a pali di una porta e giocavano a pallone, in attesa che le madri suonassero la campanella della buonanotte. Anch’io, figlio mio, andavo a scuola, come presto farai tu.

A far compagnia agli umani, c’erano tanti amici a quattro zampe. La celebrità del quartiere si chiamava Pilsner. Era un pastore gallese. Aveva il volto da cane mastodontico in un corpo lungo e compatto, le zampe minuscole e ossute, un manto folto e setoso che attraeva fango e polvere, la coda simile a quella di una volpe. Lo chiamavano “il cane fisarmonica”. Era il più amato dai bambini perché, oltre ad essere tutto tranne che un fiero e impavido custode delle greggi, si divertiva a inseguire chiunque vedesse correre, per mordicchiargli le caviglie: forse, le scambiava per garretti di mucche. I fanciulli, sapendo di questa sua caratteristica bizzarra, lo stuzzicavano, gli gridavano: <<Corri Pilsner>>, e partivano a razzo. Il pastore tarchiato, allora, rizzava la coda e cominciava a mulinare sulle corte zampe, finché, testardo com’era, non raggiungeva la “preda”. Di inseguimenti, Pilsner ne faceva decine al giorno. Puntualmente, ogni sera, rincasava con la lingua a penzoloni, ma non se ne doleva. Era felice così.

Grande amica di Pilsner era la bassottina Tatù. Ella era la fidanzatina del rione. Tutti i cani, di qualsiasi taglia, le facevano il filo. Tatù, però, altezzosa come sa esserlo solo una donna consapevole di piacere, non si curava dei corteggiatori, anzi sovente li liquidava con fare sbrigativo. Era scontrosetta, figlio mio. Accettava attenzioni solo da Pilsner e carezze esclusivamente dai bambini, che spesso uscivano di casa con biscottini da offrirle.

Il re della borgata era il meticcio Rex. Era un esemplare dal pelo biondo, di grossa taglia, di costituzione forte e robusta; nonostante non fosse più giovanissimo, disponeva di zampe molto elastiche, che gli consentivano di spiccare lunghi salti. Lo sguardo, corrucciato e incattivito da mustacci ormai bianchi, gli donava un’aurea solenne, da vecchio saggio. Non amava molti i propri simili, in ragione del fatto che aveva vissuto, fino al primo anno di età, l’esperienza di un canile sporco e fatiscente. Dal grande giardino ove viveva, passava la maggior parte della giornata a osservare, in maniera ormai disincantata, la realtà che lo circondava. Nessuno poteva permettersi di disturbarlo. Gli bastava una woooooooooooooooffata per impressionare chiunque osasse stuzzicarlo.

Un giorno d’estate, però, Rex non aveva ringhiato ad un collega, passato a pochi metri da lui. Era un cane di taglia media, di colore caffè, con venature di grigio sul dorso. Somigliava a un Lagotto. Presentava pelo riccioluto e molto arruffato: purtroppo, non aveva nessuno che, alla sera, si preoccupasse di pettinarglielo. Camminava spaesato per il quartiere, il grigio quadrupede, con lo sguardo cogitabondo, dolce per nascita, ma afflitto da una esistenza magra, solitaria, senza un tetto, affamata e anche un po’ invidiosa dei suoi simili lindi, panciuti, portati al guinzaglio da padroni fieri di avere un amico fedele accanto; in una sola parola: amati. Purtroppo, era un povero randagio. Rex lo aveva capito: anche lui aveva vissuto il dramma della solitudine, prima di incontrare un angelo con la barba.

Tutti, nel rione, si erano accorti della presenza, discreta, del ricciolino; un bambino gli aveva dato pure un nome: Pallino. Gli amanti degli animali provavano pena per lui e si prodigavano per assicurargli una ciotola d’acqua e un pugno di croccantini. I suoi simili fortunati, quando lo vedevano, alzavano la coda e la muovevano freneticamente, per manifestare intenzioni giammai bellicose. Purtroppo, ogni tentativo di approccio risultava vano. Pallino sgattaiolava via da chiunque, impaurito, terrorizzato. Preferiva cercare il cibo tra i cassonetti dell’immondizia, bere l’acqua piovana.

La sua diffidenza aveva, ahimè, una valida giustificazione. Si apprese, infatti, non si sa bene da qual fonte, che il ricciolino era stato, fino alla primavera, un cane come tanti, vissuto in una casa di campagna, con una grande cuccia per ripararsi dalle intemperie e ciotole sempre colme di acqua e cibi gustosi, avanzati dai pasti degli umani. A conferma del suo sangue di lagotto, si seppe anche che aveva una abilità speciale: era, infatti, un eccezionale cercatore di tartufi, tubero del quale la nostra regione è piena. Per tre anni, forse più, Pallino aveva speso il tempo suo primo fiutando, scavando, estraendo prelibatezze, poi rivendute a peso d’oro.

Un giorno, però, il padrone si era scocciato sia di andare per boschi sia del peloso. Così, lo aveva lasciato libero al suo destino, lo aveva abbandonato per strada. Amore di facciata, amore bieco, amore finto, interessato. Imparerai, figlio mio, che di affetti veri è quasi privo il mondo; scoprirai che, purtroppo, anche chi, come un cane, dona amore sincero, privo di malizia, imperituro, più forte del sentimento che prova verso sé stesso, può essere abbandonato, senza un perché. Basta fare una passeggiata per scoprire tanti Pallino moderni, tanti sventurati, prima coccolati, poi diventati esseri ripugnanti per umani egoisti, che magari corrono dietro alla moda del cane, che, quando ne adottano uno, credono sia un pupazzo senza esigenze, senza personalità, un fantoccio da ostentare al guinzaglio, fatto solo per dare la zampa e scodinzolare, non per essere un fedele compagno, meritevole tanto di affetto duraturo quanto di attenzioni costanti.

Ripugnante era diventato Pallino, per la sua vecchia casa. Fin troppo. Persino gli angeli di strada che, ancora oggi, si prodigano per salvare animali abbandonati, avevano suggerito di non denunciare il padrone alle pubbliche autorità, perché altrimenti l’uomo non avrebbe esitato a uccidere chi, per anni, lo aveva arricchito, grazie al suo fiuto. Come poteva, allora, quel povero animale, non avere timore degli umani? Come poteva pensare che ci fossero tante persone di cuore, disposto ad aiutarlo? Per fortuna, c’erano, eccome se c’erano, nel quartiere. Una di esse aveva circa sessant’anni. Si trattava di un tipo guascone, sempre pronto allo scherzo, molto espansivo, estremamente chiacchierone, abbastanza sboccato nelle espressioni. Fisicamente era alto, di mole imponente. Aveva le gote rubizze, tipiche di chi non disdegna il buon vino di casa. Bastava un attimo di sua conoscenza per capire che ci si trovasse al cospetto di un uomo tanto bonario quanto rude, del quale aver paura anche di porgere le mani in segno di saluto, per come poteva stringerle.  Ai cani, piuttosto che carezze, dava sonori buffetti. Anche il gigante Rex non poteva fare alcunché, quando assaggiava la sua vigoria. Nonostante ciò, i quattro zampe capivano quanto di buono ci fosse nel suo animo: quando lo vedevano, non esitavano a corrergli incontro, per ricevere la meritata dose di schiaffoni. Anche i padroni notavano l’appeal che egli aveva sugli animali; per tale ragione, sovente gli domandavano perché non adottasse un amico peloso. Oh, quanto, in cuor suo, avrebbe voluto, il colosso. Purtroppo, gli mancava il coraggio. Il perché lo sapevano in pochi. Il nonno, suo buon amico e compagno di bicchierate serali nell’unico bar che allora c’era nel quartiere, sì. L’omaccione era stato un infinito amante dei cani. Ne aveva avuti, sosteneva, circa trenta nella sua vita, tutti di grossa stazza e impavidi, tranne l’ultimo, un minuscolo volpino che, forse per le dimensioni ridotte e lo sguardo compassionevole, aveva amato più di ogni altro. Dal momento in cui il piccolo Bob, così si chiamava, gli era morto tra le braccia, dopo mesi di sofferenze, l’uomo aveva deciso di non adottare più pelosi.

Scoprirai però, figlio mio, che chi ama gli animali ha sempre un posticino nel cuore riservato a loro. Seppur non presenti fisicamente, seppur lontani, non li sente mai distanti. Nel momento in cui ne vede uno in difficoltà, deve mettersi al suo servizio. Un aiuto, quindi, il rustico signore si sentiva in dovere di darlo a Pallino. Egli, con la forte calura di luglio, era diventato ancora più rinsecchito, emaciato, sofferente, a causa di una purulenta ferita sulla zampa destra, che lo faceva zoppicare vistosamente.  Ogni giorno, allora, al vespro, l’uomo lasciava, all’ingresso dello stabile ove abitava, due ciotole: una di acqua, una di cibo. Nel silenzio delle tenebre, Pallino passava e ne approfittava avidamente e velocemente, per paura di doverle dividere con altri randagi, ben più scaltri e grintosi di lui.

Una sera di fine agosto, il ricciolino, forse più affamato del solito, si avvicinò allo spuntino già al tramonto. Il colosso buono, trovatosi lì per caso, ne approfittò per poggiare una mano sul dorso del randagio. Quest’ultimo, dopo un attimo di paura, forse per salvaguardare il pasto, forse perché aveva sentito finalmente una mano amica, lo lasciò fare. Qualche sera dopo, la scena si ripetette.

L’estate era al canto del cigno. Pallino, grazie alle cortesie ricevute, si era un po’ ripreso, aveva recuperato le forze, il suo volto pareva meno afflitto. Si era anche scelto una cuccia: un angusto spazio tra due colonne portanti della palazzina in cui viveva il suo benefattore.  Questi, in settembre, si recava sovente in campagna: agli albori dell’autunno, il clima diventa fresco e la terra necessita di cure preventive, per non soccombere sotto al peso del gelo invernale.

Un mattino che già profumava di rugiada, Pallino stava dormendo. Quando percepì la presenza familiare, si alzò sulle zampe per seguirla, fino a un grande Fuoristrada. La gentilezza fu ripagata da una carezza. La stessa cosa accadde nei due giorni successivi. Infine, in un giorno di pioggia, il ricciolino decise di passare all’azione: attese il momento giusto e, con un balzo, entrò nell’abitacolo della grande autovettura. Si nascose dietro al sedile del guidatore. Resistette acquattato, respirando lentamente per non farsi sentire, fino a che non vide spalancarsi la portiera del passeggero, fino a che non poté lanciarsi tra i campi e nella fitta vegetazione, finalmente libero, come quando cercava i tartufi, finalmente felice.

Sai che successe, figlio mio? Che, quel giorno, l’uomo rude dal cuore morbido capì che fosse finalmente tempo di dimenticare il suo amato volpino e dare il benvenuto a un nuovo compagno. Pallino finì in una vasca e riscoprì il piacere di un bagno caldo, dopo mesi trascorsi tra le intemperie. Il suo pelo tornò immediatamente lindo, setoso, i nodi sotto alla pancia e dietro alle orecchie si dissolsero, l’odore di lavanda sostituì il fetore della strada e dell’immondizia, il tepore di un gran tappeto conciliò il suo primo sonno nella nuova casa. Nei giorni seguenti, il ricciolino fu munito di un documento di riconoscimento, venne curato dal miglior veterinario della città, ricevette in dono un robusto guinzaglio di pelle, imparò a camminare di fianco al padrone, riassaporò di nuovo il piacere di scavare nei boschi, conobbe Pilsner, la fidanzatina Tatù, si beccò, era ora, una ringhiata da Rex.

I due vissero insieme, nell’appartamento di città, fino a quando, ormai troppo vecchio e stanco, con la moglie volata via, il padrone non si trasferì, assieme al quattro zampe, in campagna, ove il figlio, sposatosi, aveva costruito una grande e accogliente casa.

Nonostante fossi già nato ai tempi di questa storia, non ricordo quell’uomo buono né ricordo il cane riccioluto che sapeva cercare tartufi. Sono passati tanti anni da allora. Probabilmente, né il vecchio né Pallino ci sono più. Ma voglio credere e sperare che i due abbiano trascorso gli ultimi anni della loro vita insieme, legati l’uno all’altro, a insegnare, a un fantolino come te, quanto l’amicizia di un cane, di un animale in genere, faccia crescere un uomo migliore, dia senso alla parola “amore”, all’amore, quello disinteressato, quello che non ti chiede nulla in cambio, quello non di facciata, quello che non risente delle insidie del tempo e dei tumulti della vita di ogni giorno…quello vero.

Buon Natale, figlio mio.

(25 dicembre 2014)

 

Carmine Tedeschi

Nato a Isernia, cresciuto in un fazzoletto di mondo chiamato Monteroduni, trasferitosi in giovane età nella grande capitale, di 50.000 abitanti, del Molise, la Regione che esiste, eccome se esiste, anche se molti nutrono dubbi in proposito.
Avvocato da scrivania di professione, assistente a tempo indeterminato di un batuffolo di peli molesto e sfaticato, single a oltranza ma spaventato dalla solitudine, “riempipagine” senza avere le benché minime nozioni di tecnica di scrittura. Scrive per ingannare il tempo e per regalare un sorriso alle sue numerosissime fan, circa 20 vecchiette che sognano di darlo alle nipoti come sposo. Per scopi benefici, ha pubblicato due raccolte di storielle (The Canluppoly Tales, Storie pelose, due anni di vita di un cane sfaticato; Ricordi e Realtà, storie di un paese in disarmo). Anzi, ha autopubblicato. Qual editore serio avrebbe avuto il coraggio di prenderlo in considerazione?

 

Il ricciolino che cercava i tartufi è un racconto tratto dal libro “The Canluppoly Tales – Storie pelose” di Carmine Tedeschi.

Un libro scritto a sei zampe: un cane e il suo sedicente padrone intrecciano il loro sguardo e la loro visione del mondo. L’esistenza dei due protagonisti oscilla tra la modernità della città e posti spazzati via dal Tempo, dove tutto sembra cristallizzato nelle ripetitive abitudini di un lontano passato. Proprio qui, in quest’eterno presente, Cane L. e assistente C. si raccontano nella quotidianità di sempre. Un infinito bisogno d’affetto, la necessità di non sentirsi più soli, il desiderio di piccole gioie di cui si è perso il piacere cambiano inesorabilmente la consueta vita di entrambi. A volte non è dai grandi cambiamenti che dobbiamo aspettarci la felicità, ma dai piccoli gesti di tutti i giorni: forse è solo la maniera in cui viviamo, giorno per giorno, che può raccontare ciò che siamo. Un libro che attraversa tutte le età di un uomo, una bellissima storia d’amore tra un cane e il suo padrone finto burbero, cambierà in noi l’idea di felicità (L.A.)

E’ possibile acquistare il libro su ilmiolibro.kataweb.it

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