venerdì , Marzo 29 2024

Raccontami una storia: “I remember Yugoslavia”

I remember Yugoslavia

Corrado Tringali

 

Sono anni che non sistemo le vecchie carte.   I racconti, le cose scritte fra i diciotto e i vent’anni, sono rimasti lì, sotto pile di libri e di fascicoli, non toccati per decenni. Tiro su un fascicoletto grigio, e rimango come incantato da quei caratteri, stampati male su una carta sottile, ormai completamente ingiallita… già, sono ‘dattiloscritti’, e ogni lettera è diversa dall’altra; una scrittura quasi artigianale, con il nastro inchiostrato che vibrava sotto i colpi dei martelletti, e il ritmico procedere del foglio ogni volta che si tirava la leva di avanzamento del carrello… tic, tac, tac… avevo imparato a scrivere sulla Remington di papà, picchiavo malamente sui tasti verdi, sino a quando non mi decisi a imparare a scrivere con tutte le dita.

Fu una stagione felice per la mia scrittura, ed ero quasi convinto che avrei continuato…

Guardo ora le date degli ultimi brevi racconti: ottobre 1970, novembre 1970… sono passati quasi cinquant’anni! Cos’era accaduto?

Leggo qualche rigo… strana sensazione… come quella di leggere i testi di un altro… lo stile, il linguaggio… quelle frasi senza prendere fiato… non credo che potrei scrivere così, oggi.

Cosa ci cambia? La chimica era entrata nella mia vita scacciando tutto il resto? o semplicemente non c’era più tempo? … lo studio, certo, forse anche il “sessantotto”… nulla era stato più come prima, agire sembrava più importante di pensare… e di scrivere…

Adesso comincio a percepire la fine della corsa… e mi sembra tornata la voglia di scrivere.

Mi fermo a guardare gli ultimi titoli del fascicoletto: “Dubrovnik”, “Un ricordo di viaggio”.

Il viaggio in Jugoslavia!

Con il mio amico, che avevo, per ragioni letterarie, ribattezzato Claudio.

Jugoslavia, la mia prima ‘meta esotica’, forse il luogo che mi ha fatto capire quanto fosse importante per me viaggiare, osservare altri luoghi, altri mondi… di questo misterioso paese sapevo ben poco quando mio fratello, tornando proprio da lì, mi portò come souvenir una specie di lunga pipa di legno intagliato, che diventò per me un reperto prezioso e rimase per anni attaccato alla parete della mia stanza, dove campeggiava il poster della Terra vista dalla Luna; Neil Armstrong aveva da poco fatto quel “piccolo passo”, e sembrava proprio che di lì a poco avremmo conquistato l’Universo.

A me sembrava intanto imprescindibile varcare il confine con l’Oriente, raggiungere il paese dove le Chiese si mischiavano alle Moschee… non c’era nulla di simile a Occidente; e soprattutto, il ‘misterioso paese’ non era lontano, bastava una notte di traghetto sull’Adriatico.

Sbarcammo a Bar, nell’estremo sud. Con la mia ‘mitica’ cinquecento gialla.

Era un sud più meridionale del nostro sud, dove anche le strade erano in parte sterrate, dove i veicoli che ci incrociavano più di frequente erano camion carichi di fieno.

Ma sulle spiagge incontrammo subito le ragazze!

Fu così che scoprimmo di poter comunicare in inglese, oltre che naturalmente a gesti, o tenendo a portata di mano il dizionarietto per tradurre in serbo-croato.

I remember… Sulle spiagge del Sud, nei vicoli di Sveti Stefan, sotto le cascate di Plitvice, sulle mura di Dubrovnik, o sulla terrazza dell’ostello ai bordi del fiordo di Kotor, improvvisammo lunghe conversazioni in anglo-serbo-croato con gocciolanti creature dagli occhi luminosi, che si scambiavano sguardi e risatine: “italianski, italianski!”… Non eravamo ancora famosi per le stragi di terrorismo e di mafia, forse loro pensavano che fossimo veramente il paese della ‘dolce vita’.

Impossibile immaginare allora quello che è venuto dopo.

La guerra, i cecchini, un paese martoriato, lo ‘Stari Most’… il vecchio ponte di Mostar che avevamo attraversato in quell’estate del 1970 distrutto nel 1993 e poi ricostruito…

Senza accorgermene, comincio a rileggere i dattiloscritti che avevo già dimenticato.

Quasi come trovare un manoscritto in una bottiglia….

Le pagine sembrano percorse da una sottile inquietudine, come al risveglio da un sonno ricco di sogni che non si riesce a ricordare. Vent’anni! Eravamo felici, certo, ma c’era come una paura inespressa, che si faceva strada fino ad arrivare sulle pagine scritte.

 

Io e Claudio ormai abbiamo i capelli bianchi, la memoria vacilla di frequente, le vicende della vita ci hanno riservato dolcezze e amarezze.

Abbiamo fatto gran parte del percorso.

Quei ragazzi del 1970 sembrano i nostri figli o nipoti. Che hanno diritto ai loro sogni.

DUBROVNIK

La strada era color della polvere, stretta fra le pietre antiche delle case, e misteriosa nel suo continuo stringersi o piegarsi in curve, o suddividersi in innumerevoli altre vie intessute tra gli edifici; camminavamo piano nel mezzogiorno, e la città sembrava mormorasse, forse era soltanto il mescolarsi di lingue diverse, il rumore della macchina dei gelati quasi assurdamente incastrata nel portoncino decorato, forse il vento del mare che scorreva tra i comignoli e i campanili delle chiese.

Ci guardavamo attorno come stupiti, ogni tanto Claudio scattava una foto, pochi passi e il sole riusciva a scovarci, ci ingiungeva di socchiudere gli occhi.

Nella piazzetta la gente s’era fatta rada, i bar si riempivano di turisti accaldati, e noi guardavamo le scale ripide verso le mura. Le case erano assiepate in istintiva difesa, anch’esse ricordavano le antiche paure di nemici giunti dal mare, eppure le finestre fiorivano di gerani, e le donne mettevano al sole le larghe bottiglie colme di amarene; lunghe, le scale erano consumate dal tempo, quasi a fatica salivamo, con qualche parola e il sorriso sul volto, strana magica felicità ci sorgeva dentro salendo, ore e ore saremmo rimasti nell’indimenticabile, luminoso mattino. Il desiderio di arrivare alle garitte alte sugli spalti era come l’ansia infantile alla ricerca di misteri; giochi e paure che ritrovavamo infine sfiorando le merlature, lanciando ogni tanto un’occhiata dietro di noi, alle case di cui ormai si scorgevano i tetti, alle scalette tortuose che ci avevano portato ancora più in alto, quasi sull’ultima torre.

Dall’alto, la città si scorgeva quasi interamente, strana nella sua vecchiaia piena di vita; le mura si protendevano spavalde sull’acqua, e scorgevamo affacciandoci le onde spezzate dagli scogli, il mare intenso verso il quale si rivolgevano immobili le antiche colubrine.

Lontano erano altre torri, forse ancora più alte; la strada era stretta lungo gli spalti, ripida e scivolosa a volte, e il sole del mezzogiorno aveva fatto scomparire i turisti, così che adesso le mura erano deserte e immobili contro il cielo; le mani sulla fronte per guardare lontano, cercavo una presenza sulle pietre massicce o vicino ai cannoni nerastri, quasi aspettando i tartari…

Ci scuoteva un rumore improvviso, lasciandoci sorpresi alla vista di tutto ciò che la fortezza nascondeva; osservavo  le feritoie ormai inutili, i comignoli sconnessi dal vento, riflettevo sulla strana magia che aveva fuso nel tempo i cavi della corrente elettrica e le garitte screpolate. I camminamenti fra le torri rivelavano le suore nere in mezzo alle pietre biancastre, la vecchia nell’abbaino seduta sui tappeti, generazioni di gatti che percorrevano i tetti, la fontana sotto le mura, un ospedale con rumore di stoviglie e silenzio di malati, persino un campo di calcio tracciato sulla terra scura, stretto fra le altre case; la vita si stendeva fra le finestre e i lucernari come una immensa ragnatela, copriva le strade e le piazze fitte di antiche botteghe e luminosi negozi, rimbalzava con suono di mille voci fra gli usci e le scale, si mescolava allo stridìo di centinaia di gabbiani bassi sulla città.

La ragazza delle bibite col suo enigmatico sorriso, i tavolini sorti all’improvviso nell’ombra della torre, anche queste gioiose sciocchezze avevano qualcosa d’irreale; già stanchi ci arrampicavamo sulla scala a chiocciola, fin sull’ultimo bastione; il mondo dalle feritoie era come piccolo e misero, con le auto e la folla di turisti, le voci e i clacson che giungevano attutiti; per un istante compresi la vittoria della vecchia fortezza ancora rigida e pronta a lottare contro immaginari nemici, ancora illusa della sua forza ma nobile, in fondo, alta sui parassiti sotto le mura: alberghi, ristoranti o negozi eleganti, aggrappati alla città come per strapparle la vita.

Poi fu uno sguardo all’orologio, un sorriso di ragazza forse, o il suono di un giradischi, chissà in quale lontana finestra sepolto, e la superba citta tornò ad essere in dimensione da foto, presto sarebbe stata soltanto un ricordo… eppure ci allontanavamo con l’animo pieno di grandi cose, le scale scorrevano veloci sotto i nostri passi, il sole cominciava a piegarsi nel cielo e l’ombra a coprire i primi balconi, la donna grassa rideva sull’uscio e il calzolaio bucava il cuoio con l’ago, come sempre.

 

UN RICORDO DI VIAGGIO

Vicino agli amplificatori era difficile anche scambiare qualche parola; la musica percuoteva le orecchie e il ragazzo si agitava sorridendo, la camicia sbottonata lasciava scorgere il torace lucido di sudore, ogni tanto urlava qualcosa che non capivo; c’era caldo, molto caldo sulla terrazza illuminata e l’acqua scura del fiordo non sospingeva vento.

Parlo con la ragazza, ha un nome strano ma capisce qualcosa d’inglese; sorride spesso, ha begli occhi, questo forse riuscirei a dirglielo anche nella sua lingua…

Era soltanto l’eccitazione d’essere liberi, sconosciuti, dispersi? era il dimenticarci di noi stessi, non avere nome e passato, non avere nulla ed essere ricchi?

Mi colpì la foga con cui ballava, avevo sete e sudavo anch’io; era una sera molto umida, Claudio mi chiese una sigaretta, tenevo il pacchetto proprio io che in Italia non fumavo quasi mai.

Vuole una sigaretta, questo si capisce anche senza bisogno di parole; ne estraggo una pure per me, la prendo tra le dita inesperte si accorge ma non importa, la gola è gonfia di fumo, forse di parole non dette…

C’è come uno strano nervosismo nell’aria, la musica senza requie, lo scorcio delle camerate con aria di postriboli e occhiate sorridenti, il fumo che riesce a riempire anche l’aria ferma della terrazza.

Era una strana folla, un’atmosfera diversa e lontana, forse lontana soltanto una notte di nave, forse lontana dal passato o dal futuro, non importava, purché fosse lontana; Claudio teneva per mano la ragazza, avremmo dovuto ricordare tutto questo, dopo, e dimenticare ogni cosa, allora: ma il presente ritornava a ondate, come un riflusso della mente, ci guardavamo per un attimo e sapevamo…

“Ci torneremo” dissi a Claudio, “ma non avremo più vent’anni…”

La ragazza era scomparsa, annegata tra la folla, forse non avevo capito… quest’altra si teneva vicina, potevo sentirne il respiro, un impercettibile moto dei capelli, sorrideva un po’ timorosa.

C’era l’odore d’avventura nell’aria, era quello a dare la febbre…

Cosa ci fanno le ragazze nel corridoio? Cavolo di un ostello, le finestre sono rotte e stanotte ci sarà vento… le ragazze ridono appoggiate alla parete scrostata, chissà cosa dicono con quell’assurdo parlare oh perché c’è sempre un attimo come di smarrimento sull’infinito?

Ero solo, solo e maledettamente solo, in mezzo a quella folla sconosciuta e alienante, era questo a rendermi nervoso.

…come un improvviso desiderio di lei.

Strano incontrare di nuovo la ragazza seduta sul bordo della terrazza; al diavolo il ballo e annoiamoci insieme, questa è la quinta aranciata, niente alcol all’ostello, ci si può ubriacare d’aranciata? Riusciamo a scambiare poche parole, è tutto così piacevolmente assurdo, quasi comico… forse meglio spiegarsi a gesti.

Triste? No, nema, nema, la ragazza scuote la testa.

Un anello comune, certo, forse l’avevo trovato curioso solo per sfiorarle le mani, lei sorrideva e sfuggiva con gentilezza. Ma cosa aveva capito?

Siamo italiani, italianski, oh, accidenti a te questo lo sapevi già, immagino si veda, è per questo che avete un po’ paura, per questo che il ragazzo mi lancia uno sguardo sfottente, al diavolo anche la vostra stupida gentilezza!

Nervoso, si, ero certamente nervoso, inveivo contro tutto ingiustamente, non c’era nient’altro se non la mia cancrenosa astrazione, essere altrove e immaginare un problematico futuro…

Strana la rissa sul molo e l’allegria delle chitarre per un attimo sospesa; lo portano via e il respiro riprende, anche lei ha uno sguardo rapido d’ansia ma subito ritorna noncurante e tranquilla.

Un nuovo desiderio nella lontananza, fumare quasi con rabbia, perché non riuscivo a pensare soltanto all’attimo presente?

La musica aveva taciuto, qualcuno aveva iniziato a parlare, recitare pareva, sì era proprio recitare, lei aveva sollevato la testa, mi aveva fatto capire che si trattava di poesie.

Strano miscuglio chitarre batteria poi silenzio e poesia incomprensibile che si sparge nell’aria, la ragazza sta attenta e mi fa rabbia non capire, vorrei…

Era una strana felicità; che importava solitudine o problemi esistenziali, sciocchezze e sciocchezze, era soltanto un vuoto allo stomaco troppe sigarette una stanchezza che avremmo rimpianto.

Anche lei ha qualcosa, ma sfugge con un sorriso alle domande che non posso farle, ora che la musica ha ripreso potrei dirle di ballare, ma mi dirà, mi dice che deve andare via, dormire ma non ci credo, quel che importa è che se ne va, guardo l’orologio e penso alla stanza col vetro rotto, alla notte, al mare che sembra lago.

Ancora musica, musica, Claudio quasi urla ma non riesco a sentirlo, qualcuno va già via, il vento soffia ora con forza e la terrazza si svuota lentamente, anche noi raggiungiamo le scale e la musica tace quasi all’improvviso.

Era una dolcezza eccitante, l’aria umida e calda, guardavamo dalla finestra, sotto c’era ancora gente che chiacchierava, sul moletto ragazzi trepidanti per il bagno notturno, e rumore di risate lontane.

Nel silenzio, ora si sente soltanto il loro secco parlare, gli ultimi rimasti a chiaccherare e fumare sulla terrazza.

La chiave cigola, siamo già nella stanza. C’è qualcosa, in tutto questo, qualcosa che mi sfugge e non capisco… Le lenzuola erano ruvide, ma presto la stanchezza le avrebbe ammorbidite, Claudio già quasi dormiva e io gli parlavo e parlavo, non riuscivo a dormire e lui mormorava qualcosa nel dormiveglia, anch’egli aveva sentito quella strana, impercettibile angoscia; vent’anni! oh, cavolo, chissà che vita ci attendeva, saremmo riusciti a sopportarla?

Claudio ormai si rivoltava tra le lenzuola, nel sonno.

 

About Redazione

Prova anche

Un anno vissuto pericolosamente

Un anno vissuto pericolosamente di Luca Giacobbi L’anno a cui faccio riferimento è quello che …