venerdì , Aprile 26 2024

“Zaira” di Renata Rusca Zargar

Zaira

di Renata Rusca Zargar

 

Proprio in fondo a una lunga fila di stabilimenti balneari, a Bergeggi, sulla strada principale, c’è un piccolo slargo con una baracchetta che vende cocco e bevande ai bagnanti. Là, su di un muretto, i numerosi venditori ambulanti, che percorrono avanti e indietro la spiaggia, siedono ogni tanto a riposare.

Così è anche per Zaira.

-Come va oggi?- le domanda Alberto.

-Ho venduto poco.- risponde lei con quella pronuncia particolare che sembra allungare le sillabe, mentre il suo sguardo si stende all’orizzonte azzurro del mare, ai moli, al faro che si alza a strisce bianche e rosse sulla strada di costa.

-Eh, qualche anno fa, si vedevano pochi ambulanti da queste parti, così quelli che c’erano, tutti marocchini, lavoravano tanto. La gente li aspettava, li cercava addirittura, perché sapeva che loro offrivano diversi prodotti di abbigliamento, biancheria, bigiotteria, a prezzi vantaggiosi. Mi ricordo che hanno portato qui i primi parei o quei vestiti indiani di cotone garzato trasparente: le ragazze ne andavano pazze!

-Anche ora abbiamo dei prodotti interessanti…

-Sì, ma allora c’era in più la curiosità del diverso: erano i primi extracomunitari che venivano qui, ci si divertiva a chiacchierare con loro, gli chiedevano quanti cammelli avessero, quante mogli… E loro giocavano un po’ anche a scandalizzare. Qualche volta raccontavano fantasiose storie di cammelli scambiati con bellissime fanciulle che li aspettavano a casa, invece che spiegare di mogli magari sfatte dalla povertà, anziani genitori senza redditi o bimbi fragili per le malattie per i quali si sacrificavano. Ma era ciò che la gente voleva sentire. A fine stagione, poi, quei marocchini caricavano delle vecchie automobili con le loro cose. Avresti dovuto vedere come erano zeppe le “millecento” rugginose che si abbassavano per il peso! Portavano tutto ciò che era servito per vivere qui qualche mese, spesso sulla spiaggia o in macchina, come le pentole, il fornello, il materasso, infine, c’era quello che avevano comprato per rivenderlo nel loro paese a qualche riccone che bramava i prodotti europei. Così se ne ripartivano: le loro facce sorridenti, i denti cariati e macchiati, se ne tornavano felici in Marocco, attraverso la Francia e la Spagna, con un bel gruzzolo che gli bastava per mantenere la famiglia tutto l’anno. Adesso, invece, c’è una vera invasione, soprattutto di senegalesi, come te, o di pakistani, bengalesi, e la gente non ha più voglia, come prima, di incontrare degli stranieri e di parlargli. Sono troppi, dicono, non ci lasciano in pace, c’è sempre un vu’ cumprà in agguato quando ci si allunga a prendere il sole o si chiacchiera tranquillamente con gli amici.

-Lo so, mio fratello mi aveva raccontato tutte queste cose. Lui è stato uno dei primi a venire qui dal Senegal. Aveva sentito dire che c’era gente che andava a sdraiarsi sulla sabbia vicino al mare addirittura per diventare più scura, che stava là senza fare niente, a perdere tempo, ma che quello era un buon mercato. Lui portava delle collane di pietre dal nostro paese, roba da poco, però, alla gente piaceva. E anche lui ha guadagnato bene. Si fermava tutto l’anno, perché, poi, quando finiva il periodo della spiaggia, stendeva un panno su di un marciapiede in città e continuava la vendita: cavalli, elefanti di legno, borse… Mi ricordo che, quando, poi, tornava a casa, ci portava tante cose e io ho potuto, come i miei fratelli e le mie sorelle, andare a scuola e avere una vita decente. Noi lo aspettavamo con ansia, tutti parlavano di lui, al paese. Anche le zie e gli zii venivano a trovarci e ci chiedevano: “Quando torna Lumbu? Ha scritto?”  “Sì.” rispondeva la mamma che, come le zie, non sa leggere ma alla quale noi figli spiegavamo almeno due o tre volte la lettera. “Ha scritto che torna tra tre mesi, per la festa di Eid Ul Fitr.” “Ah, bene.” Specialmente, lo attendeva la zia Fatima che voleva fargli sposare sua figlia Jasmine. Ormai Lumbu era in età da matrimonio e nessuno avrebbe voluto mai che trovasse una donna in un paese lontano perché non l’avrebbe più fatto tornare a vivere in Senegal. Doveva avere moglie da noi tanto più che, dopo qualche anno di sacrificio, avrebbe avuto i soldi, finalmente, per fermarsi a casa, magari aprire un negozio in città, una qualsiasi attività, e stare bene per sempre…

-È come se l’avessi davanti agli occhi, tuo fratello! Anche lui si fermava, qui, a chiacchierare con me, tra un giro e l’altro, e poi abbiamo passato tante serate insieme…

-Lumbu ce l’aveva detto di avere un amico che si chiamava Alberto.

-Vieni, riprendiamo il nostro giro.-

Alberto si avvia con il suo cestino ricolmo di pezzi di cocco bianco, il secchiello con l’acqua e il campanello che scuote per attirare l’attenzione.

-Cocco, cocco bello! Cocco, cocco fresco!- urla avanzando sulla sabbia infuocata tra le file di ombrelloni, con i suoi calzoncini verdi corti, la canottiera bianca e i sandali ai piedi.

Mamme e bambini, lo chiamano:

-Quant’è un pezzo?-

-Un euro.-

-Va bene, due pezzi.-

Alberto prende con le pinze due pezzi, li rinfresca nell’acqua e li porge ai turisti sdraiati sui loro asciugamani o sulle sdraio. Poi, continua il suo giro fino al molo; allora, avendo finito il cocco, torna indietro, alla baracchetta, dove suo padre, in quel commercio da più di trent’anni, gli ha preparato un altro cesto ricolmo.

Anche Zaira è già tornata allo spiazzo.

-Com’è andato il giro?

-Non tanto bene, ho venduto solo tre camicette. Adesso passo dall’altra parte della spiaggia, speriamo che mi vada meglio!

-Vedrai, è il primo anno, non hai ancora tanta esperienza, ma ce la farai. Questa sera vieni a casa mia. La mamma ha preparato gli arancini e la cassata.

-È una festa?

-Sì, viene a trovarci mio cugino Filippo che torna dalla Germania.-

Alberto è nato qui, al nord, ma i suoi sono venuti dalla Sicilia, appena sposati. Suo padre ha lavorato un po’ come muratore, poi ha capito che poteva guadagnare di più vendendo cocco e bibite ai turisti e ha iniziato quell’attività. In effetti, anche se la fatica è tanta durante il periodo estivo, il guadagno è discreto, per cui anche Alberto, dopo la scuola dell’obbligo, ha deciso di continuare lo stesso lavoro, insieme al padre.

Dunque, Zaira si avvia dall’altra parte dello spiazzo dove c’è un’altra lunga fila di stabilimenti balneari e anche una spiaggia libera. Tutti rimangono colpiti a vederla passare: le sue gambe lunghe spuntano dalla gonna corta tigrata che indossa e il suo incedere ha una naturale eleganza che richiama quella della gazzella. Sul capo, sopra il fazzoletto nero a pallini rossi che le ricopre i capelli, porta in bilico un grande cesto rotondo dove sono allineati e piegati numerosi indumenti dai colori decisi: azzurri, rossi, gialli, bianchi. A richiesta, abbassa il cesto, lo posa sulla sabbia e mostra i capi ordinati e stirati.

C’è sempre, però, qualche giovanotto spiritoso che l’apostrofa:

-Allora, bella negraccia, che fai stasera? Potremmo uscire insieme…- mentre una risata sguaiata gli allarga la bocca.

Zaira è come se non sentisse. Ella pensa solo a lavorare per mandare i soldi a casa. Per fortuna, ci sono altri, più gentili, che osservano quello che ha nel cesto e, se gli piace, lo comprano.

Ma qualcuno non si accontenta del suo silenzio e continua, tra il sollazzo degli amici, ragazze comprese:

-Dai, non fare la schizzinosa, sappiamo che mestiere fanno la sera quelle come te! Ce ne sono tante sulla strada!

-Lasciala perdere.- interviene, invece, qualcun altro – Lei è come quelli che sono arrivati ieri, in quel barcone della speranza dall’Africa. Hanno la vita dura, cercano di sopravvivere alla fame, alle malattie, hai visto al telegiornale, no? Molti sono morti durante il viaggio!

-Meglio.- risponde una donna –  Così ce ne sarà di meno, di questa brutta gentaglia. Sono dappertutto questi musi neri! Ci sono degli extracomunitari al mio paese, in Lombardia, che dopo un po’ si comprano la casa, girano con la macchina… Non sono poveracci, stanno meglio di noi!-

Zaira si allontana.

La sera, nella sua cameretta, finalmente, ella pettina i suoi lunghi capelli ricci e quindi si reca a casa di Alberto. La cena è molto abbondante. Primi, secondi, dolce… Da quanto tempo non mangiava così tanto! Sono cibi nuovi per lei, ma le piacciono. Filippo, il cugino, intanto che divora le pietanze alla siciliana della zia, non le leva gli occhi di dosso, mentre racconta i suoi progetti.

-Domani parto per la Sicilia, torno a casa per qualche mese. Mia madre mi coccolerà un po’, sono tre anni che non riesco a scendere a casa!

-Hai le ferie?- gli chiede Alberto.

-Sì, ho preso le ferie di quest’anno, dell’anno scorso e anche la licenza matrimoniale.

-Allora ti sposi?

-Eh, ormai è tempo di mettere su famiglia. Mia sorella mi scrive sempre che la mamma prega ogni giorno che trovi una brava ragazza al paese… Questa volta la voglio accontentare!

-Allora ce l’hai la ragazza?

-Più o meno. C’era una che mi piaceva. Ci siamo scritti un po’ e ora le chiederò di sposarmi. Se accetta (e non credo proprio che non lo farà!), ci sposeremo appena fatte le carte.

-La porterai in Germania con te?

-Non so ancora. Magari più avanti, la vita è molto dura là, per una famiglia di immigrati. In Germania non hanno molta considerazione per noi, ci chiamano spesso ladri e mafiosi.-

Le parole corrono intorno al tavolo. Filippo racconta con vivacità della sua vita, delle sue sofferenze nella solitudine di un paese straniero, della fatica quotidiana, ma anche della bellezza di quel paese, dei comfort che glielo fanno amare. Tutti lo ascoltano attentamente.

Infine, Zaira si alza per accomiatarsi: è molto stanca e domani sarà un’altra giornata da spendere a camminare sulla sabbia arida, sotto il sole cocente.

Filippo insiste per accompagnarla.

-Sono solo poche decine di metri da qui a casa mia, non è necessario.- si schermisce lei.

-No, è meglio che ti accompagni, una bella ragazza come te, di notte, può fare cattivi incontri.-

Filippo è molto gentile. La prende per mano e si avviano per la strada deserta. Nel silenzio, si ode lo sciacquio proveniente dal mare che, dolcemente accarezza le pietre e la sabbia. Filippo insiste per fare un giro sulla spiaggia, ma Zaira non se la sente, gli occhi sembra che le si chiudano dal sonno.

-Dai, allora vengo io nella tua stanza!- e, improvvisamente, Filippo l’abbraccia stretta.

Zaira si divincola.

-Allora, bellona, che ti prende?

-Niente, ma non c’è motivo che tu mi abbracci.

-Ma tu mi piaci, sei molto carina.

-Filippo, tu stai per sposarti.

-E che c’entra? Pensi che non mi debba più divertire?- e ancora l’abbraccia.

Zaira spinge con le sue braccia per allontanarlo ma le mani di Filippo sembrano diventate cento, mille, la bocca di lui la bacia sul collo, sulle guance…

-Insomma, Filippo, se non mi lasci mi metto a gridare!

-Eh, come esageri! Dai, non fare la santina con me. Lo so quelle come te cosa fanno! Vendere è tutta una scusa per trovare dei maschi che paghino, non è vero, forse? Volete avere anche voi bei vestiti, gioielli, e così venite qui a fare le puttane! Ce ne sono, come te, anche in Germania e ci sanno fare! Ma stai tranquilla, ci divertiremo un po’ insieme, non ti rovinerò i tuoi affari, nessuno ne saprà niente, compreso mio cugino. Ho visto, sai, come ti guarda, magari hai puntato su di lui…-

La rabbia soffoca Zaira, gli occhi le si riempiono di lacrime. Che cosa ha fatto di sbagliato per essere trattata così? Per fortuna, un gruppo di persone passa per quella strada ed ella ne approfitta per correre via da Filippo e infilarsi in casa, al sicuro.

Filippo si allontana bestemmiando.

Il giorno dopo, Zaira evita di parlare con Alberto, non lo guarda neppure in faccia e non si ferma allo spiazzo a riprendere fiato. Ma, verso sera, Alberto la prende per un braccio:

-Che hai oggi? Non mi hai rivolto neppure la parola!

-Niente, sono un po’ stanca.

-Va bene, siediti qui, vicino a me.

-No, non voglio.

-Perché ce l’hai con me?

-Non mi va di fermarmi, ho da fare a casa.- e scappa via con gli occhi bassi.

Due ore più tardi, Alberto bussa alla sua porta: -Aprimi, ti ho portato il gelato.-

Zaira apre, i suoi occhi sono ancora rossi dalle lacrime.

-Ma cosa ti è successo? Con me puoi parlare, io sono tuo amico.

-Niente, non ha importanza. Sono un po’ triste.

-Forse hai nostalgia del tuo paese, dei tuoi cari… Sai, anch’io sento la mancanza della mia vera terra, la Sicilia. Lo so, sono nato qui, però,  sento che là c’è il mio cuore. Quando ero piccolo, a ottobre, finita la stagione estiva, andavamo sempre giù a trovare i nonni. La nonna si metteva ai fornelli e cucinava tante cose buone, ma il nonno mi portava in giro. La nostra casa si trova a Siracusa. Qualche volta mi portava alla spiaggia: c’è una spiaggia bianca di sabbia fine fine, a qualche chilometro dalla città, in un posto che si chiama Fontane Bianche. Là non è come qui che si sprofonda subito nell’acqua: là, se ti immergi, puoi camminare tanto e il mare ti arriva sempre ai fianchi. Intorno alle tue gambe, guardando il fondo, puoi vedere tanti pesciolini. Era bellissimo! Ma adesso mangiamo il gelato che si scioglie, e poi andiamo a fare un giretto.-

Alberto accompagna Zaira a Spotorno dove ci sono le giostre. Zaira non è mai stata ai baracconi, non ha mai potuto permetterselo anche se, una volta l’anno, arrivavano nella città vicina al suo misero villaggio. Alberto le fa fare un giro sulla ruota panoramica. Di lassù, in alto, si vedono le luci di Savona, Vado, Noli, Bergeggi e, dall’altra parte, il mare si confonde con il cielo. L’altoparlante del Luna Park diffonde nell’aria scura delle canzoni italiane romantiche. Zaira rabbrividisce di freddo. Quando scendono, però, non sembra più tanto triste e Alberto, sparando con la carabina in un’altra attrazione, vince una foto di loro due vicini, mentre il volto di Zaira è illuminato da un bel sorriso.

Poi, Alberto la riaccompagna a casa. Quando la saluta davanti alla porta, Zaira sembra di nuovo triste. Ma Alberto, dopo averle stretto una mano affettuosamente, se ne va via in fretta.

Il giorno dopo è uguale a tanti altri che vengono in seguito.

La sera, ormai, Alberto ha preso l’abitudine di andarla a trovare e di condurla da qualche parte, magari nei giardini, a prendere un gelato, qualche volta a ballare. Zaira è bravissima. Ha un innato senso del ritmo e, anche se non ha mai visto prima una discoteca in vita sua, appena è sulla pista si scatena.

Alberto la guarda imbambolato perché ella è bellissima e, una sera, infine, la stringe a sé con tenerezza:

-Zaira, mi sono innamorato di te.

-Anch’io.-

La luna splende grande e gialla nel cielo.

-Ti sposerò, Zaira. Il lavoro ce l’ho. Non mi manca niente. Tu sarai mia moglie. Lo so, tu vuoi tornare al tuo paese, ma ci andremo, vedrai, almeno una volta l’anno e tu potrai anche fermarti qualche mese quando ne sentirai la necessità.

-Alberto, i miei parenti hanno bisogno del mio lavoro… Quando mio padre è morto, siamo rimasti senza nessuno che lavorasse, in casa. Vivevamo in una specie di baracca perché mio padre faceva il manovale e guadagnava poco. Quando pioveva, l’acqua ci allagava la cucina e i materassi sui quali dormivamo. Non riuscivamo mai a liberarci completamente del fango su tutte le nostre cose. Vicino alla nostra casa, avevamo un piccolo campo ma, spesso, non pioveva per mesi e mesi, così, non riuscivamo a ricavarne neppure qualche ortaggio per mangiare. Lumbu e una mia sorella, Mabuba, che erano i figli più grandi, hanno fatto allora qualunque tipo di lavoro per portare a casa qualche soldo. Ma non eravamo in una grande città, dove, magari, si può trovare qualcosa da fare: abitavamo a Kamakou, un villaggio vicino a Kaotaok, dove non c’era quasi niente, solo misere capanne e campi, sempre alla ricerca di un po’ d’acqua. Quando abbiamo ricevuto una piccola eredità da un lontano zio, abbiamo pensato che il destino volesse aiutarci a cambiare la nostra vita. Se avessimo usato quel denaro in Senegal, avremmo potuto, forse, avere una casa migliore e un altro pezzo di terra, ma poi, infine, la nostra vita non sarebbe cambiata di molto. Lumbu era stato molte volte in città, sapeva tante cose, conosceva il mondo: ha scelto di usare quei soldi per venire qui, a tentare di guadagnare più di quanto avrebbe mai potuto fare al nostro paese.  E, infatti, da allora, siamo stati un po’ meglio. I più piccoli, compreso me, hanno potuto andare a scuola in un paese vicino, abbiamo migliorato la nostra casa costruendo solide mura, portandoci l’acqua, sistemando il tetto, abbiamo comprato attrezzi per coltivare, facendo, però, anche un prestito da un nostro parente. Ogni anno Lumbu pagava una parte del debito e, quando lui non è più tornato, mancava ormai poco per saldarlo del tutto. Così ora tocca a me, non posso certo abbandonarli adesso.

-Ma no, certamente. Ti aiuterò io a saldare il debito della tua famiglia. Qui, per noi, non è una grande cifra. Vedrai, sistemeremo tutto, l’importante è che tu mi voglia bene.-

Zaira non sa che dire e sorride, mostrando i suoi denti perfetti e bianchissimi. La presenza di Alberto le è diventata indispensabile e non può neppure immaginare di lasciarlo e non vederlo più!

Il giorno stesso Alberto, a casa, parla con i suoi genitori.

-Mamma, papà, ho deciso di sposarmi.

-Bene figlio mio, sono contenta che anche tu ti faccia una bella famiglia e ci dia dei nipotini.- risponde subito la mamma.

-E chi sarebbe la fortunata?- chiede il padre.

-Zaira.

-Chi, Zaira, quella negra che ogni tanto ci trascini in casa?

-Sì, proprio lei.

-Ma tu sei matto. Io credevo che tu la portassi in casa perché ti faceva pena, poveraccia.- il padre alza la voce.

-Certo, un’elemosina a una ragazza abbandonata… Ma il matrimonio è ben altro!- aggiunge la madre.

-Non fare lo sciocco, non scherzare, trovati una brava ragazza, e non venire a dire delle assurdità.

-No, non sto scherzando. Io e Zaira ci siamo innamorati e vogliamo sposarci.-

Il padre è diventato rosso e urla:

– Sposare una negraccia? Non se ne parla neppure. Donne e buoi dei paesi tuoi, dice il proverbio. E poi, vuoi avere dei figli negri?

-Ma cosa dite? Cosa c’è di male ad avere dei figli di colore? Non siamo forse tutti uguali, non l’avete sempre detto anche voi?

-Uguali… Uguali! Non si sposano mica i negri! E poi hanno delle malattie. E le donne sono donne di strada, non vedi quante puttane ci sono dappertutto sulle strade? Sono tutte negre!-

Alberto lascia la casa e si rifugia alla baracchetta.

-Ripensaci.- gli dice il padre, un po’ più tranquillo, il pomeriggio. Ma quando Zaira arriva, padre e madre non la salutano più.

-Che succede?- gli chiede lei.

-Ma, non so, hanno dei problemi, non sono di buon umore.- le risponde Alberto.

Per qualche giorno le cose vanno avanti così, poi il padre lo interpella in malo modo:

-Continui a parlare con quella donnaccia.

-Certo, perché non dovrei parlarle?

-Devi lasciarla perdere, ti ha fatto qualche malia, ti ha sconvolto il cervello. Ho sentito dire che là, da loro, ci sono dei maghi che possono fare qualunque cattiveria.- interviene la mamma.

-Ti manderemo in Sicilia dai parenti, così potrai trovare una brava ragazza e ti libererai di questo maleficio.- conclude il padre.

-Non andrò da nessuna parte, se non con Zaira. E nessuno mi ha fatto dei malefici!-

Alberto se ne va sulla spiaggia. Allora che senso hanno avuto tutte le belle parole che suo padre diceva sempre: siamo tutti uguali, tutti abbiamo la bocca per mangiare? E anche lui era venuto da un altro paese in cerca di una vita migliore, doveva capire chi lo faceva ora! Ma lui non capiva nulla, gli rispondeva che la moglie se l’era portata dal paese! Che c’entrava? Zaira era una brava ragazza, così come le ragazze siciliane, che differenza c’era? Eh già, erano tutti antirazzisti fintanto che non dovevano dimostrarlo nella pratica, accogliendo qualcuno di fuori nella propria famiglia! E il colore? Non dicevano tutti, compreso i suoi genitori, quando ne vedevano per la strada, che belli quei bambini color caffelatte? Che cattiveria e ipocrisia! Ma egli non si sarebbe lasciato dominare da loro, avrebbe continuato per la sua strada.

Solo che, quella stessa sera, suo padre era tornato all’attacco.

-Allora, scegli: o parti subito per la Sicilia o non ti voglio più con me.

-No, non parto.-

Suo padre non lo voleva più a lavorare con lui? Si sarebbe cercato un altro lavoro, la voglia non gli mancava. Ma non voleva angustiare Zaira con i suoi problemi. Lei che colpe aveva? Perché farla soffrire? Già c’era stato quel cane di suo cugino Filippo (alla fine gliel’aveva fatto raccontare cosa fosse successo quella sera!) e chissà quanti altri le avevano mancato di rispetto! Lui non l’avrebbe fatto.

Prima di tutto, Alberto si era trasferito in casa di un amico e poi aveva trovato lavoro nel bar di un conoscente il cui garzone si era infortunato proprio nel bel mezzo della stagione estiva.

Zaira gli chiedeva il motivo di tutti quei cambiamenti ma Alberto era sempre un po’ evasivo. Infine, però, aveva dovuto dirle che tutto era successo perché i suoi non erano favorevoli a un suo eventuale matrimonio.

-Sai, -le aveva spiegato, – mi vedono ancora come un ragazzetto. Non prendono sul serio le mie idee, ma vedrai che cambieranno. Intanto ci sposeremo, appena saranno pronti i tuoi documenti. Poi, magari, avremo un figlio e si inteneriranno.-

I giorni passavano. Zaira continuava il suo lavoro alla spiaggia ma non si fermava più allo spiazzo. Tanto, Alberto non c’era.

La sera si vedevano sempre, ma a lei non poteva sfuggire che Alberto non era più quello di prima. Dentro di lui c’era come una ferita aperta, anche se egli non ne parlava mai.

 

Quella sera, avevano passeggiato un po’ sulla spiaggia buia, tra le sdraio e gli ombrelloni chiusi. Si erano baciati, come facevano sempre. Infine, era stata proprio Zaira a sdraiarsi al riparo di una barca e ad attirarlo vicino a sé.

-Lo so quanto stai soffrendo.- gli aveva detto mentre gli accarezzava il capo, come si fa con un bambino –anche se non ne parli, vedo che ti tormenti. Bianchi e neri non sono ancora uguali, vedi.

-No, supererò tutti gli ostacoli, andremo via di qui, dove nessuno ci conosce, ricomincerò da capo. Non ho paura di lavorare e la forza non mi manca. Mio padre faccia come vuole, io sono l’unico figlio, rimarrà solo, tanto peggio per lui!

-Mi dispiace, non volevo creare tanto danno.

-Non hai fatto niente, tu. Sono gli altri che non vivono come dicono di voler fare. Sono schiavi dei loro pregiudizi. Guarda, l’importante è sposarci, poi ce ne andremo di qui. Ti porterò in Sicilia, là il sole è quasi come quello del tuo paese, i fichi d’india si allargano con le loro enormi foglie carnose ai lati delle strade e ci sono fantastici giardini zeppi di piante grasse come, forse, ci sono al tuo paese. Magari troverò lavoro là e ci faremo una bella casetta con tanti bambini.

-Sì, al mio paese ci sono piante come quelle che dici tu… Ma il mio paese è molto povero, c’è polvere dappertutto. Non è certo bello come la tua Sicilia. Anch’io mi ricordo un po’ quello che ho visto quando sono sbarcata dall’Africa, anche se avevo solo fretta di giungere qui e di iniziare a lavorare.-

Poi Zaira gli aveva chiuso la bocca con un bacio e si era spogliata canticchiando un motivo africano.

-Che fai?-

-Vieni, amore mio.

-Ma tu…

-Sì, non l’ho mai fatto e questo è il momento giusto. L’amore è qualcosa di sacro e non c’è niente di più simile al Paradiso dell’unione dei corpi di chi si ama che è l’unione delle anime, per sempre.-

 

Cara Zaira,

come stai? È già passato tanto tempo da quando sei partita e tutti sentono la tua mancanza. La mamma piange e si dispera pensando a te, che sei una ragazza, sola in un paese straniero. Ti preghiamo, dunque, di tornare a casa subito. Inoltre non c’è bisogno che continui a lavorare perché la zia Humeira ti ha trovato un marito adatto. Questo marito è ricco e tu potrai sedere in casa ad allevare i figli che vorrete avere. Egli si impegna anche a finire di pagare la nostra casa purché tu torni subito e lo sposi. Devi essere contenta che i tuoi sogni si sono avverati. Lascia tutto e torna il più presto possibile. Noi stiamo già facendo i preparativi per il matrimonio.

Tuo fratello Shaban

 

Cara mamma,

insieme a questa lettera ti mando tutti i soldi che ho guadagnato. Non posso tornare e sposare l’uomo che mi avete destinato, anche se vi ringrazio per la scelta felice. Spero che possiate farlo sposare a mia sorella Asmat in modo da risolvere ogni problema riguardante la casa. Ma io qui ho trovato l’amore vero, l’unico. Non posso lasciarlo. Eppure io sono un problema per lui perché lui è bianco! Gli ho creato sofferenza e litigi con i suoi parenti. Per questo non posso fare altro che quello che farò. Vi bacio con tutto il mio cuore. Addio. Vostra per sempre 

Zaira

 

Zaira aveva camminato al tramonto su quel tratto di ciottoli che si stendeva, inframmezzato da lembi sabbiosi, lungo il golfo. La luce si andava attenuando ed ella era entrata nel mare fino alle ginocchia; le onde muovevano l’acqua che lanciava riflessi d’oro con l’ultimo sole che stava abbandonando quella terra, per tornare più forte e potente il giorno dopo. Nel suo villaggio, non c’era il mare ed ella non l’aveva mai visto finché non era andata a Dakar, per venire in Italia. Allora ne era rimasta molto stupita, quella grande distesa d’acqua, a perdita d’occhio… Ora rammentava anche il mare spaventoso che aveva attraversato con la barca… non era certo come quello! La notte, loro, i passeggeri, si stringevano gli uni agli altri per darsi calore e coraggio, mentre l’acqua buia e gelida sbatteva furiosa contro il barcone che ondeggiava, ondeggiava! In quei momenti, le erano venuti in mente tanti racconti di migranti senza nome persi in mare (nessuno in realtà sapeva quanti!) nel silenzio e nell’oblio totale. Come quella volta, aveva sentito dire, che 450 poveracci erano partiti con un mercantile, erano stati poi trasbordati in mare tra Malta e la Sicilia su una barca più piccola. Durante l’operazione, con il mare agitato, la barca era stata urtata ed era affondata rapidamente con il suo carico di carne umana. Tragedie come quelle ne erano successe molte. Nessuno, appunto, sapeva quanti poveri esseri umani, in realtà, fossero stati inghiottiti dall’acqua, negli anni!

Aveva i brividi dal freddo e dalla paura, mentre si stringeva, come tutti, agli altri per scaldarsi.

Lumbu… Laggiù in quelle profondità nere anch’egli giaceva insieme ai suoi compagni.

–Sarà l’ultimo viaggio, vedrai.- aveva detto alla mamma –Tornerò tra un anno e avrò i soldi per finire di pagare la casa. Ormai, i ragazzi hanno studiato tutti, Zaira troverà presto un lavoro, Shaban, il maggiore dei maschi dopo di me, insegna ai bambini della scuola. Non ci manca più nulla se non quest’ultimo sforzo. Quando arriverò, comprerò un piccolo taxi e porterò i turisti qua e là per il paese. Conosco tante lingue, ormai, e le utilizzerò per lavorare. Sposerò la donna che tu avrai scelto per me e tu avrai i nipotini da accudire. Stai tranquilla, mà. Presto saremo tutti insieme come quando c’era papà.-

Lumbu non era tornato né aveva mai scritto. Non era da lui un simile comportamento, ma nessuno sapeva niente. Solo due anni dopo, a Shaban era capitato in classe un bimbo che aveva perso il padre in mare due anni prima. Anch’egli era partito per andare a lavorare in Italia e non era più ritornato. Infatti, uno di quei barconi che traghettavano dall’Africa alla Sicilia era affondato con tutto il carico di gente che portava. Solo quattro o cinque persone si erano salvate e avevano informato la famiglia del bimbo, perché erano amici del padre. Shaban aveva rintracciato, allora, uno dei superstiti e aveva saputo (ma ormai l’aveva già capito da solo) che Lumbu non c’era più.

-Eravamo partiti in ottanta circa, – gli aveva raccontato l’uomo- su quella barca. Prima ci avevano raccolti in un edificio alla periferia di Tripoli. Dicevano che quella era la strada più facile per chi non aveva i documenti in regola, più semplice che andare in Spagna dal Marocco. C’era gente un po’ di tutti i paesi: tunisini, pakistani, somali; alcuni avrebbero chiesto asilo politico, altri avrebbero proseguito dall’Italia per altri paesi europei. Di là avevano preparato la nostra partenza: ci avevano trasferiti a Zuwarah, quasi al confine con la Tunisia, in una casa in costruzione. Non potevamo uscire ma ci davano pane e frutta da mangiare e c’era anche la televisione. Poi, ci avevano fatto comprare la barca e quindi chiesto 900 euro a persona per il viaggio. Ma non ci avevano dato qualcuno che guidasse la barca: ci hanno messi in mare, spiegato la rotta, hanno detto che era semplice, anche un bambino avrebbe saputo portarla a destinazione, e che ce l’avremmo fatta. Dopo un giorno di navigazione, però, il mare era diventato grosso, solo uno di noi aveva un po’ di esperienza e ha fatto, credimi, tutto il possibile. Ma era una barca che poteva portare una quindicina di persone e non ottanta o novanta, oscillava paurosamente, e faceva tanto freddo! Eppure, avevamo pagato, e per molti di noi era tutto ciò che possedevamo, la speranza di un futuro diverso per i nostri figli che non hanno niente… A un certo punto, è finita persino la nafta e siamo rimasti in mare diversi giorni senza cibo né acqua. La gente ha iniziato a morire. Prima i bambini, i più deboli, poi le donne, qualche uomo… Infine, abbiamo incontrato un peschereccio che ci ha gettato subito acqua e pane, quindi, un’altra nave ha preso a bordo quei pochi che erano ancora vivi. Lumbu, io me lo ricordo, durante quei giorni, faceva coraggio a tutti, pregava a voce alta per dare conforto, stropicciava le manine ai bambini per scaldarle. Una sera, proprio mentre egli si spostava qui e là nella barca, tra la gente, per aiutare, è arrivata un’onda più alta delle altre ed egli è caduto in mare! Non ce l’abbiamo fatta a recuperarlo né lui ha avuto la forza di lottare. Di qualcuno di noi ero riuscito a raccogliere delle foto per darle ai parenti. Ma non ho nulla di lui.-

Shaban, che non era mai uscito dal paese, ascoltava inorridito. E davanti agli occhi gli si mischiavano immagini di uomini, donne e foto! Anch’egli aveva visto qualcuna di quelle foto costruite nello studio del fotografo e ambientate, per mezzo di un grande pannello che veniva esposto dietro alle persone, davanti ai grattacieli di New York, o in qualche club Med. Nessuno di loro era mai stato in quei posti, ma molti volevano sognare per un momento: non le loro catapecchie e le strade fangose o aride e polverose, non la solita miseria dei loro villaggi, ma un attimo di vita come, in fondo, avevano in tanti fortunati nel mondo! E c’erano anche morti, infine, trascinando quelle felici immagini nel ventre nero del mare. Lumbu, però, non aveva fatto foto, non voleva sprecare neppure quei pochi soldi: tutto, fino all’ultimo franco, serviva per la famiglia.

-Mi tornano in mente,- aveva continuato l’uomo- ogni notte, quei volti terrorizzati e insieme rassegnati, quei corpi disidratati.  Un padre ha dovuto gettare in mare i tre figli morti. Una bimba, invece, si è salvata ma ha perso i genitori, il fratello e la sorella. C’era una madre che teneva attaccato al seno un bimbo di uno o due anni. Di notte, lei ha chiuso gli occhi, stremata, e il bimbo è scivolato in acqua, carne per i pesci. Anch’ella voleva poi gettarsi in mare e glielo abbiamo impedito. Ma cosa avrà fatto dopo? Un somalo ha perduto due figlie e un figlio… Con me c’era anche mio padre: non ha sopportato la sete, ma soprattutto l’umiliazione di un simile viaggio. Eppure, vedi, io sono tornato ancora là, in Europa, e ancora ci tornerò, nonostante tutto. Perché altrimenti che vita posso dare a mio figlio?-

Dopo che Mabuba si era sposata, Zaira era diventata la maggiore dei figli, dopo Lumbu. Nonostante ciò che aveva sentito e altri atroci racconti che si facevano in paese, senza dire niente a nessuno, aveva preparato tutto per la partenza e aveva preso la stessa strada di Lumbu. Se non avessero ultimato i pagamenti della casa, l’avrebbero perduta. Shaban, con il suo modesto stipendio da insegnante, non ce la poteva fare. Inoltre, ormai, anch’egli era in età da matrimonio e ci sarebbero state tante spese. Quell’ultimo anno di sacrificio l’avrebbe fatto lei al posto di Lumbu. Così, dopo aver un po’ studiato un libro di italiano e dopo un lungo viaggio attraverso la costa occidentale dell’Africa, il deserto e il mare, era arrivata a Bergeggi perché conosceva ogni cosa dai racconti di suo fratello che aveva sempre ascoltato attentamente. Sapeva anche di Alberto e a lui si era rivolta subito, fiduciosa, perché l’aiutasse.  Quindi, erano diventati amici. Lui le aveva trovato la stanzetta a poco prezzo, una specie di cantina, dove dormire. Lumbu, infatti, aveva abitato con altri uomini, ma lei non poteva, perché era una ragazza.

Le onde del mare le lambivano la schiena. Come avrebbe potuto vivere ora senza Alberto? Mai l’avrebbe fatto! Ma stare con lui avrebbe significato farlo soffrire. A lui aveva dato tutto di sé e adesso era tempo di andare, di lasciarlo libero. L’amore è soprattutto cercare la felicità dell’altro.  Come sarebbe stato felice con una negra che, forse, i suoi amici, come suo cugino, chiamavano puttana perché veniva dal Senegal? E suo padre e sua madre che non lo volevano più in casa e a lavorare con loro finché non l’avesse lasciata? Che vita avrebbero fatto eventuali figli che avrebbero potuto essere scuri? No, non se la sentiva di rendergli l’esistenza così dura. Quanto tempo egli avrebbe potuto resistere? Un giorno le avrebbe rinfacciato tutti quei sacrifici, la baracca del padre con il lavoro sicuro, gli amici e i parenti bianchi…

La luce del faro si allungava intermittente sul blu intenso del mare per offrire un occhio di chiaro a chi non trovava la strada del ritorno. L’acqua ormai le arrivava al collo, la stava per possedere, unica dopo di lui, per sempre.
Ancora un passo e l’azzurro aveva invaso i suoi occhi. No, non era come il mare della Sicilia dove si può camminare a lungo: qui, dopo pochi metri, la terra si abbassava e l’acqua diveniva alta. Ma si sentiva bene là sotto, i movimenti erano come rallentati e tutto era dolce e perfetto, così come lo era stato la sua prima volta.

La mattina dopo, il mare aveva restituito il suo corpo alla spiaggia.

 

Renata Rusca Zargar è autrice di IL TEMPO IN CUI I GALLI INIZIANO A CANTARE

Negli ultimi anni, a Pompei, sono state fatte nuove e meravigliose scoperte.

Il romanzo, perfettamente in accordo con la ricchezza e bellezza del sito archeologico, racconta la storia d’amore appassionante, proibita e pericolosissima, tra una ricca e affascinante fanciulla di Pompei e uno schiavo ligure colto, capace e attraente. Infine, ci sarà l’eruzione del Vesuvio.

Dalla sinossi: “Avevano portato un po’ di uva per la merenda e, scherzando, Minor aveva attaccato qualche acino all’amo e l’aveva buttato in acqua. In un attimo, la lenza aveva preso a tendersi e sembrava che ci fosse attaccato qualcosa di grosso! Tra le risate entusiaste di Minor, Aeris l’aveva aiutata a tirare a terra uno storione, a occhio, di dieci libbre abbondanti.” “Quasi davanti alla porta d’ingresso, un’ombra scura le si era parata dinanzi. L’aveva presa per le braccia rudemente, spinta contro il muro e abbracciata appassionatamente. -Perdonami, non ho saputo resistere. Non riesco a stare senza di te. Odio vederti soffrire e mi odio per esserne la causa. – […] -Perché non sei più venuto ai nostri appuntamenti? -Avevo deciso di non vederti più, almeno in privato. So bene che non ci può essere nulla tra di noi, è inutile fingere questa amicizia.

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Chi è Renata Rusca Zargar

 

 

Savonese, impegnata in ambito sociale, studiosa di cultura islamica e indiana, insegnante in quiescenza, ha pubblicato diversi saggi e romanzi anche con il marito Zahoor Ahmad Zargar.

L’ultimo nato è, però, una raccolta di lavori delle signore anziane che hanno seguito i suoi corsi gratuiti di Lettura e Scrittura Creativa: “Leggere e scrivere …per divertimento, raccolta di racconti, poesie, disegni, calligrammi dei Corsi di Lettura e Scrittura Creativa”, pubblicato da Amazon.

Si occupa della Biblioteca di volontariato Libromondo e, prima del Covid, portava i libri in prestito nelle Scuole. Cura un blog di cultura, ecologia e società Senzafine: Arte, Cultura e Società di Renata Rusca Zargar  link

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