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“Il massacro di San Valentino” il più cruento match di pugilato della storia

Quel 14 febbraio del 1951, nel giorno degli innamorati, non ci fu amore tra pesi medi, sul ring approntato all’interno del Chicago Stadium. 

Ray Sugar Robinson di Detroit e Jake La Motta di New York si incontravano per la sesta volta; il bilancio sorrideva al grande boxeur di colore, impostosi in quattro occasioni su cinque, ma era l’italoamericano ad avere in mano il titolo, che difendeva per la terza volta.

Sul piatto c’era lo straordinario record di Robinson, in quel momento 122 vittorie contro una sola sconfitta; quell’unica sconfitta patita proprio dal Toro del Bronx, otto anni prima, peraltro vendicata in un re-match di sole tre settimane più tardi.

Dopo tanti incontri tra loro, il più grande pugile di tutti i tempi sapeva quali fossero i difetti del fighter newyorchese: conosceva il lento ingresso nel match da parte di La Motta e sapeva di dover imporre un ritmo forsennato nei primi tre round, in maniera tale da accumulare vantaggio in punti e costringere “Toro Scatenato” alla rincorsa. 

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La volontà di Jake La Motta, però, trascendeva i calcoli accurati, i pugni devastanti, le ferite più profonde. Ray Robinson, dall’alto della sua immensa classe, lo investì con la furia del diretto sinistro e del montante destro, cambiando spesso le basi, in maniera da aggirare la guardia statica di Jake.   

Le gambe di La Motta non si piegarono nemmeno per un instante. 

Nel quarto round, dopo un’infinita serie di Sugar Ray, Jake rispose dalle corde con un secco gancio sinistro.

Le gambe di Ray tremarono ed il pubblico si zittì per la sorpresa: La Motta pareva tornato dal mondo dei morti, a cui sembrava esser andato in visita nei primi round. 

Nella quinta ripresa, La Motta tentò di ripetersi, ma Sugar aveva preso le misure e lasciò sfilare il gancio di Jake, per riprendere nuovamente a tamburellare la testa ed il costato dell’avversario.

Nei piani di La Motta vi era l’attesa che il match scendesse ad un ritmo blando, a lui più congeniale; fino al settimo era sicuro di aver vinto, o quantomeno pareggiato, un paio di round, quindi contava di far suo l’incontro dominando il finale, secondo sua caratteristica.

Sugar Ray Robinson, però, non abbassò il ritmo: lo incrementò! 

I round successivi si trasformarono in un’infinita punizione: La Motta incassava, Sugar Ray picchiava con violenza inaudita non avendo più bisogno di difendersi, perché i guantoni di Jake erano alti a difesa della testa ed i gomiti attaccati al corpo a protezione della figura. Il campione non portava più colpi e Robinson lo stava tempestando di jab taglienti e poderosi uppercut. 

…..ma Jake La Motta, all’anagrafe Giacobbe, non cedeva; le sue gambe non si piegavano. Quando Robinson prendeva fiato, lui alzava la testa sanguinante, lo guardava attraverso gli occhi gonfi e lo sfidava col suo infinito orgoglio. 

Alla fine del decimo round, molti dei quindicimila presenti invocavano l’intervento dell’arbitro Frank Sykora, affinché ponesse termine ad una tale punizione; non era, però, una soluzione così immediata, dato che La Motta era il campione in carica ed il suo angolo non mostrava segno di volerla finire. 

All’undicesimo round, un colpo nella nebbia di La Motta scosse Robinson; il Toro del Bronx diede segno di avvedersene e si lanciò sull’avversario alla sua maniera, con un nugolo di colpi che, però, Robinson incassò con la grande classe in lui innata. Poi ricominciò l’opera di demolizione.

Alla campana del dodicesimo round, La Motta si avviò all’angolo ormai incapace di vedere e di sentire. Dirà, nell’intervista successiva al match, che il forte dolore l’aveva sentito alla quinta ed alla sesta, ma poi gli sembrava di essere uscito dalla tempesta. Ma non era così. Al contrario, i colpi erano aumentati e si erano fatti più precisi.

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Due minuti e quattro secondi dall’inizio della tredicesima ripresa, il ring coperto del sangue di un ormai irriconoscibile La Motta convinse l’arbitro Sykora dell’averne abbastanza di quella mattanza, che alzò il braccio al nuovo campione mondiale dei pesi medi.

La Motta fu condotto all’angolo e poi immediatamente negli spogliatoi, dove sarebbe rimasto attaccato all’ossigeno per oltre un’ora e mezza; prima che superasse le corde, però, uno stanchissimo Robinson riuscì a regalargli un sincero abbraccio.

Sapeva che quella era la fine della loro epica serie di battaglie e che lui aveva vinto la guerra, ciò nondimeno non volle privare il suo grande avversario dell’onore che si era meritato. Dirà  poche ore più tardi: “Credevo non avrebbe finito la ripresa già alla sesta, ma più lo picchiavo, più sembrava determinato a rimanere in piedi! Non capisco di cosa sia fatto: gli ho rifilato i colpi più duri della mia carriera ed era ancora lì”

Il sesto match tra Jake la Motta e Sugar Ray Robinson, subito ribattezzato “il massacro di San Valentino” lasciò anche molti strascichi polemici, a causa dell’indubbia violenza di alcuni passaggi, soprattutto nelle ultime riprese.  The Indianapolis News descrisse l’incontro come “un crimine nel nome dello sport, un malato tributo alla brutalità”.

Ognuno deve essere libero di dire la propria opinione, che va rispettata fino in fondo. 

Il pugilato non è uno sport che favorisca gli incontri impari; nella sua stessa filosofia è un combattimento con precise regole tra uomini disposti allo scontro, dello stesso peso e di similare abilità. 

Il “massacro di San Valentino” fu un match all’apparenza poco equilibrato ma io, personalmente, lo vedo come uno confronto tra la magistrale abilità di Robinson e l’insondabile determinazione di La Motta.

A me mancavano vent’anni per nascere, alla maggioranza dei lettori di questo mio articolo parecchi di più: eppure, è un fatto che noi si sia ancora qui a parlarne e discuterne. Questa è la magia del pugilato, la più controversa disciplina sportiva, ma di gran lunga la più affascinante del pianeta. 

Sugar Ray Robinson e Jake La Motta avevano entrambi trent’anni.

Considerato, dai più, il miglior pugile pound for pound di tutti i tempi, Robinson è mancato ormai ventisette anni fa.

La Motta, invece, si è da poco sposato per la settima volta, vive nel suo vecchio quartiere, ha in serbo parole pesanti per chiunque lo contraddica e, alla veneranda età di 94 anni e mezzo, è sopravvissuto a tutti i suoi avversari, a molte ex mogli e, purtroppo, anche ad un paio dei suoi figli.

Sulla scorta di quanto successo a Chicago, in quel lontano giorno di San Valentino, ed in molte altri frangenti della sua tumultuosa esistenza, mi pare chiaro che per mettere definitivamente al tappeto lo spirito indomabile di Giacobbe La Motta, dovrà scomodarsi il Signore in persona. 

Marco Nicolini

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