È un gioco di parole: Valeria di Gaetano conosce il giusto nel senso di molto poco, ma conosce la sua parte buona, e cioè che è il padre di uno dei suoi possibili donatori, e questo le basta per proiettare su di lui una luce buona, quasi totalizzante, malgrado l suo avvocato del Diavolo interiore la incalzi con robuste controdeduzioni.
Valeria e Gaetano sono legati da un fattore “una seconda possibilità” è stata data loro dalla vita. Come hanno tradotto in fatti questa seconda chance?
Valeria è come annichilita dal senso di responsabilità del dover vivere anche per conto di qualcun altro, il suo donatore, Gaetano deve fare i conti col senso di colpa che ti attanaglia dopo che hai fatto un percorso per diventare buono. L’incontro fa bene entrambi. È un aiuto a lasciarsi vivere tirando fuori il meglio che si può da ogni situazione, a non farsi smontare tutti i progetti dal desiderio di perfezione.
Il tuo romanzo parla di un trapianto di fegato grazie al quale Valeria si è salvata e del suo desiderio di conoscere l’identità della persona che glie lo ha donato. Ti sei ispirato a qualche fatto di cronaca?
Dopo un lungo peregrinare cercando in giro brandelli di storie, l’ispirazione ho scoperto di averla da anni sotto al naso: un”amica ed ex collega ha vissuto una vicenda simile.
Gaetano l’ergastolano con cui Valeria instaura un rapporto di amicizia è ispirato a persona realmente vissuta. Chi è?
Il romanzo si apre con i crediti, scopre subito le carte, rivendica  il suo essere uno sforzo collettivo di cui l’autore si prende l’intera responsabilità e divide gli eventuali meriti. Gaetano Inzerilli è ampiamente ispirato a Carmelo Musumeci, ergastolano ostativo che ha fatto un percorso straordinario in carcere, dimostrando che la rieducazione del condannato non è una pia illusione da buonisti dei padri costituenti che hanno voluto l’articolo 27 della Costituzione italiana.
Per chi hai scritto questo romanzo? Chi immagini sia il tuo lettore tipo?
Un lettore che cerca storie controcorrente, e una voce con un po’ di com-passione che le racconta. Una voce che ha poco del demiurgo e che sviluppa soprattutto capacità di ascolto di quello che i personaggi vogliono o non vogliono fare.
Ti è mai capitato di vivere un accadimento che hai interpretato come una seconda possibilità?
Io ho fatto i primi corsi di scrittura a quarant’anni, ho scritto i primi romanzi quando ero più vicino ai quarantacinque. Non che siano cose straordinarie, credo però di essere la dimostrazione che non tutto quello che è più significativo nella vita accade necessariamehte nei primi decenni di vita.
Com’è stato accolto questo tuo nuovo lavoro?
Direi bene, anche dagli addetti ai lavori.  Ho ricevuto un commento davvero molto toccante dalla moglie del medico che seguiva la “vera” Valeria. Questi sono gli apprezzamenti che ti fanno venire voglia di continuare a scrivere.
Chiara Macina