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“Cara Humeira” di Renata Rusca Zargar

Cara Humeira

di Renata Rusca Zargar

Srinagar, 16 dicembre 2021

Cara Humeira,

in questo momento ho una tale confusione di sentimenti nel petto e di parole che urgono di essere dette, che ho bisogno di raccontarti la mia storia. Tu, che sei stata mia amica da piccola, mia compagna di scuola fino all’ottava classe, e che ora vivi in un paese occidentale, mi puoi capire e, forse, consigliare. Devo pur esprimere a qualcuno la mia anima! Ciò mi aiuterà a essere ancora serena. Ti ricordi quando giocavamo nella stradina dove si affacciavano le case dei miei e tuoi genitori, vicino al fiume? Ricordi quando l’aquila portò via a mio fratello il suo berretto? Ricordi quando studiavamo insieme al lume di candela per preparare gli esami?

Lo so, è passato tanto tempo! Il destino ci ha allontanate da quando i tuoi genitori si sono trasferiti in Italia per lavoro. Le tue vicende sono diventate estranee per me e, anche quando sei tornata, in vacanza, durante l’estate, il tempo da condividere è sempre stato troppo poco. Poi ti sei sposata e non ci siamo più viste. Ma tu sai, come me, che il nostro legame rimarrà sempre intatto, ovunque noi siamo e qualsiasi cosa succeda.

Per questo, oggi, sento il bisogno di confidarmi con te, di spiegarti, meglio di quanto abbia fatto durante le tue brevi visite, la mia vita.

Un giorno, dunque, mia zia (te la ricordi Shugufta con la sua treccia castana lunga quasi fino ai piedi?) aveva organizzato una gita in barcone con tutta la famiglia, ed eravamo eccitati dall’occasione di stare insieme per un’intera giornata un po’ diversa dal solito. Il dunga avanzava lentamente sulle acque del lago e noi, al suo interno, una trentina di persone, zie, zii e tanti cugini, bevevamo il tè, accompagnandolo con i pasticcini: una vera festa, persino i bambini non erano andati a scuola! Le zie e le cugine cantavano in coro e suonavano il tumakhnaar… un divertimento per noi donne del tutto simile a quello delle lunghe giornate di cerimonie in occasione dei matrimoni (e forse anche tu rimpiangi un po’ le ore che, da bambine, trascorrevamo nella soffitta di mia zia a imparare a suonare, oltraggiando le orecchie dei vicini!). Ben presto al dunga si erano affiancate, come succede sempre andando sul lago, delle shikara cariche di verdure: cetrioli, cocomeri… Gli uomini delle imbarcazioni, accucciati a prua, le facevano scivolare velocemente, passando il remo da un lato all’altro della snella imbarcazione.

–Tre rupie al chilo. -chiedeva un verduriere per i suoi prodotti.

–Al mercato costano solo due!- contrattava lo zio Nazir.

Intorno, le distese di fiori di loto ondeggiavano leggerissime al ritmo delle correnti e, più in alto, le montagne dell’Himalaya mostravano le loro cime irsute di alberi verdi. Qui e là, i tetti delle case dei villaggi luccicavano al sole. Un’altra shikara si era avvicinata al dunga dal lato sinistro dove le tende erano rialzate, permettendo di vedere e di essere visti, mentre noi sedevamo all’interno intenti a cantare. Il venditore era in piedi sulla shikara a proporre le sue verdure. I suoi occhi neri, ancora me li ricordo come fosse oggi, parevano bruciare l’aria, il sorriso gli illuminava il viso bronzeo. -È bello!- avevo pensato. Per un attimo, egli mi aveva guardata e io avevo subito abbassato gli occhi. Quel giorno, indossavo casacca e pantaloni rosa a fiori bianchi (tu non rammenti più il colore del vestito che portavi quando hai incontrato la luce della tua vita?). Il velo, rosa anch’esso, copriva i miei capelli pettinati in una lunga treccia nera. Sapevo di stare bene: -Assel assel!- diceva qualcuno dei parenti. Ero bella, e felice di esserlo. Forse la mia pelle non era candida come avrei desiderato ma, tutto sommato, quel colore dorato mi stava bene e avevo tutto l’entusiasmo della gioventù. Certo, sai anche tu che noi ammiriamo la carnagione candida degli inglesi, nostri ex colonizzatori! Dentro di noi è rimasto il gusto inculcatoci da loro che solo bianco sia bello e non amiamo sposare le persone un po’ più colorate. Per fortuna, da noi non è come nel sud dell’India, dove la gente è scura come gli africani: noi del nord siamo molto più chiari e orgogliosi di esserlo!(e da te, lì in Europa, sono tutti di pelle chiara, biondi e con gli occhi azzurri?)

La gita era continuata. Avevamo mangiato molti dei cibi cucinati prima a casa: kebab, roganjosh… Poi, eravamo sbarcati in una piccola isola al centro del lago, pochi metri quadrati, dove si poteva sedere al fresco sotto gli ombrelloni, bevendo una Limca.

E lui, il venditore di verdura, era venuto anche là. I nostri occhi si erano incrociati ancora. Quindi, egli si era messo a chiacchierare con lo zio Siddiq, per indagare quale fosse il quartiere dove noi vivevamo. Lo zio Baijan, ogni tanto, canticchiava delle canzoncine di film che narravano di tragiche storie d’amore, ma il mio cuore vedeva allora tutta la vita come una felice parentesi rosa.

Ghulam Mohiuddin, così si chiamava l’erbivendolo, si era trovato poi diverse volte sulla strada che percorrevo per andare a scuola. Non ci eravamo mai detti nulla, ma i nostri occhi parlavano per noi! Insomma, appena io ebbi finito le scuole superiori, ci sposammo. Ero tanto felice. Sposavo l’uomo che amavo. Diverse mie amiche avevano accettato, come è nostra consuetudine, l’uomo scelto dai loro genitori senza neppure consultarle. Alcune di loro avevano visto il futuro marito, per la prima volta, il giorno del matrimonio. Qualcuna si era adattata ed era contenta, qualche altra non si trovava bene, ma che poteva fare? Io ero assai fortunata. Mio padre aveva accettato la richiesta di mio suocero, nonostante le loro modeste condizioni, per farmi contenta. Certo, la nostra casa nei primi tempi era assai povera, ma non dubitavo che Ghulam, a poco a poco, avrebbe migliorato la nostra condizione. E io l’avrei aiutato: nel tempo libero dalle faccende domestiche avrei filato i bioccoli di lana pashmina per farne il filo pregiato venduto in tutto il mondo, e avrei guadagnato qualcosa anch’io.

Fu proprio in quei giorni che egli mi chiese di indossare il burka. –Lo so, – mi disse- nella tua famiglia non usate portarlo. Ma oggi nel nostro paese ci sono tanti pericoli, molti uomini possono desiderare di far del male a una donna. Così sarai protetta. Nessuno saprà chi sei, né oserà toccarti.-

Mio padre diceva sempre che nel Corano non è affatto prescritto il burka, ma che viene solo raccomandato alla donna di essere modesta, per non provocare gli uomini. -Queste sono pessime tradizioni da dimenticare.- affermava alludendo alle varie coperture del viso femminile.

Ma mio marito era così bello, l’amavo così tanto! Che mi importava di come sarei andata vestita per la strada? E poi, un po’ aveva ragione. Da un po’ di tempo, il Kashmir stava diventando un paese pericoloso: dappertutto c’erano terroristi che combattevano contro il governo perché volevano l’annessione al Pakistan, per stare con chi ha la nostra stessa religione, dicevano. Per farci regredire nel tempo, per impedirci di vivere nella libertà e nella democrazia, penso invece io, come la maggior parte dei Kashmiri. Essi, infatti, usano la religione per i loro scopi. Affermano che, nella società del progresso, l’esistenza stessa delle religioni è messa in pericolo. E la gente, magari ingenua o analfabeta, crede che Dio chieda di lottare anche con le armi per difendere la propria religione. Tu non sai, perché non eri più qui e avrai solo sentito qualche sporadica notizia alla televisione o sui giornali, ma qui era iniziato allora un periodo di terrore che non si è ancora concluso. Tante persone innocenti, ree solo di passare magari per la strada nel momento sbagliato, sono state uccise negli attentati. Tanti medici, insegnanti, professionisti, sono stati eliminati dai “combattenti” o rapinati, taglieggiati, molestati! Tutti avevano paura e molte donne erano tornate ad indossare il burka, per sentirsi più tranquille. Così, per la richiesta di mio marito e anche per i tempi difficili, anch’io imparai a usarlo. Qualche volta, accompagnavo Ghulam nella shikara sul lago. Mi accucciavo dietro di lui e allora gli alberi, le foglie, l’acqua stessa, mi apparivano al di là di una grata nera. L’orizzonte era assai ristretto, ma c’era anche la piacevole sensazione di guardare senza essere vista. Gli altri non potevano sapere la mia identità, cosa io stessi facendo, dove stessi andando né cosa pensassi. Mi veniva in mente l’antica facciata del Palazzo dei Venti di Jaipur, la città rosa, tutti quei piani di logge e finestre ostruite da schermi traforati di pietra: là le donne del zenana assistevano nascoste agli sguardi dei passanti alle manifestazioni pubbliche cui era loro vietato mescolarsi…

Qualche volta, mi capita di leggere dei quotidiani e delle riviste: mio marito non mi ha mai impedito di informarmi e di conoscere. Perciò so quello che si pensa da voi. E non mi piace. Nella nostra mentalità non è come si crede in occidente, e non so se tu lo ricordi ancora. L’importante per noi non è l’abbigliamento che, comunque, non ci crea sofferenza, ma le nostre condizioni di vita. Noi non siamo come i talebani, qui le ragazze vanno a scuola e sono curate, proprio come i maschi (e spero che tu le dica queste cose nel tuo nuovo paese!).

Mia cara Humeira, gli anni sono passati in fretta e immagino che ciò sia successo anche a te. Io e Ghulam ci siamo costruiti una bella casetta, proprio vicino al lago. Davanti a noi, tra gli alberi, hanno zampettato le galline e anche i nostri figli: una bambina prima e due maschietti poi. Tutti ormai vanno a scuola con profitto. La bambina, infatti, ha dodici anni ed è in settima classe. Sta diventando una signorina. Due sere fa, Ghulam è tornato a casa con un burka nuovo. -Che bello!- ho esclamato accarezzando la seta nera lucida del soprabito e del copricapo come usa da noi (mi ricordo che tua nonna ce l’aveva). Ho ammirato il bel disegno ricamato che contornava la grata davanti gli occhi: ormai sono abituata a indossarlo, così come faceva mia suocera, ed è per me semplicemente un indumento che può anche essere molto elegante. Mio padre, invece, scuoteva la testa ogni volta che mi vedeva! Ma ormai egli non c’è più. Si è addormentato una notte, quattro anni fa, e non si è più svegliato. Pensare che tutti i figli erano sistemati, non avrebbe avuto più preoccupazioni, avrebbe potuto essere sereno con i tanti nipotini… Ma non è andata così!

L’altra sera, comunque, Ghulam mi ha detto, però, che il burka non era per me, ma per nostra figlia. Ella sta crescendo, sta diventando una donna, ed è giusto che si copra davanti agli estranei.

Maraba l’ha indossato. Quando l’ho vista, coperta da quella cosa nera, mi è sembrata una tomba, addirittura! No, lei non l’avrebbe portato, ho pensato immediatamente. Non avrebbe sposato qualcuno deciso da me e da suo padre, non sarebbe mai stata un oggetto nelle nostre mani.

Per la prima volta, mi sono opposta a Ghulam:

-Senti, -gli ho detto – ti ho obbedito perché sapevo che ci tenevi e la mia intera esistenza sarebbe stata solo dedicata a te. Ma non sarà così per nostra figlia. Ella studierà, seguirà le sue inclinazioni, conoscerà da sola, come è successo anche a noi, a suo tempo, il compagno della vita. Non la caricheremo di vecchie tradizioni inutili, non la sacrificheremo ai nostri voleri. Ella sarà libera. Io non potrò più essere la tua moglie devota se tu farai del male alla nostra bambina. E questo è male per lei. Scelgo, prima della mia, la sua felicità e mi opporrò in tutti i modi a queste abitudini! Arriverò anche a divorziare da te, se non ci sarà altro modo, anche se tu sei la luce dei miei occhi, proprio come il primo giorno che ti ho incontrato.-

Ieri mattina sono tornata a casa di mia madre, come per una breve vacanza, e ho portato Maraba con me. So che Ghulam può allontanarla da me, che la legge qui dà all’uomo tutti i diritti sui figli, ma spero che questi anni non siano passati invano. Io e lui abbiamo discusso tante volte del nostro paese, delle tradizioni, della nostra religione, di ciò che è giusto o ingiusto… La sua mente e la mia insieme, hanno compiuto un cammino, si sono amalgamate, siamo diventati, col tempo, una sola persona composta di due esseri ugualmente veri…

La notte scorsa, nel mio letto di ragazza rimasto uguale a tredici anni fa, ho fatto un sogno. Eravamo, io, mia cugina Pinky e mia figlia, immersi in un enorme mare scuro. Intorno, tanti scogli appuntiti. Anche se mi sembrava impossibile in quelle condizioni, c’erano altri che nuotavano e persino qualche barca che riusciva a destreggiarsi là in mezzo. A un certo punto, vidi mia figlia proprio al centro di un’onda smisurata, alta, mi pareva, come un palazzo di tre piani. L’onda era rimasta immobile, come se il tempo si fosse fermato. Pensai che sarebbe affogata e iniziai a pregare a voce alta Dio di non rubarmela. Indi, la mostruosa onda scura ripartì e iniziò la sua terribile discesa. Dopo un attimo, non c’era più una goccia d’acqua all’intorno, ma lo stesso avevo paura di vedere cosa fosse successo a mia figlia. Ella era sotto una tenda. L’alzai e scoprii che non si era fatta male e che non era neppure spaventata.

Ora sono qui, Maraba gioca con le cugine ma a me manca tanto lui…

Oggi è giunta, inoltre, una terribile notizia da un villaggio sul confine con il Pakistan: una ragazza è stata uccisa perché non ha voluto indossare il burka. Si tratta di un villaggio di contadini gujrat: là le donne non hanno mai avuto questo indumento nella loro tradizione (anche perché faticano in campagna fianco a fianco con gli uomini ed esso avrebbe impedito loro di lavorare), eppure questi “combattenti”(!), passano la frontiera e uccidono, terrorizzando la popolazione!

Ciò ha confuso ancora di più le mie idee e aspetto, dunque, una tua risposta che mi dia coraggio e che mi sorregga nel momento più difficile della mia vita. Lo so, quando la tua lettera arriverà, sarà passato, forse, più di un mese e tutto sarà già concluso. 

Ma scriverti è stato un po’ come parlare a me stessa, chiarire i miei stessi pensieri.

Ciao

Shubie

 

P.S. Ho visto adesso dalla finestra che qui davanti, sul fiume, c’è una shikara. Sopra c’è un uomo che ha in mano un bellissimo burka. L’ha lasciato cadere nell’acqua e la corrente l’ha portato via. Corro ad aprirgli la porta della casa di mia madre, per la prima volta, da quando sono sposata, esco solo con il velo colorato sui capelli, come quando ci vedevamo di nascosto per la strada. La porta del mio cuore, invece, è stata sempre aperta per lui e senza nulla mai che la coprisse.

 

Renata Rusca Zargar è autrice del libro “Pietre e piante: portafortuna, talismani e benefici effetti curativi per ogni SEGNO ZODIACALE”

Lo sapevate che l’uso di lenzuola color rosso vivo fosse un sistema semplice e sicuro per mantenersi giovani?

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Il testo è, dunque, un manuale di curiosità pratiche sui benefici effetti delle pietre secondo i SEGNI ZODIACALI o secondo l’attrazione personale. Illustra i vantaggi che ci offrono alcune piante, spiega la terapia dei colori e, infine, insegna a fare per sé il profumo che ci renderà ancora più affascinanti e felici.

Chi è Renata Rusca Zargar

Savonese, impegnata in ambito sociale, studiosa di cultura islamica e indiana, insegnante in quiescenza, ha pubblicato diversi saggi e romanzi anche con il marito Zahoor Ahmad Zargar.

Tra gli ultimi nati c’è una raccolta di lavori delle signore anziane che hanno seguito i suoi corsi gratuiti di Lettura e Scrittura Creativa: “Leggere e scrivere …per divertimento, raccolta di racconti, poesie, disegni, calligrammi dei Corsi di Lettura e Scrittura Creativa”, pubblicato da Amazon.

Si occupa della Biblioteca di volontariato Libromondo e, prima del Covid, portava i libri in prestito nelle Scuole. Cura un blog di cultura, ecologia e società Senzafine: Arte, Cultura e Società di Renata Rusca Zargar  link

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