giovedì , Marzo 28 2024

Verso il fiume Tronto, con amore

Benvenuti nel mondo di una coppia formata da una scrittrice esordiente e un uomo con un passato carcerario, tra ex tossicodipendenti e famiglie invadenti. Abbiamo anche direttori di carcere gelosi, educatori giustizialisti, benauguranti scemi, genitori latitanti e un nugolo di spettatori misti che morbosamente ci osserva.

Sembra io voglia battere ogni record di vite opposte che si incrociano, ma è tutto vero. Insieme si può vincere tutto, lo stiamo facendo e ancora me ne stupisco; ma torniamo a quello che provai due anni fa, all’inizio della storia con il mio compagno, quando due sentimenti mi presero a braccetto: terrore e sgomento.

Lui ha un carattere fantastico, i suoi progetti da capo famiglia sono assennati e insieme formiamo una coppia che altri invidiano. In realtà siamo poveri in canna, possiamo ancora vederci poche ore a settimana e io mi addormento con gli occhi umidi una notte sì e una no.

Scritto questo elogio alla mia relazione d’amore, voglio farvi partecipi di quelle cose che quando le descrivo a lui, grazie anche alla foga con cui butto fuori i pensieri, scoppia a ridere perché visto da fuori il suo mondo è una sfilata di personaggi improbabili che fanno interventi sconnessi in luoghi agghiaccianti, e l’unica cosa che riesci a pensare è “Scappa via!” per tutto il tempo che ne sei spettatrice tuo malgrado.

Sono nativa delle Marche, dove ho vissuto per trentanove anni e dove tornerò a vivere. Ho sempre pensato che il centro Italia e le Marche in particolare rappresentassero l’equilibrio raggiunto tra spinta economica del nord e bellezza paesaggistica del sud: un paradiso alquanto noioso dove prosperare moderatamente. Credevo, ma così non era. O meglio, ho scoperto che non esistevano solo queste Marche quando il mio compagno mi portò in un mondo parallelo dove le famiglie sono tribù inseparabili, la cultura desta sospetto, le strade sono punteggiate da prostitute che operano senza mutande, seconde case di rara bruttezza sono sfoggiate come trofei con gli amici del bar e il tradimento tra coniugi, il gioco d’azzardo casalingo e i motori truccati sono gli unici sfoghi di una vita votata alla fatica, cioè al lavoro fisico svolto per l’accaparramento di un modesto capitale che mai sarà goduto dal suo proprietario, più probabilmente morto prima di andare in pensione.

E pensare che questo balzo tra mondi paralleli era stato uno dei presagi avuti circa un anno prima di conoscere lui. Alla fine della precedente relazione mi dissi che l’uomo con cui avrei passato il resto della vita sarebbe stato estraneo alla mia cultura e io avrei dovuto imparare la sua lingua per comunicare e in casa si sarebbe parlato un linguaggio tutto nostro.

A questa visione con il tempo si era aggiunto un pensiero insistente, di voglia di andare a vivere a sud, non importa se le occasioni di lavoro sarebbero state minori: volevo crearmi una carriera da poter trasportare dove il mio uomo risiedeva. Avevo anche scelto di vivere in una città di mare, stufa di una vita sulle colline a un passo dal mare, un passo che si può colmare solo in auto però.

Da questo quadro avevo immaginato che sarei andata a vivere da sola in Ancona e intanto avrei intessuto una relazione con un uomo americano, uno spirito anglosassone cresciuto con il diktat di separarsi dalla famiglia d’origine da giovane per creare un proprio clan altrove, il più lontano possibile. Per questo il mio precedente libro termina con me che vado a vivere in Ancona dopo un viaggio in America e mi preparo a tornare oltreoceano alla ricerca del mio musicista di New Orleans (sud, mare, c’è tutto) che poi ha anche cercato di raggiungermi in Italia, ma io nel frattempo avevo conosciuto l’amore vero e l’ho rimandato indietro.

Mi sembrava perfetto per me questo piano, che dalla casa paterna me ne sono andata a diciotto anni e sono presto diventata allergica a chi costruisce la sua vita sociale dentro la cerchia famigliare. Sono una donna emancipata, altrimenti detto, cosa vuole da me questo esemplare di uomo piceno, con il suo codazzo di donnette più o meno consanguinee e luoghi del cuore rinchiusi nella stessa via? Non ho idea, davvero cari lettori, a volte glielo chiedo: «Perché non cerchi una al tuo paese che va a messa come tua madre? Sarebbe più adatta di me.» «Voglio te». Testardo come un mulo vi dico, una cosa inspiegabile.

Da dove partire a narrarvi l’inenarrabile? Non saprei, mi si affolla nella mente un corteo interminabile di figure meschine, deformi, pesantemente truccate, gualcite, impasticcate, smielate, aggressive, incomprensibili, alienate, confuse, ignoranti che solo noi due conosciamo.

Lasciamo perdere la comunità di recupero dove si trova, con la visita all’abitazione del prete che parla così a bassa voce che solo il mio compagno comprende, vissuta in un silenzio imbarazzato perché, oltre ad avere nessun argomento di conversazione praticabile con un ottuagenario che vive in un prefabbricato in mezzo alla campagna padana, lui sapeva che sono atea e io che lui era agli arresti domiciliari (era sui giornali). Poi c’è la capo operatrice, che ogni tanto torna al lavoro con il viso più tirato, le extension sino ai fianchi e predica accorata sul come affrontare se stessi a persone che almeno hanno come scusante l’uso di una sostanza chimica che agisce sul cervello (comunemente detti tossici).

In questo luogo orribile il mio compagno mi ha fatto da guida e traduttore, difatti metà delle conversazioni le ho portate a termine grazie al suo intervento perché gli utenti della comunità parlano dialetti del sud Italia nella loro forma più pura, oserei dire arcaica, inoltre gridano sempre, anche a un passo dall’interlocutore, le cui due cose messe insieme tendono (volutamente) a risultare incomprensibili. In questo luogo — di cui ho detto che non voglio parlare — ci sono sempre un paio di utenti donne, che ogni tanto cambiano volto ma hanno tutte in comune quel fare provocatorio che io evito come la peste, e ormai quasi solo operatrici donne sempre più giovani a ogni assunzione — gli uomini sembrano essere stati banditi dalla nuova direttrice — tanto che sembra di essere alla clinica Villa Celeste di Guido Terzilli, alias Alberto Sordi, e tu le immagini arrivare la mattina alzando la gamba all’indietro sulle note della colonna sonora del film, mentre invece passano le grigie giornate padane chiuse in ufficio, imbronciate come studentesse universitarie davanti a un tomo sul calcolo integrale, posa da cui ogni tanto si liberano per sculettare vezzose davanti ai malconci utenti, assolutamente inconsapevoli che si tratta di uomini con una vita sessuale e affettiva repressa dal sistema rieducativo da due, cinque o dieci anni di fila.

Al che tu, davanti a tanta approssimazione, pensi “sarà tutto nelle nostre mani il suo reinserimento perché qui l’unica cosa che ha imparato è come confezionarsi una sigaretta e iniziare a fumare”. Ebbene sì, cari lettori e care lettrici: in comunità, un uomo disintossicato da ben dieci anni, finito lì perché l’iter giudiziario prevede questo ultimo passaggio per il suo percorso iniziato a causa della droga, ha iniziato a fumare. Grazie comunità terapeutica, la puzza di sigaretta gli era intollerabile prima, sei riuscita in un traguardo inaspettato.

Dicevo, lasciamo fuori questo mondo, ancora per un po’ coinvolto con noi.

Il mio timore attuale è chi ci aspetta al suo paese. Io farò il possibile per starne alla larga, ma sono tanti, invadenti e si danno il turno come in cantiere, in una catena di apparizioni a ore diverse con scuse diverse, finendo con lo starci sempre tra i piedi: “Andiamo a prendere l’acqua alla fontana pubblica?” “Mi vieni ad aiutare nell’orto?” “Porti tua nipote là?” “Vieni a cena? Ho fatto le tagliatelle” “Vieni a pranzo? Ho fatto le tagliatelle.” “Vieni a colazione? Ho fatto le tagliatelle”.

Mi sto riferendo ai parenti del mio compagno, a cui negli ultimi mesi si sono uniti anche gli amici che ha ritrovato su Facebook, che se erano così affezionati tre ore di autostrada — visto anche che molti sono appassionati di auto rombanti, moto, camion e in generale di tutto quello che fa rumore assordante — se le potevano fare per salutare il loro grande amico. No, tutti tranquilli a casa ad aspettare il suo rientro per rompere le scatole a me, che attendo fuori dai cancelli da due lunghissimi anni, come un cane instupidito dal dolore per la perdita del padrone − lo stesso discorso vale per la sua famiglia, che riappare solo quando arriviamo in loco, come se un incantesimo centenario impedisse loro di uscire dal paese. Sembra io sia egoista, ma credo che abbia la priorità chi tutti i giorni è lì a sostenerti.

Lo so, avrei dovuto rifiutare di tornare a vivere nel suo paesello − più piccolo del quartiere di Reggio Emilia in cui vivo e dove tutti si conoscono per soprannome. Andando alla radice del problema, avrei dovuto rifiutare di vivere questa relazione, mentre con lui sono felice. Inoltre credo che nel tempo libero lui possa fare quello che vuole, basta che viva una vita sana e mi rispetti. La mia paura è dovuta al bisogno di far capire a questa gente che la voglio fuori dalla mia vita perché è troppo che aspetto e quello che potevo sopportare per amore, l’ho già sopportato, ora voglio vivere a modo mio. Per la stessa ragione ho paura che il mio compagno, dopo anni d’assenza e tirato anche dai sensi di colpa — sua madre ne cesella di finissimi, il suo pezzo forte sono i monologhi durante i pasti — scappi ogni giorno per stare con loro.

Ho sbirciato le foto dei conoscenti del paese e nel trovarvi facce comuni mi sono rincuorata, ma poi mi chiedo perché sottopormi a tutto questo e desidero scappare.

Scappare è il leitmotiv di questa relazione, è infatti sono fuggita da ogni luogo: pranzi di famiglia (poco prima che servissero il caffè), incontri con l’operatrice del SerT (che poi non mi ha più rivolto la parola), la comunità di reinserimento (sgommando come in una puntata di Hazzard lungo il viale spoglio), telefonate con lui (gli ho chiuso tante di quelle volte il telefono in faccia che mi vergogno solo a pensarci). In realtà delle mie fughe interessa a nessuno mentre me ne vado con l’aria spaesata di chi è stato rilasciato dagli alieni e non sa dove si trova. Ho percorso così tante volte il viale di campagna che porta alla comunità con gli occhi appannati dalle lacrime, che potrei guidarci di notte a fari spenti senza paura di sbagliare.

A volte mi chiedo come evitarli tutti, immagino modi con cui farli sparire uno a uno dalla mia vita, ad esempio la nipote adolescente del mio compagno, che mi detesta dal primo giorno (“a me me pare un maschio co’ quei capelli tajiati così … oh ziiiiiii!”) e vorrebbe lo zio tutto per sé, cosa secondo me fuori luogo per una donnina di sedici anni e mezzo, che parla di sesso e canne a tavola, ma in casa è definita “ la bambina” mentre io sono quella strana perché vedo in lei un pericolo, forse perché so che un ex detenuto in misura alternativa trovato con dell’hashish in auto torna in prigione senza passare dal via (l’erba sarebbe della cara nipotina, che a ogni incontro ha il seno più gonfio e alto tanto che credo ormai si metta tre reggiseno alla volta quando sa che lo zio è in visita). Questa è la situazione squallida che mi trovo davanti e io, per alleggerirne il peso, immagino un futuro prossimo in cui lei si fidanzi con un ragazzo nordafricano, che la metta incinta e se la porti al suo Paese (così anche lei proverà la gioia di entrare nella tribù invadente del suo lui, che spero abbia tante nipoti assatanate che la facciano uscire di senno).

Sfornato questo imbarazzante pensiero mi sento per un momento sollevata, fino a che non spunta un altro personaggio di questa saga sfigata e allora siccome detesto augurare cose brutte agli altri, mi dico che è meglio che sparisca io in una fumata rosa da mago di Vaudeville, così di quelle facce non dovrò più vederne neanche una.

All’idea di poter rinunciare mi pacifico nel letto e riesco ad addormentarmi, dopo ore di fantasie con il finale sempre lo stesso: io che perdo, loro che vincono. La mattina lui mi telefona, io ricordo quanto lo amo e, porca paletta, resto un altro giorno, penso “uno solo, promesso, poi spariamo per sempre” e il mio cervello risponde “sì, certo” ma sa che la risposta è no perché vicino a quest’uomo ci passerò il resto della vita.

Una parentesi sulla mia evidente gelosia: signori e soprattutto signore, affrontate voi una relazione con un bel uomo, incline a frequentare molto l’altro sesso e che attrae lo stesso con grande facilità, che ha avuto un paio di relazioni serie alquanto brevi e come amiche aveva prostitute di professione. Come vi trovate al confronto con una persona così sui generi? A volte mi chiedo se io sappia baciare, tanto mi rende insicura.

Sembra che io odi il suo passato, in realtà sono in conflitto con lui perché mi aveva prospettato una vita nuova di zecca per entrambi, altrimenti anche io mi sarei tenuta i miei amici e i luoghi dell’infanzia, tante grazie. Lui dice che quando saremo insieme tutto cambierà e io un po’ gli credo, un po’ lo guardo come quelli che restano nella cerchia famigliare e passano la vita ad abbaiare agli sconosciuti da dietro un cancello aperto come chihuahua impauriti.

Lui è tutto tranne un uomo indifeso, è indipendente e dalla visione ampia, per questo lo seguo, ma credetemi se vi dico che è una traversata per pochi, anzi poche donne innamorate che hanno la fortuna di riporre la loro speranza in uomini seri i quali, per una strana legge di natura, hanno la stessa faccia, lo stesso tono di voce, a volte le stesse esperienze di quelli balordi.

Come puoi distinguerli? Sei tu a decidere, nel tuo cuoricino impaurito a tal punto che capisci come quello di un passero possa scoppiare dalla paura perché il tuo ci è andato vicino molte volte in questi due anni, l’anniversario festeggiato pochi giorni fa, due innamorati che si mandano promesse e auguri attraverso un telefono perché non si possono vedere quando vogliono. Sapete cosa ho visto scrivendo questa frase? Altro che viva il cellulare, che grazie alla tecnologia ci siamo potuti sentire quando non potevamo vederci, è una non-vita che ti consuma la vita. Ti sembra di aver vissuto qualcosa, tra chat Whatsapp, telefonate, videochiamate, foto spedite, like su Facebook, poi conti le ore che state insieme senza intrusi e scopri che corrispondono al tempo che molti passano a lavare l’auto o fare un’attività di quelle che si lasciano per ultime nella lista settimanale. Allora pensi che anche la ragazza peggiore con cui lui è stato ha avuto più attenzioni di te, la donna della sua vita, e la possibilità di vederlo tutti i giorni senza parenti tra i piedi, e alla fine si è anche comportata male con lui. Così ti senti davvero fregata e mandi a quel paese il mondo virtuale perché l’unica cosa che vuoi e vivere a fianco a lui tutti i giorni per essere una famiglia.

Se voi siete commossi e vorreste vederci uniti, intorno a noi le baionette sono in resta e nessuno sembra voler dar spazio a questo amore.

Ci sono i conoscenti benauguranti:

« Quali problemi ti fai? Tempo per stare insieme ne avrete, anche per un figlio, un po’ di pazienza e si fa tutto.» (rassicurazioni che hanno il gusto di “hai voluto la bicicletta? adesso pedala”)

Gli ufficiali pubblici:

«Signora, lei deve capire che la famiglia d’origine del detenuto ha sempre la priorità rispetto la compagna, poco importa se lei si è trasferita ed è venuta a tutti i colloqui. Per lo Stato la mamma è sempre la mamma, la sorella è sempre la sorella, la compagna è una con cui il detenuto sfoga i suoi istinti naturali, diciamo, e si tiene quieto. Gli uffici del UEPE la ringraziano per la collaborazione, ora il suo servizio può considerarsi terminato» (da leggere sempre con voce di donna siciliana, da ufficio a ufficio)

I nostri genitori:

« Shdai con mamma, t’ha ashpettato tando, ha fatto tandi sacrifici per te, t’ha portato in pancia nove mesi …» (non so trascrivere il dialetto del sud delle Marche, arrivateci a senso)

«Che futuro ti darà Questo? Perché non sei rimasta con Altro? Per me era come un figlio! Non importa se non eravate felici, con quello dovevi restare. E anche al supermercato dovevi restare, altro che scrittrice, e dovevi fare l’università a Macerata anche se non c’era una facoltà che ti piaceva. Sei una donna, vuoi pure essere felice?»

La sua ancora moglie:

«Brava lei, manda bacini lei, tienila stretta. La delega per il divorzio? La spedirò, sì, che tu possa crepare per tutte le volte che ti hanno arrestato, certo che voglio fare divorzio, adesso mando delega, saluta lei, brava ragazza, tante belle cose, che la tua famiglia bruci per tutte le arrabbiature che hai dato me. Sì, aiuto te, io voglio fare tutto, certo, no preoccupa, italiano maledetto, vienimi a cercare in mezzo alla Romania, buona fortuna se riesci»

Pure la sua avvocatessa ci si mette, con battute tipo “Che fretta hai di divorziare?” e in un anno e mezzo non ha fatto quello che la legge consente di fare in poco più di sei mesi.

Credetemi, viviamo un ostruzionismo che neanche Romeo e Giuletta hanno mai visto.

Ragazze, il bel tenebroso è davvero cattivo e mi auguro che gli stiate lontano. Stategli ancora più lontano, però, se è buono come il mio uomo perché avrà accumulato intorno a sé una tale quantità di figure cattive, a cui lui è assuefatto, ma che a voi faranno del male. Questa sarà la prova del fuoco e perderete ancora e ancora, sino a pensare di essere marce più di loro, questa accozzaglia viziosa che vi ho malamente descritto. Invece è giusto pensare il contrario, che ce la state mettendo tutta per costruire una famiglia felice e quando v’impuntate un motivo c’è. Il problema è che siete da sole e vi faranno apparire egoiste. Evviva l’egoismo! Siate egoiste, amate tutti da una certa distanza, lui fatelo entrare nel vostro mondo quando lo merita, ma soprattutto amate voi stesse ogni giorno e se le cose si fanno inutilmente dolorose, scappate.

La verità è che io sono arrivata per restare, come dissi a mia cognata l’unica volta che parlammo faccia a faccia pronunciando quella che suonava come una minaccia. Supererò ogni attacco e alla fine avrò le teste dei nemici ai miei piedi. O più probabilmente la mia tenera presenza, al principio tesa, terrà duro. Questa donna dai capelli rossi, che non si tatua le sopracciglia e scrive per vivere, che ama passeggiare per il centro fermandosi ad ammirare cortili settecenteschi, che lui guarda con infinito amore, vincerà perché lui l’ha scelta e con lei una nuova vita. Che amore fantastico è il nostro, ma che fatica superare le proprie paure!

Dafne Perticarini

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