giovedì , Marzo 28 2024

To Be Number One: 30 Anni di Italia ’90

3 luglio 1990, allo stadio San Paolo di Napoli il sogno azzurro s’infrange contro lo scoglio della lotteria degli undici metri. Le “Notti Magiche” intonate dal duo Bennato-Nannini trovano sul loro cammino i guanti di Goycochea: il portiere argentino decide il match parando un rigore a Donadoni e poi a Serena. Maradona e compagni sono gli eroi di una serata che, a distanza di trent’anni, lascia ancora l’amaro in bocca e qualche recriminazione ai tifosi azzurri. La semifinale Argentina-Italia riporta sulla terra i ragazzi del Mister Azeglio Vicini e, con loro, un intero Paese che stava vivendo sulla scia degli allori: quelli degli anni del benessere economico e non solo. Calcisticamente parlando, infatti, potevamo dire (senza troppi forse) di avere la squadra più forte dei Mondiali di Italia ’90 e quel torneo resta ancora oggi come un’occasione mancata. Il campionato italiano, inoltre, era davvero il più bello del mondo: del totale dei calciatori partecipanti a quel Mondiale, una percentuale consistente militava già o comunque avrebbe militato, di lì a poco, in squadre di club italiane. Alcuni grandi campioni degli anni ’80 stavano lasciando il testimone alle nuove leve di un calcio sempre più “senza frontiere”, per citare un passaggio dell’inno dei Mondiali. Il decennio a cavallo tra anni ’80 e ’90 vede infatti giocare nel Belpaese firme del calcio champagne come Gullit, van Basten, Falcão, Zico, Sócrates, Maradona, Caniggia, Platini, Voeller, Matthäus, Brehme, Skuhravý, Aldair, Careca, Dunga, Alemão per citare i nomi più altisonanti. Gli azzurri, dal canto loro, scendono in campo con personalità già di spicco e di altrettanto spessore, ma anche con giovani più che promettenti: Zenga, Baresi, Maldini, Bergomi, Ancelotti, Ferri, Vierchowod, Donadoni, Mancini, Giannini, Vialli, Baggio e naturalmente colui che sarà il capocannoniere del torneo, Totò Schillaci, con sei gol tutti da incorniciare.

Il Mondiale di Italia ’90 è quello degli stadi rinnovati e dell’Italia favorita di Azeglio Vicini, nato nella bellissima Cesena e per lungo tempo residente a Cesenatico. E’ anche l’Italia di Roberto Baggio. Solo qualche settimana prima, un’intera città, Firenze, perdeva il suo ‘Signore’ che se n’era andato destinazione Torino, in quella Juventus acerrima nemica dei Viola. Ma era tempo di mondiali: era tempo di far vedere quello che valeva l’Italia. Tutto bene per noi fino a quella maledetta semifinale, giocata nella tana del ‘Pibe de Oro’. Oggi ancora in tanti sostengono che se solo avesse giocato altrove, l’Italia sarebbe volata in finale. Tutti allenatori già allora. Chi diceva che avrebbe dovuto giocare Vierchowod e non Ferri; chi si chiedeva il perché far entrare Baggio solo così tardi in campo. Eppure, nonostante tutto, fu una partita bellissima: quella per il terzo posto dove l’Italia strapazzò l’Inghilterra e, alla fine, erano tutti lì come fratelli ad abbracciarsi. “Mio zio, tifoso dell’Inter, esultò al gol di Brehme in finale contro quel ‘Pibe’ che solo i napoletani amavano e lo tifarono in tanti, soprattutto in quella maledetta semifinale. Maradona era il Re di Napoli e neppure l’amore per la Nazionale italiana lo superava. Non fu tanto l’Argentina a batterci ma il solo Maradona, sostenuto da almeno mezzo stadio San Paolo”, ricorda con particolare emozione mista a tristezza lo stesso Luca Giacobbi nel confezionare questo articolo celebrativo di Italia ‘90. Inutile mentire: Maradona era il più grande. Solo quattro anni prima aveva trascinato l’Argentina alla vittoria in Messico, praticamente da solo e segnando pure con una mano. Era ancora fortissimo e solo una granitica Germania poté batterlo. Ma l’Italia? Qualcuno disse che giocammo un bellissimo mondiale, quasi bello come quello nel cuore di tutti gli Italiani: quello del 1982. Azeglio Vicini e Roberto Baggio si meritavano quel mondiale: Roberto, come fosse una stregoneria, si vide sfuggire in finale un altro mondiale nel 1994.  Non si ripeté quel “Campioni del Mondo” urlato tre volte da Nando Martellini nel 1982, che rimane la poesia più bella. “Personalmente tifavo per Roberto Baggio e, di conseguenza, per l’Italia. Posso capire quindi i napoletani che tifavano per Maradona e, di conseguenza, per l’Argentina benché contro l’Italia. Io vedevo ancora in campo Baggio con la maglia della Fiorentina e quella maglia mi sembrava non se la fosse mai tolta nemmeno in Nazionale. Era azzurra, certo, ma se guardavi bene notavi che in realtà era Viola”, aggiunge ancora Luca Giacobbi andando a cercare tra i ricordi più belli e intimi di ogni tifoso di calcio.

Quel Mondiale non fu soltanto un’impresa sportiva, per quanto sfiorata. Non fu solo calcio champagne; non fu solo le reti straordinarie di Schillaci; non fu solo Vicini e Baggio, così come non fu solo un super Maradona che riuscì persino a dividere, con le sue gesta, gli stessi tifosi italiani. Quel Mondiale fu anche e soprattutto un’impresa organizzativa. Infatti si è già accennato agli stadi rinnovati, poiché l’Italia non organizzava i Mondiali dal lontano 1934: quasi tutti gli stadi italiani risalivano proprio all’epoca fascista. Il torneo si sarebbe svolto in dodici città, ossia in dodici stadi diversi: da nord a sud, isole comprese. Dieci vennero ristrutturati sulla base dei perimetri già esistenti, dotati di coperture e posti numerati, mentre due impianti furono interamente progettati e costruiti per l’occasione: il Delle Alpi di Torino e il San Nicola di Bari. Non fu un torneo di facile organizzazione: alla fine, i costi dei lavori per modernizzare tutti gli stadi già esistenti e per edificare i nuovi furono di gran lunga superiori a quelli preventivati; non mancò la polemica politica ma purtroppo neanche un costo in vite umane, perché diversi operai persero la vita nei cantieri. La consegna degli impianti fu una corsa contro il tempo. Ad ogni modo si arriva al faticoso traguardo e l’8 giugno 1990 va in scena allo stadio San Siro di Milano la cerimonia di apertura dei Mondiali, con la voce inconfondibile di Bruno Pizzul. La gara inaugurale è tra i campioni in carica dell’Argentina e il Camerun, con l’inaspettata sconfitta dei sudamericani proprio all’esordio: una doccia fredda che tuttavia non impedirà agli argentini di arrivare in finale contro la Germania Ovest, dopo aver elimitato in semifinale proprio noi. Se c’è un Mondiale che ha segnato la storia, al di là del risultato sportivo, questo è Italia ’90. E non solo perché, per la prima volta, partecipano ad un mondiale di calcio Costa Rica, Irlanda ed Emirati Arabi. Appena un anno prima è, infatti, crollato il Muro di Berlino e quello sarebbe stato l’ultimo torneo internazionale disputato dalla Germania Ovest, prima dell’unificazione formale delle “due Germanie”: di fatto una nazionale calcistica già sostenuta da tutto il popolo tedesco, da est ad ovest, all’ombra della Porta di Brandeburgo. Circa un anno dopo, si inizia a disciogliere come neve al sole la granitica Unione Sovietica e comincia la tragedia di una guerra civile devastante per quella Jugoslavia che, invece, in campo calcistico appare come una corazzata unita di etnie: così forte da eliminare agli ottavi nientemeno che la Spagna della ‘Quinta del Buitre’.

“Dopo aver vinto il proprio girone di qualificazione davanti a Irlanda, Ungheria, Irlanda del Nord e Malta, nel 1990 la Spagna si presentò al mondiale italiano circondata da aspettative molto alte, dovute soprattutto alla presenza tra i convocati della cosiddetta ‘Quinta del Buitre’ (Coorte dell’Avvoltoio), una generazione di grandi calciatori, tutti cresciuti nella cantera del Real Madrid, che prendeva il nome dal centravanti Emilio Butragueño, detto appunto el Buitre”, spiega Stefano Picasso appassionato di calcio spagnolo e fondatore del sito Rayo Vallecano Italian Fan Club: un portale dedicato alla storica e popolare società sportiva e calcistica del quartiere Vallecas di Madrid. “Il resto della ‘coorte’ era formato da Míchel, Martín Vázquez, Manuel Sanchís e Miguel Pardeza. Al comando della spedizione c’era un’ex stella del fútbol spagnolo: Luisito Suárez, pallone d’oro del 1960 e vecchia conoscenza del calcio italiano, in carica dal 1988 dopo il brutto europeo costato il posto al precedente C.T. Miguel Muñoz. La fiducia riposta dai tifosi fu però tradita da un mondiale piuttosto deludente: il brutto esordio dello stadio Friuli di Udine contro l’Uruguay, in cui gli iberici riuscirono a difendere lo 0-0 solo grazie all’errore dal dischetto del sudamericano Rubén Sosa, fu il presagio di un cammino ricoperto dalle critiche e che si sarebbe interrotto già agli ottavi di finale”, sottolinea Stefano Picasso con un’ulteriore analisi sulla ‘Quinta del Buitre’. “Dei cinque della ‘Quinta del Buitre’, Pardeza, l’unico che nel frattempo aveva lasciato il Real Madrid per trasferirsi al Real Saragozza, giocò solo due minuti nell’ultima partita del girone (vittoria per 2-1 sul Belgio che valse il primo posto); gli altri invece furono titolari in tutti i match disputati dalle ‘furie rosse’. Míchel fu il capocannoniere iberico con quattro reti, tra cui la tripletta contro la modesta Corea del Sud: famosa rimane la sua esultanza rabbiosa. Al contrario, il tanto atteso Butragueño, autore di cinque reti nel precedente mondiale messicano, rimase a bocca asciutta; mentre Martín Vázquez, tra i migliori dei suoi, al termine del mondiale resterà in Italia, acquistato dal Torino per quasi tre miliardi di lire”, evidenzia Stefano Picasso che ripercorre brevemente la già menzionata gara degli ottavi contro la compagine jugoslava. “Il sogno spagnolo si infranse contro la Jugoslavia dopo i supplementari; allo stadio Bentegodi di Verona gli iberici dominarono per buona parte dell’incontro ed ebbero varie occasioni per passare in vantaggio, tra cui un palo del Buitre, ma furono condannati da una doppietta di Stojković. La rete del momentaneo 1-1 di Julio Solinas servì solo per prolungare l’avventura spagnola di altri trenta minuti”, conclude il fondatore di Rayo Vallecano Italian Fan Club nonché autore del libro “Storia del Rayo Vallecano”.

Il cammino degli azzurri invece riesce ad andare spedito fino all’incontro con l’Argentina. La fase a gironi è relativamente facile per l’Italia che incontra nell’ordine Austria, Stati Uniti e Cecoslovacchia. L’esordio è il 9 giugno allo stadio Olimpico di Roma: gli undici di Mister Vicini partono bene e vanno vicini al gol in più di un’occasione fin dai primi minuti. Ci prova Carnevale, servito in volata da Vialli verso la porta, ma l’estremo difensore austriaco respinge la conclusione; poi è la volta di Giannini dalla lunga distanza. L’occasione più ghiotta è, forse, quella che capita fortuitamente sui piedi di Vialli dopo un retropassaggio errato della difesa avversaria, ma l’attaccante azzurro angola troppo con l’esterno del piede sull’uscita disperata del portiere. Reti inviolate nel primo tempo; nella ripresa è ancora l’Italia a insistere con il solito Vialli che, dal limite dell’area, incrocia rasoterra di sinistro e manda la sfera di poco fuori dallo specchio. A un quarto d’ora dalla fine entra Schillaci al posto di Carnevale: è la mossa giusta, al momento giusto. Poco dopo, al minuto 33, Donadoni serve Vialli defilato lungo il margine destro dell’area, che arriva sul fondo e crossa al centro dove svetta di testa Schillaci in mezzo a due difensori e l’Olimpico impazzisce di gioia. L’Italia batte l’Austria per 1-0, quanto basta per partire alla grande. Con gli Stati Uniti, sempre a Roma, è calcio champagne. Dopo appena 11 minuti di gioco triangolazione di prima tra Carnevale, Berti e Donadoni per Vialli che finta per l’inserimento di Giannini: il ‘Principe’ giallorosso entra in area, palla al piede, e fredda il portiere in uscita con un rasoterra micidiale. L’Italia potrebbe raddoppiare già nel primo tempo e archiviare di fatto il match ma Vialli sbaglia dagli undici metri, mandando il pallone a impattare contro il palo. Nella ripresa è protagonista Zenga con un doppio miracolo su un calcio di punizione pericoloso per gli avversari; poco più tardi è Schillaci a rispondere con una violenta punizione dal limite, che finisce però di poco fuori. L’Italia batte gli Stati Uniti per 1-0 e prosegue il cammino verso la qualificazione. L’ultima gara del turno eliminatorio è di nuovo allo stadio Olimpico contro la Cecoslovacchia. Gli azzurri vanno in vantaggio dopo appena 10 minuti con incornata di Schillaci sotto porta su un tiro stavolta maldestro, ma fortunato, di Giannini da fuori area. Dapprima Baggio e poi Berti potrebbero raddoppiare, ma si lasciano ipnotizzare dal portiere. Nella ripresa Giannini vede la propria conclusione respinta sulla linea da un difensore cecoslovacco a portiere ormai battuto. La Cecoslovacchia fa tremare per un istante l’Olimpico: va in rete ma il tutto viene annullato per evidente fuorigioco. Poi, su forbice in area di Baggio, è Berti a trovare la via del gol imitando però goffamente la ben più nota ‘mano de Dios’ di Maradona: l’arbitro non si lascia ingannare e giustamente annulla, arrivando minaccioso col cartellino giallo in mano. Alla mezzora è Baggio a chiudere il match con un’azione individuale da standing ovation: palla al piede dalla tre-quarti campo, dribla un avversario poi finta sul penultimo difensore e mette infine a sedere il portiere come se fosse un penalty in movimento. Con questo 2-0 alla Cecoslovacchia, l’Italia si qualifica agli ottavi a punteggio pieno.

Il 25 giugno a Roma vanno in scena gli ottavi degli azzurri contro una rivale storica come l’Uruguay. Baggio delizia l’Olimpico con una punizione da manuale a giro, con pallone che passa sopra la barriera e si insacca alle spalle dell’immobile portiere: quest’ultimo furbamente evita di intervenire perché la punizione è indiretta e il gol viene dunque annullato. Poi è Schillaci ad avere l’occasione più ghiotta lanciato a rete ma si fa neutralizzare il tiro dall’estremo difensore dell’Uruguay che è prontissimo coi riflessi. Sono solo le prove generali del capolavoro balistico che l’attaccante siciliano regalerà agli ottantamila tifosi sugli spalti: a metà del secondo tempo assist di Baggio, marcato a uomo, proprio per Schillaci che avanza di qualche metro e scaglia un bolide rabbioso di sinistro dal limite dell’area, con pallone imprendibile sotto la traversa. E’ poi Serena, a meno di 10 minuti dalla fine, a chiudere i conti correggendo in rete una punizione a tagliare in area: Zenga non subisce gol da 823 minuti, l’Italia batte l’Uruguay per 2-0 e vola ai quarti di finale. Il 30 giugno un Olimpico stracolmo fa da cornice al match tra gli azzurri e l’Irlanda. Il vantaggio dell’Italia è propiziato dopo 37 minuti di sostanziale equilibrio in campo da una pregevole triangolazione Baggio-Schillaci-Giannini, la sfera finisce sui piedi di Donadoni che scaglia da fuori area un bolide a mezza altezza respinto maldestramente dal portiere irlandese che scivola: a porta sguarnita, per Schillaci è un gioco da ragazzi insaccare. Nella ripresa Serena potrebbe raddoppiare ma il pallonetto di testa, ad anticipare l’uscita dell’estremo difensore, non è preciso come dovrebbe. L’Eire viene liquidata per 1-0 e per gli azzurri si aprono le porte del San Paolo, dove c’è l’Argentina di Maradona. Si arriva così al fatidico 3 luglio 1990, con le tribune che s’illuminano per i flash. L’Argentina mette subito in difficoltà l’Italia: ci prova Burruchaga servito da Basualdo a scaldare i guanti di Zenga da fuori area. E’ però la nostra Nazionale a trovare la via del gol con un’ottima giocata di Giannini in inserimento nell’area avversaria, tiro di Vialli a seguire ribattuto dal portiere e il solito Schillaci che ribadisce in rete con la prontezza di un falco. La doccia gelata arriva alla metà del secondo tempo quando, su cross di Olarticoechea, Caniggia approfitta di un’uscita a vuoto di Zenga anticipandolo di testa. Supplementari e poi rigori: per l’Argentina vanno a segno Serrizuela, Burruchaga, Olarticoechea e Maradona; per l’Italia Baresi, Baggio e De Agostini. Donadoni e Serena si fanno parare il penalty da Goycochea. L’Argentina ci elimina per 4-3 (dopo i rigori) e non ci resta che il premio di consolazione: il terzo posto conquistato al San Nicola di Bari il 7 luglio ai danni dell’Inghilterra. Avviene tutto nel secondo tempo: dopo 25 minuti Baggio approfitta di una papera del portiere inglese e porta in vantaggio gli azzurri. Platt pareggia momentaneamente i conti con un pregevole colpo di testa, mandando il pallone all’incrocio dei pali. L’Italia torna in vantaggio con un rigore trasformato da Schillaci: per lui è la sesta rete in questo Mondiale e diviene capocannoniere del torneo. Ci sarebbe anche spazio per un terzo gol allo scadere: quello di Berti, peraltro bellissimo di testa a scavalcare il portiere, ma l’arbitro annulla per fuorigioco. Il 2-1 all’Inghilterra vale il terzo posto.

Come nell’86 la finalissima è di nuovo tra Germania e Argentina: il sipario si apre, per l’ultima volta in questo Mondiale, l’8 luglio sul prato verde dello stadio Olimpico di Roma. La quattordicesima Coppa del Mondo è decisa da un calcio di rigore quantomeno discutibile, forse addirittura inesistente: non osiamo neanche immaginare quante volte sarebbe stato rivisto oggi quell’episodio alla moviola. Nel 1990, semplicemente, era rigore quando l’arbitro fischiava. La trasformazione di Brehme dagli undici metri consegna alla Germania il suo terzo titolo mondiale. Protagoniste di quella finale, quindi, due tra le Nazionali più quotate della storia del calcio e non poteva mancare il ricordo di due tifosi divisi a metà tra queste due squadre e l’attaccamento verso il nostro Paese. Perché, anche in questo, il calcio è lo specchio della vita e di un mondo sempre più globalizzato e senza frontiere. Cominciamo da Josef Junker, un tifoso tedesco atipico: grande appassionato di calcio, la sua vera passione è tuttavia la Nazionale sammarinese che segue ogni volta che può. “Questo campionato del mondo è stato incoronato ancora una volta da un successo per i tedeschi; tuttavia per me, ciascuno dei semifinalisti avrebbe potuto diventare Campione del Mondo. Non sono mai stato un sostenitore assoluto della squadra nazionale tedesca. Anche da giovane, andando in Italia per vacanza, ero un grande ammiratore del calcio italiano. Non amavo l’arrogante calcio dei tedeschi, ma il calcio italiano fatto di cuore e passione. Ecco perché amo il calcio sammarinese”, confessa Josef Junker dalla sua München. La Germania arriva in finale sconfiggendo l’Inghilterra. “Ricordo ancora che ho visto le partite dell’Italia nella mia pizzeria italiana preferita: il proprietario donava una grappa ad ogni gol italiano e, ai tedeschi, donava una pizza per ogni vittoria degli azzurri. Fui molto triste per la sconfitta dell’Italia contro l’Argentina; la Germania invece si è laureata Campione del Mondo grazie un calcio di rigore molto controverso”, aggiunge il tedesco con l’Italia e San Marino nel cuore.

 

Continuiamo in questo amarcord della finalissima di Italia ‘90 con il contributo di Marcelo Gabriel Carrara, italo-argentino residente a Mar del Plata nella provincia di Buenos Aires e membro del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero (Cgie). Ci parla del Mondiale di Calcio del 1990 come del “Mundial  de la Historia” e non si può non dargli ragione, se non altro per tutte le questioni fin qui analizzate. “Nel ’90 avevo nove anni e per me quello è stato il primo grande evento sportivo vissuto, perche in realtà della Coppa vinta dall’Argentina nel 1986 non ho ricordi. Guardavo in televisione il torneo assieme ai miei nonni  materni: Ostilio ed Albina, nati nell´alto Molise, che dopo la guerra hanno scelto la mia città di Mar del Plata per iniziare una nuova vita”, racconta Marcelo Gabriel Carrara legando i ricordi dell’evento calcistico a quelli più intimi della sua famiglia di italiani emigrati, come tanti altri, in Argentina o in altre parti dell’America Latina. “Nonno Ostilio mi ha trasmesso questo amore per l’italianità che quindi coltivo da piccolissimo: il momento in cui ricordo di aver sentito forte questo amore per due Nazioni è coinciso proprio con Italia ‘90. I miei compagni di scuola, in terza elementare, non potevano capire come io potessi tifare per l’Italia, a volte con piu intensità che per l’Argentina”, confessa Marcelo che ancora abita non molto distante dello stadio ‘Mundialista’ – come lo chiamano affettuosamente – dove ha giocato l’Italia nei Mondiali del ‘78. “Ricordo che disegnavo il logo del Mondiale, ‘Ciao’, dappertutto. Avevo la maglia azzurra, ancora la conservo, e l’album di figurine che ho potuto alla fine completare: l’ultima figurina è stata quella del sovietico Zavarov, dopo quasi un mese di grande ricerca. Ovviamente si giocava al calcio nella scuola o nel parco del quartiere ed ognuno si identificava con i giocatori: Baggio, poi Schillaci ed io che facevo il portiere Zenga. Tanti erano i calciatori da imitare. Ricordo perfettamente la partita inaugurale, l’Argentina contro il Camerun”, così Marcelo va ancora a pescare tra i ricordi di un ragazzino innamorato di calcio. Neanche la differenza di fuso – cinque ore indietro rispetto all’Italia – ha impedito ai ragazzini di Mar del Plata di seguire con passione il torneo e i propri campioni. “Quel giorno, durante il pomeriggio, ci hanno convocati tutti nella palestra della scuola, con un televisore non molto grande: tutti seduti sul suolo a guardare da lontano la partita. Prima tutti a cantare poi, con la sconfitta dell’Argentina, tutti in silenzio e nessuno capiva più nulla. Ricordo su tutti personaggi come Omam Biyik o il mitico Roger Milla che, con i suoi balletti dopo i gol, volevamo copiare nelle nostre partite di ragazzi. E’ invece a casa con i miei nonni che ho guardato la prima partita dell’Italia contro l’Austria: prima l’ansia poi l’inizio di un mito, almeno per quel mese: il ‘Salvatore della Nazione’ (Totò Schillaci, ndr). Quindi la partita contro gli Stati Uniti e quella simpatia verso Tony Meola perché, come diceva mio nonno, anche lui aveva origini italiane. Nutrivo inoltre simpatia per un difesore, Marcelo Balboa, che portava il mio nome e aveva origini argentine”, è un fiume in piena di ricordi Marcelo che, da buon italo-argentino, non poteva non gridare al gol dell’Albiceleste contro i rivali continentali di sempre: il Brasile. Ed ancora le partite dell´Italia contro l’Uruguay e poi l’Irlanda, sempre vissute insieme ai nonni. Alla fine la dura notizia della semifinale Italia-Argentina. “Io non volevo sapere nulla: una partita molto strana per me. Ancora non la posso decifrare, ma ricordo che ero molto dispiaciuto che l’Italia non fosse in finale. In Argentina invece erano tutti felicissimi, naturalmente, per questa nuova finale”, e la mente degli argentini non può non andare ancora, dopo trent’anni, a quel contestato e dubbio rigore concesso alla Germania dall’arbitro messicano Codesal. “Ricordo la partita per il terzo posto dell’Italia, assieme al nonno: lui sarebbe deceduto un anno dopo. Indubbiamente quello dei Mondiali è stato un periodo fantastico: con quelle ‘Notte Magiche’ e quelle giornate di emozioni”, chiude così il baule dei ricordi Marcelo Gabriel Carrara tifosissimo tra l’altro del Boca Juniors, un club storico fondato nel 1905 a Buenos Aires da un gruppo di giovani italiani.

 

Siamo arrivati alla fine di questa storia, o forse ancora no. Anzi, decisamente no. Vi abbiamo narrato le imprese di chi ha vinto e di chi ha perso, gioie e lacrime. Con loro vi abbiamo ricordato le emozioni di chi quel Mondiale l’ha vissuto pensando ancora a Baggio con la maglia Viola, come Luca; seduto ai tavoli di una pizzeria italiana, come Josef; a casa coi nonni o seduto sul pavimento della palestra della scuola, come Marcelo. Anche quelle di chi non lo ha vissuto direttamente, per motivi anagrafici, ma ha ripercorso le vicende di grandi campioni del calcio spagnolo, come Stefano. Manca però un tassello che ha rivoluzionato il nostro stesso rapporto con il calcio: il suo nome è stato già menzionato, senza saperlo, da Marcelo. “Forse non sarà una canzone a cambiare le regole del gioco”, cantava Bennato all’inizio della sigla dei Mondiali; è vero, una canzone forse no, ma un’esultanza sì. Gabriele Ziantoni, speaker radiofonico e scrittore – già autore di “Un secondo dopo l’altro” (2017), “Nonostante tutto” (2019) ed in attesa del suo terzo libro “Rudi Voeller, il tedesco volante” edito da Giulio Perrone Editore e in uscita ad agosto 2020 – ci parla della storia di Camerun-Colombia, di Roger Milla e della prima esultanza sponsorizzata del calcio. Lo racconta con la sua ironia ma anche con la profondità di chi mastica calcio da diversi anni. “Quell’uomo suda. In fondo mi somiglierebbe se non avesse la carnagione scura, non ci separassero trent’anni e non vedesse come un miraggio una doccia rinfrancante. Io, ad esempio, ne sono appena uscito. Pulito, profumato e con un bell’accappatoio dell’Uomo Ragno (Spiderman chi?) utile non   solo   per   asciugarmi   ma   anche   per   liberarmi   la   pelle   dagli   ultimi,   residui,   granelli   di sabbia. Non mi appartengono anche se sembrerebbe. I ricchi venti minuti di coccole che mi sono concesso sotto un soffione generoso di acqua tiepida non sono serviti: queste dannate briciole di una roccia che fu, proprio non ne vogliono sapere di abbandonarmi. Me li ritrovo ovunque:   nelle   orecchie,   negli   interstizi   palmati   della   dita   dei   piedi,   perfino   in   bocca. Normale   per   chi,   avendo   un’epidermide   chiarissima,   deve   riempirsi   di   una   crema   solare talmente   tanto   densa   da   impedire   anche   ad   un   muratore   esperto   di   spalmarla   alla perfezione.   Prima   di   indossare   un   cappello,   una   maglietta   rigorosamente   bianca   e   un pantaloncino  capace   di  coprirti   ben   oltre   le   ginocchia.   Senza   dimenticare   di  accomodarsi sotto l’ombrellone. A leggere e osservare mandrie di bambini sconosciuti che corrono sul bagnasciuga senza apparenti pensieri. Bella vita di merda, quella di un cucciolo di sei anni facile alle insolazioni. Mio padre, intanto, è in piedi. Accanto al tavolo. Ha gli occhi puntati sulle immagini proiettate da   un   minuscolo   televisore   di   marca   Mivar.   Ce   lo   siamo   trascinati   dietro   per   chilometri proprio per assistere ad eventi come questo. Le gare del ‘nostro mondiale’: Italia ’90. E’ attento, papà. Così concentrato l’ho visto solo quando gioca la Roma. Il che mi fa capire l’importanza del match che ormai stiamo guardando insieme. Sono confuso: quei giocatori non   li   conosco.   In   più   il   cronometro   mi   manda   leggermente   fuori   giri:   segna   il   minuto numero 107. Ma le partite non finivano al novantesimo? Mah. Nell’istante esatto in cui me lo chiedo, un portiere riccioluto si appresta ad addomesticare il rinvio della difesa avversaria. È molto lontano dalla sua porta, eppure non sembra preoccupato. Il pallone, con la stanchezza tipica di un tempo supplementare, viaggia verso un compagno e poi gli ritorna. Un tocco di troppo ed ecco accendersi la fame del Re. Corre l’uomo sudato, corre più veloce del vento. La palla ora è sua e nessuno potrà sottrargliela: non i difensori della Colombia, non l’intervento disperato in scivolata dell’amabile ricciolone. La rete che si gonfia, facendo esplodere di gioia la   parte   camerunense   del   San   Paolo   di   Napoli,   sembra   essere   l’innesco   per   la   danza dell’uomo   sudato.   Che   ora   balla.   Avendo   come   spettatore   privilegiato   un   cartellone pubblicitario. ‘Roger Milla, 38 years old’ recita   la   grafica   minimal  della   Rai,  facendo  scompisciare   mio padre. – Hai capito ‘sto vecchio? – commenta avvicinandosi al bagno. Credo sia arrivato il suo turno per fare la doccia – e quando gli ricapita di fare doppietta in un mondiale? –  Io annuisco ma senza convinzione. Improvvisamente mi è venuta una gran voglia di Coca Cola”, termina il ricordo di Gabriele Ziantoni.

 

 

di Simone Sperduto e Luca Giacobbi

si ringraziano per la partecipazione:
Josef Junker – Tifoso nazionale sammarinese
Stefano Picasso – Rayo Vallecano Italian Fan Club
Marcelo Gabriel Carrara – Membro del CGIE
Gabriele Ziantoni – speaker radiofonico e scrittore

 

 

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