venerdì , Aprile 19 2024

Tifare per una squadra che mai vince e seguitare a farlo

“Eroico giocatore”, “Squadra di veri uomini”, “Grande sofferenza” sono frasi che, se rivolte al mondo del calcio, a mio parere, suonano insensate.

Parlo del calcio di serie A, quello fatto di macchinoni, stipendi folli, sopracciglia finissime e cerchielli per i capelli; non mi riferisco a quello del padre di famiglia che sacrifica ore per allenarsi, gratuitamente, le sere d’inverno, sia chiaro.

A parte questo, il calcio ha un prepotente rovescio della medaglia: la tifoseria.

Chi nasce tifando per le tre squadre più forti, quelle a strisce di Milano e Torino, è più fortunato. Anche se qualche sospetto di “tifo per comodità” se lo porterà sempre con sé, come un ineludibile fardello.

Gli altri tifosi, quelli di Roma, Napoli, Lazio, Sampdoria, etc., sono ai miei occhi più romantici, anche se…sono incorreggibili piagnucoloni!

Ma come? Sul serio credono di potersi lamentare? Coi loro scudetti, le loro coppe Italia, le finali europee?

Racconterò, quindi, la mia storia di tifoso, che è quella di ogni padovano biancoscudato della mia età.

Sono nato nell’ultimo quadrimestre del ‘70, quando il Padova era appena precipitato nella quarta serie, categoria cui non apparteneva da oltre cinquant’anni, durante i quali aveva fatto segnare negli annali moltissime stagioni di A, arrivando a sfiorare lo scudetto nell’anno di grazia 1958.

Qualcuno sostiene che il presidente della Juve, tale Umberto Agnelli, ebbe molto peso sugli arbitraggi di quell’anno, ma non sarò certo io a soffiare sul fuoco che alimenti una tale illazione.

A otto anni ero già frequentatore dell’Appiani, il glorioso stadio cittadino.

A nove, presi l’autobus numero 5 per smontare tre fermate dopo, a Santa Croce, e recarmi al velodromo Monti per i provini delle giovanili del Padova, unica squadra per cui mai avrei voluto giocare.

Tutti gli altri bambini erano accompagnati da genitori e zii che davano pacche sulle spalle ai dirigenti e massaggiavano le gambe dei figli, mentre io ero da solo con la busta di plastica contenente le scarpe. Sempre piccole e dolorose, per via di una temibile associazione a delinquere che coinvolgeva mia madre ed un vicino di casa, negoziante di calzature che saltava sadicamente l’approvvigionamento di alcuni numeri.

Giocai benino, ma toccai solo un paio palloni. Ed ero troppo emozionato, come in tutti i momenti importanti della mia vita.

Continuai a giocare per la squadra del mio quartiere e superai la delusione.

L’anno successivo, il giorno di Sant’Antonio, saltai su un treno diretto a Verona, in compagnia di vicini di casa già maggiorenni, avendo avuto io solo nove anni e mezzo; allo stadio Bentegodi si disputava lo spareggio tra Padova e Trento per salire in C1, che perdemmo ai calci di rigore.

Avrei dovuto capirla lì, mentre mi scendevano i lacrimoni; invece proseguii nel mio delirio biancoscudato.

Nell’83 partecipai ai festeggiamenti per la promozione in serie B, con una grande squadra ed il portiere sammarinese Claudio Maiani tra i pali! Una soddisfazione che, due anni più tardi, fece il pari con la retrocessione per illecito sportivo, su cui preferisco stendere un velo di silenzio.

Alla fine di quell’anno lasciai il calcio giocato per dedicarmi solo alla canoa olimpica; ogni due domeniche, però, ero sempre presente all’Appiani.

Cambiai nuovamente sport per dedicarmi alla boxe, alcuni anni più tardi, spinto dalle imprese di Mike Tyson e Marvin Hagler che vedevo alla tivù, ma il Padova seguitava ad essere la mia costante passione parallela.

Nel ’91, dopo molti anni di B, il Padova sembrava lanciatissimo verso la promozione in serie A.

Due giorni dopo aver rischiato la vita per una violenta congestione, allo stadio Colbachini, dovuta al consumo di una birra ghiacciata prima di una gara di atletica, potei assistere ad un Padova-Barletta da dentro o fuori, con una vittoria arrivata a tempo scaduto per 4-3. Un’altalena di emozioni che per poco non mi procurò un infarto, a soli vent’anni d’età.

La settimana successiva, raggiunsi lo stadio Porta Elisa di Lucca per l’ultima giornata, contro una squadra che nulla aveva da chiedere alla classifica.

Naturalmente, la Lucchese giocò col coltello fra i denti, negandoci quell’unico punto che ci sarebbe bastato e sconfiggendoci 2-1; da quel giorno, mi vergogno ad ammetterlo, la città di Lucca finì nel mio libro nero.

Due anni dopo, in un Appiani stracolmo, nello stesso giorno in cui una mia deliziosa fidanzatina dai capelli ricci mi spezzava il cuore lasciandomi, il Padova tornava a giocarsi la serie A contro l’Ascoli, in una partita strepitosa che a cinque minuti dalla fine stava perdendo; in un finale da bolgia dantesca, la squadra biancoscudata trovò il pareggio, prima, per poi vincere durante l’ultimo giro di lancette.

Contemporaneamente, nella città di Lucca, però, il Lecce si imponeva per 2 a 1 su una sorprendentemente arrendevole Lucchese, sopravanzandoci di quel punto che valeva la A. Per i salentini.

Saltiamo gli anni successivi, con la promozione in A, lo spareggio con il Genoa che io, vivendo allora in Spagna, seguii al telefono con mia sorella, le tre retrocessioni quasi consecutive, i tristi anni di serie C, per arrivare ad un’altra occasione di serie A, molto più recente. Quella della finale play-off del 2011.

Dopo un’entusiasmante cavalcata finale, in un crescendo di risultati ed emozioni, la squadra giunse a giocarsi la promozione nella finale di ritorno a Novara, in un campo d’erba artificiale.

Un fallo del nostro ultimo difensore ne decretò l’espulsione: occorreva rinunciare ad un attaccante per far posto ad un centrale difensivo di riserva.

La scelta era tra Stephan El Shaarawy, il miglior giocatore biancoscudato degli ultimi vent’anni grazie ai gol del quale il Padova si trovava a lottare per la promozione, e Daniele Vantaggiato, un brindisino perennemente sovrappeso con la mobilità di un pallanuotista. Un pallanuotista nell’acqua.

L’allenatore, un asino di prima categoria, tolse El Shaarawy: il Padova non fu mai pericoloso e perse la serie A.

Due anni dopo il Padova retrocesse anche dalla B e, grazie ad un presidente “gentiluomo” venuto dalla Lombardia, fallì miseramente, per la prima volta in oltre un secolo di vita!

L’anno scorso è ripartito dal campionato dilettanti, vincendolo, ed ora è in Lega Pro, in lotta per un posto nei play-off promozione.

In 106 anni di storia, il Padova ha vinto 1 campionato di serie B ed 1 coppa Italia di serie C.

Non possono essere inseriti nel palmarès un terzo posto in serie A, una finale di Coppa Italia, una finale del torneo Anglo Italiano ed una finale di Coppa Piano Karl Rappan, che non saprei nemmeno spiegare cosa sia.

A dispetto di un nuovo stadio orribile, di decenni di sconfitte e di una scarna bacheca dei trofei, il Padova sopravvive alle tempeste e conta su un numeroso ed instancabile nucleo di innamorati.

Nella forgia della sconfitta, della sofferenza ed al di là dei numeri negativi, comunque, essere tifosi biancoscudati offre ancora un sapore di originalità ed amore della tradizione che i tifosi delle grandi squadre mai proveranno.

Quando, nel giugno del 1994, allo stadio Zini di Cremona, Maurizio Coppola correva verso il nostro settore dopo aver infilato il gol che ci regalava la promozione, non aveva pari l’urlo tra le lacrime del tifoso biancoscudato, che attraversava i decenni, le osterie fumose sul Piovego, gli stadi colmi di gente col cappello, la maglia bianca con lo scudo rosso sul cuore, che noi amiamo di un amore insensato, ma che terminerà solo quando sarà compiuto il nostro tempo su questa terra.

Appiani

Marco Nicolini

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