venerdì , Aprile 19 2024

Raccontami una storia: “L’ideale”

L’ IDEALE

Emanuele Ponziano

 

Ho sempre desiderato avere una famiglia. Sin da quando poco più che bambino adescavo proseliti, per valorizzare e giustificare tale proposito, il mio chiodo fisso è sempre stato: come potrò diventare un buon padre di famiglia? Il mio destino lo prevede di già, oppure sono chiamato io ad espletarlo? Non so dire se si potessero definire ‘naturali’ certi quesiti a quell’età. Da adolescenti passi, è l’età in cui ci si pone interrogativi sui generis ed anche forse più profondi, che spaziano su temi come la scomparsa prematura, il significato dell’esistenza in questo mondo, nell’universo, ma da ancor più giovani, ancora prima di avvicinarsi alla pubertà, mi pare a tutt’oggi una cosa così astrusa e addirittura astrale, che spesso mi capita di meditarci. Fatto sta che la mia aspettativa insieme alla mia ansietà è cresciuta e cresciuta, e che quando mi capita di camminare per strada a testa alta, non mi faccio sfuggire né il lieve tepore del battito di ciglia di una ragazzina, né l’innocente e vitale calpestìo di un bambino sul cemento arroventato di questa città neofita e dormiente, né la gutturale pronuncia di una coppia di tortore in volo. Una famiglia semplice e serena ecco,che non abbia necessità alcuna di rivolgersi dalla finestra del proprio abitato allo spericolato e spettrale mondo visto in vetrina. Che abbia sufficiente amore e dedizione da bastare a se stessa, se non che si tratti di situazioni ed eventi che reclamino un intervento sbrigativo ed immediato, allora sì, ma sempre correlato e pressochè entro i limiti dello stretto nucleo famigliare.

“La forza sta nell’unità” ripeto nel vento articolato a cavallo del mio scooter. Percorro una strada animata, ma tutto sommato scorrevole, quando ad un semaforo con il segnale dell’arancione appena scattato decido di fermarmi. Una coppia con due bambini nelle mani, camminano un tratto di strada del mio opposto senso di marcia. Lei, bruna, alta, con le unghie smaltate e i jeans, ha vicino a sé un bambino che potrebbe avere cinque anni. Lui, moro, in camicia a quadri blu e rossa e con al polso un orologio dai riflessi d’oro, accompagna una bambina di poco più grande del fratellino. Sono stupefatto nell’assistere a quell’incedere aggraziato e pieno di sintomatico ottimismo.

La freccia verde per svoltare a destra è scoccata, e dietro me i clacson cominciano a strillare. Mi mobilito e senza pensarci due volte entro nella stradina parallela, pedonabile e ciclabile, facendo una stretta quanto pirotecnica inversione a ‘U’. Chiarito dove mi trovo spengo il motore e seguo quella famiglia che al momento occupa tutto lo spazio percorribile. Avanzo prima facendo forza e spingendomi con una gamba, poi considerando la  fatica che devo fare, e non volendo attirare su di me troppa attenzione, smonto dal sedile e decido di proseguire trainando lo scooter a due mani. Il discorso tenuto dal bambino sembra essere interessante da come i genitori lo stanno a sentire. Di tanto in tanto la sorella interviene, asserendo a voce alta che non è vero un bel nulla di ciò che lui dice, e i genitori se la ridono accogliendo seneramente lo scambio di opinioni e inserendosi nel dialogo solo con voci e modi carezzevoli. Accelero il passo per starli dietro visto che alla prima svolta che si presenta girano a destra.

“Non credevo fosse così pesante stò mezzo” dico boccheggiando, mentre un passante si volta a guardare prima il motore e poi me come se mi considerasse una specie di ventriloquo.                              “Saranno stati in centro città e adesso vanno a recuperare la macchina” deduco stando attento però a non far vibrare nell’aria nessun altro tipo di suono. Ognuno dei genitori tiene per mano una borsa della spesa che va a  cozzare con l’altra a tempi regolari, mentre con l’altra esterna stringono quella di un figlio.

Dopo qualche secondo di incertezza svolto in quella via, sulla cui targhetta affissa ad un alto palazzo d’epoca leggo: “via degli Acquedotti”. Ora che li osservo con maggiore attenzione, la madre mi sembra avere un portamento prettamente maschile. Sarà per i jeans che le cadono abbondanti sulle scarpe da tennis, l’assenza di protuberanza al petto che ho notato mentre voltavano l’angolo, fatto sta che quando scorgo meglio i suoi lineamenti, rimango stupefatto.

Il suo viso magro, appuntito, con il naso fine ma lungo e una chioma di capelli che si innalza donandole una sorta di audace splendore, emanano un senso di femminilità ed eleganza, che mal si addice al resto del corpo, rigido e senza forme. Il marito coi capelli corti ma folti, e con un ciuffo al centro che tende a scompigliarsi, ha la sua stessa altezza, e il taglio del suo viso diciamo così a ‘campana’, insieme ad un increspamento accentuato delle labbra, fa pensare che nasconda una sorta di sorriso dietro l’angolo. Noto intanto che i miei palmi sulle manopole dello scooter, sono caldi e stanno cominciando ad inumidirsi.

“Ma quanto diavolo lontano hanno parcheggiato?” mi chiedo vedendoli svoltare in un’altra strada questa volta sulla loro destra. La bambina coi capelli lunghi e corvini e le code di cavallo si volta, e per un attimo sembra scorgermi. Io faccio finta di nulla, e ammirando un alto pino al mio fianco, prendo a fischiettare come se ammirassi la cosa più bella al mondo. Li seguo frapponendo fra me e loro una distanza più considerevole. Qualcosa mi dice che potrei cambiare strada, tornarmene indietro, ma per via di una forza misteriosa e ammaliante non bado al mio istinto, seguitando invece nello strascicato e claudicante cammino di cui sono preda. D’improvviso la famigliola si ferma. Salutano un uomo che fa giardinaggio dentro al recinto di casa sua e che, avvicinandosi alla ringhiera per salutarli, trasporta con sé un vaso di notevoli proporzioni. Rallento notevolmente il passo fino quasi a fermarmi. I bambini trotterellano su e giù e giocano, la coppia discute del tempo e di chissà cos’altro, mentre il signore dai capelli e barba bianchi ascolta e appoggia un vaso e poi un’altro nel luogo dove brillano con maggiore intensità i raggi solari. Mi fermo del tutto e mi nascondo dietro un’auto parcheggiata. Poggio lo scooter sul cavalletto centrale e mi ci siedo sopra. C’è ombra, ed anche se siamo a primavera inoltrata, il venticello della mattina è ancora pungente.

“Felicia, non allontanarti” grida la madre alla bambina, che saltellando e strisciando le dita nelle ringhiere delle abitazioni ha ormai raggiunto il punto in cui mi trovo. A quel richiamo però si volta, e con un leggero disappunto che le si dipinge in viso, torna sui suoi passi. Il fratellino che intanto è corso per redarguirla, la segue cercando di afferrarla.                             “Abitano qui nelle vicinanze” affermo senza più alcuna esitazione.  Riprendono il cammino, non prima però di aver salutato affabilmente e con una certa dose di riconoscenza quel signore. Mi accorgo prima che io possa spingere di nuovo in avanti lo scooter che il loro vagare è giunto al termine. Abitano in una casa a pochi passi, quasi di fronte a quella dell’amico. Mi viene voglia di mettere in moto e dare un’ultima sbirciata volante; ma l’uomo dei vasi ha girato l’angolo della sua abitazione e sembrerebbe orientato ad occuparsi di tutt’altre faccende, mentre la famiglia fa il suo ingresso rumorosamente dalla porticina del suo giardino, sbattendola dietro con leggiadria.

“Lascio parcheggiato il bolide qui e vado a curiosare” decido con fermezza. “Giusto per sapere com’è la loro casa, in quale atmosfera vivono e di cosa potrebbero  occuparsi.” Chiudo a chiave bloccando lo sterzo e scendo con un balzo in avanti. Per non perderli di vista ogni tanto azzardo un passo frettoloso come se ricevessi da dietro le gambe una leggera scossa. Passo davanti la prima casa alla mia sinistra: di quel signore non c’è traccia.

Avverto delle voci rimbombare dentro a quello che dovrebbe trattarsi di un atrio o di un pianerottolo, e poi quella di una porta che si chiude pesantemente. Mi si para dinnanzi una bella villetta a due piani color panna, con gli infissi bianchi e le inferriate verdi fissate al muro con dei ripiegamenti alla base a pochi millimetri dai davanzali. Noto che si tratta di sbarre abbastanza distanziate fra loro, e che quindi potrei ficcarci oltre al naso anche le braccia solo se volessi.

Le luci si accendono all’interno pur se è giorno: da quella parte il sole non è ancora arrivato, e il piano basso poi con quelle coperture alle finestre non aiutano di certo a far scivolare dentro sufficiente luce. La cancellata color ruggine è zincata e per niente alta, e le sue cime sono arrotondate come quelle di un tasso. Gioco da bambini scavalcarla. Metto piede su suolo altrui e sento la mia curiosità accrescere. Un rumore dall’altro lato spegne però in me quella cieca fiducia, e in un battibaleno prima di accorgermi cosa stia davvero accadendo, mi nascondo dietro a un cespuglio piantato nella striscia di giardino che circonda la casa. Dalle fitte fronde il mio sguardo penetra e intravede l’uomo in camicia di stoffa grossolana ma di raffinata fattura, dirigersi verso quella porta dalla quale poco prima il resto della famiglia si è congedata, accompagnato da un tonfo, quella della basculante di un garage che si distende raggiungendo col battente il livello del pavimento. Con le mani infilate nelle tasche dei suoi pantaloni marroncini lisci, quello tira fuori un mazzo di chiavi e, chinandosi di poco a lato, cerca di infilarla nella serratura; ma prima di scomparire al di là di quella che a me dalla posizione in cui mi trovo pare essere una cinta muraria, si volta verso di me.

Non mi sono mosso, è impossibile che abbia notato o sentito qualcosa. Eppure interrompe la sua marcia per restarsene lì a fissare il cespuglio col quale mi sono incappucciato. Abbasso lo sguardo con l’intento che la sensazione che io lo stia osservando cessi all’istante. Mi guardo i piedi con le punte ravvicinate che sembrano squadrarsi e sussurrare: “ma che ci facciamo qui?” mentre quello si avvicina, lo avverto dai passi dei suoi mocassini con la suola di carroarmato battente. Che scorga i miei piedi dal di sotto? No, sono ben nascosti e hanno il colore della terra. Che abbia intravisto un onda artificiosa in questa deliziosa vegetazione, il blu cobalto della mia maglia ad esempio, o il blu slavato dei miei jeans? Chiudo gli occhi con la volontà di sotterrarmi quando i suoi passi si fanno sonori e ravvicinati; alzo piano il capo e facendo meno rumore possibile li riapro. Si è chinato ad osservare una pianta, scostata dalla striscia verde solo di mezzo metro. Liscia le foglie testandole, poi solleva il vaso e osserva se sotto al piattino ci sia abbastanza acqua.

Dietro me avverto un bisbiglio. Non ho la forza di girarmi né la lucidità di discernere di che si tratti. Quel tipo intanto a fianco a me – dove la radice di quella barriera verde ha inizio, tanto che lo posso osservare di lato – continua, girandomi le spalle, a verificare chissà quale diavolo di andamento e processo di sintesi clorofilliana le sue piante hanno messo in atto. Un risuono acuto di voce non può questa volta che destarmi e attirare sia la mia attenzione che quella dell’uomo.

Gira il collo di lato, ma fortunatamente ritrae lo sguardo senza dire nulla. Piano allora mi volto, e mi accorgo che c’è un signore in impermeabile verde con lo sguardo rivolto all’insù che dice una parola ad una signora che in tutta fretta si è affacciata al balcone, e che sembra ripetergli per l’ennesima volta cosa deve comprare. Basterebbe un sussulto, un mio movimento azzardato anche se breve che quei due potrebbero scoprirmi. La donna in particolare dall’alto che ha una visione d’insieme più estesa, potrebbe sorprendermi facilmente; per fortuna si china per raccogliere uno straccio che l’è cascato e rientra dentro con urgenza. L’altro esce invece dalla cancellata senza dare alcun segno di avermi visto, e solo quando passa dalla strada, dando le prime fiacche pedalate alla bicicletta, alza la mano in segno di saluto. Il proprietario della casa contraccambia ma alla svelta. Porto la schiena in avanti affinchè lo zaino non pigi più a quel modo sulla ringhiera e cerco di scansarmi di lato come fossi un granchio su di una spiaggia accidentata .

Voglio confondermi completamente in mezzo a quel verde, così che occhio umano non possa pizzicarmi. Ad ogni mio passo lo zaino striscia dietro senza che io possa evitarlo, altrimenti rischierei di smuovere il cespuglio e attirare l’occhio vigile del botanico. Intanto lui continua a controllare minuziosamente i suoi preziosi oggetti, e credo che con questo voglia comunicare a chiunque e forse anche a sé stesso, che si tratti del suo territorio.

‘Guarda un po’ che mi tocca fare. Sono venuto qui in pace e invece mi sembra di preparare un assalto mimetico in miniatura!’ Noto che per arrivare in fondo al muretto non manca molto, solo una manciata di passetti. Giunto all’angolo però mi accorgo che la vegetazione seguita fitta. ‘Non è che dovrò circuire tutto il perimetro della casa?’ mi chiedo col sudore e l’ansia che intanto sgorgano copiosi. Degli strani rumori mi raddrizzano gli orecchi: il buon padre di famiglia si è mosso ed ha azionato la basculante.

“E’ il momento!” Mi infilo a fatica fra i cespugli facendomi largo fra i rami che mi segnano mani, gomiti e gambe. Sono quasi uscito che sento dietro alle spalle qualcosa trattenermi. Cerco di divincolarmi ma senza nessun risultato. In posizione obliqua, come se dovessi passare per gioco sotto un’asta molto bassa, mi stendo e sciolgo il legame con le maniglie, poi tiro con forza lo zaino strappandolo dalla morsa di quelle specie di dita arcuate. Mi alzo e mi affaccio alla prima finestra che trovo, dove devo tirarmi su sulle punte e farmi forza con gli avambracci sul  davanzale. L’inferriata però mi impedisce oltre che ai movimenti anche lo scrutamento all’interno.

Mi sposto allora verso l’altro buco, dove spero la panoramica sia più allettante, ma pure qui intravedo a malapena la cucina senza che possa riconoscere anima viva. Provo al terzo e ultimo spiraglio di quella parete che di colpo mi appare un espugnabile fortezza, e già prima di giungervi considero tuttavia che la fortuna stia dalla mia parte. Un’anta della finestra è socchiusa. Intendo prima voci e strepitii, poi anche dialoghi ed esclamazioni. Mi tiro su in alto e avvicino occhio e orecchio sinistri per entrare meglio in rapporto con ciò che sta accadendo là dentro. La madre è affaccendata e prepara quella che apparirebbe a tutti gli effetti una colazione assortita, un brunch lo definirei visto che ci sono uove alla cock dentro alcuni tipici contenitori, e affettato di colore chiaro, e dei dolci, un pacchetto di biscotti, e ancora delle tazze fumanti che date le circostanze e dal limone riverso nei piattini, immagino sia tè. I due bambini sono seduti. Lei gioca con un telefonino dondolando i piedi su di uno sgabello, lui sgranocchia invece qualche biscotto e fa leva sul cucchiaino dentro la zuccheriera.

“Paolo, non mangiare senza che ci siamo accomodati tutti a tavola,” asserisce la madre che intanto aggiunge sul tavolo altre pietanze. Alla sua venuta mi discosto dalla fessura aperta per non rischiare di farmi scorgere. Una volta che se ne va in cucina, il bambino che non sa che altro fare, inizia a stuzzicare la sorella. Tenta di prenderle il cellulare, non riuscendoci prova a colpirla più volte allungandosi con le mani.

“Mamma, Paolo mi picchia!” esclama mugulando e spostandosi con lo sgabello più lontano che può da quel manesco.

“Lascia stare Felicia!” Paolo sbuffa e abbassa il capo sempre più frustrato. Si rimette quindi a giocare col cucchiaino, facendolo penzolare a due mani e cercando di tenerlo sospeso e in equilibrio. Oramai la scena famigliare è così vivida che decido di sospingere quel poco la finestra affinchè riesca a perlustrare meglio i contorni ed il resto della casa. ‘Ooh, ora mi sento più addentro e più coinvolto’ sentenzio col cipiglio soddisfatto. D’un tratto un cigolio di ferraglia mi fa sussultare. Mi volto di riflesso, ma non è lì che devo cercare. Davanti a me una fetta di luce come quella dorata di torta alle mele riposta sul tavolo ma molto più grossa, mi inonda le iridi. E’ il babbo che è rientrato, ed io di lui me ne ero completamente scordato. Fa per raggiungere i figli ma ci ripensa. Batte le mani e indietreggia alla maniera di Michael Jackson suscitando ilarità nel cuore dei bambini e sparisce sotto ai cardini di una porta. La madre di ritorno porta con sé un cesto con del pane che dal vapore e dal profumo che emana pare tostato; poi con una velocità che non ti aspetti requisisce il telefonino dalle mani della bambina impossessandosene. A Felicia non rimane che esclamare qualcosa che le si strozza in gola, facendosi cadere il viso corrucciato sui palmi delle mani.

“Questo è il mio!” la redarguisce la madre. “Per te è ancora presto.” Paolo si mette a ridere e la prende in giro. Lei offesa gli fa le boccaccie. Lui la imita e alternativamente cercano di superarsi facendone sempre di peggiori.

“Come ve lo devo dire che in tavola si sta composti!” accorre la madre che rifila una piccola botta sulle mani della figlia che esclama “Hai!”, ritirandole come si fosse scottata. ‘Stì bambini che hanno sempre voglia di scherzare’ penso trattenendo le risa. Intanto Paolo con una perizia che farebbe invidia a uno stratega, calcola la distanza fra lui e Felicia e la traettoria che lo zuccherino dovrà percorrere se catapultato dal suo cucchiaio. Esegue il lancio e l’oggetto bianco e quadrato va a impattare con successo sulla sua camicetta. Lei furiosa lo afferra e glielo tira indietro con forza colpendolo di striscio. Paolo si rimette a sghignazzare, poi di nascosto, senza che neppure la sorella veda, pesca dal pacchetto un biscotto che si mette dietro alla schiena. A quel punto torna il padre brioso che si frega le mani. “Le avete già lavate le mani, bambini?” chiede sorridendo. “Sììì” rispondono in coro i due. Felicia in realtà sa che suo fratello non l’ha fatto, ma non ne ha voglia e preferisce non dire niente. Il padre presa la tazza beve un sorso, poi col dito scorre veloce sullo schermo del suo telefono.

“Sento parlare spesso di questa struttura” dice continuando a bere dalla tazza a intermittenza soffiandoci sopra. “E’ una scuola speciale che molti dei miei amici mi raccomandano. Ne hai sentito per caso parlare Luana?” domanda rivolgendosi alla moglie.

“No. Di che si tratta?”

“Beh, accettano bimbi sin dalla tenera età. Si parte dall’asilo fino ad arrivare alla terza media. Il vantaggio, oltre che a una schiera di insegnanti capaci e preparati, è che i nostri bambini non devono cambiare istituto, così che hanno modo di mettere radici e farsi veri amici, e per noi diventa comodo andarli a prendere, visto che si trova qui a due passi. Fra l’altro gli insegnanti hanno modo di conoscerli in profondità, così che sotto la loro guida maestra e consenziente avranno poi modo di modellarli ed esercitare su loro la giusta pressione e i giusti stimoli per farli avanzare nella vita.”

“Chissà quanti soldi esigeranno…”

“Non è il caso nostro. Gilberto e Agostino i miei amici che conosci, si sono informati e devono, poveri loro, sborsare un mucchio di quattrini…e cosa pensi tu che non lo facciano? Che si tirino indietro? Vedrai, vedrai, l’educazione dei figli non ha prezzo. Comunque non è detto lo stesso che la loro richiesta venga accettata. Ma noi, con le spese a cui dobbiamo fare fronte avendone due di bambini, e le tasse che paghiamo…in questo paese più sei una famiglia e più vieni tartassato…e sono un libero professionista e tu al momento sei casalinga… già per questo ci considerano primi della lista. L’altro requisito che richiedono al fine di agevolare i meno facoltosi e bilanciare così nell’istituto lo status degli aventi diritto, è di avere un reddito inferiore ai venticinque mila euro annui: ed ecco che ricadiamo in tutti i requisiti richiesti.”

“Mi sembra super” enfatizza la donna  con un perfetto accento inglese prendendo in fine la sua tazza. “Hey” di colpo grida  a Paolo che preso dalla noia si è messo a masticare a bocca aperta.

“Cosa ti avevo detto? Sei il solito bambino disobbediente!”

Paolo, rimasto con la bocca mezza piena, non si trattiene e scoppia in lacrime sputando sulla tavola ciò che non del tutto macinato gli era rimasto.

“Che schifo” strilla Felicia alzando le braccia inorridita. I due genitori sbalorditi si alzano in piedi.

“Oliviero, vai a prendere una spugna” gli ordina mentre lei con un fazzoletto pulisce bocca e occhi del figlio. Mordendosi le mani Oliviero scompare di scena.

“Non devi farci arrabbiare, lo vedi cosa succede?” gli confida dolcemente la madre interrompendo il suo pianto con numerose carezze. Sistemati di nuovo a tavola, il buon umore sembra aver ritrovato di nuovo la porta di casa. Il padre fa un osservazione a Felicia e se la ride, la madre racconta che quel pomeriggio sarebbe andata dalla sarta a far rammendare un vestito e di quanto trovi quella tronfia e pignola ma quanto in compenso sia davvero brava, Paolo invece è riuscito a ripescare l’appetito che aveva perduto e Felicia beve il suo tè. Sì, lei non fa altro che bere il tè e fissare il vapore che ne esce fuori dalla tazza.

“Padre, io in quella scuola speciale non ci voglio andare!” e sbatte la tazza forte sul tavolo, rovesciandone il contenuto nero e bollente. La raggiunge un ceffone lanciato di slancio. Oliviero le ha colpito la guancia a lui più lontana e l’impatto, credo io, dev’essere stato piuttosto doloroso. Lei rimane in silenzio e sconvolta con la guancia che col tempo alla mia vista rassomiglia sempre più alla buccia di un pomodoro. Poi erompe in un pianto esagerato che va a coprire ogni cosa, perfino le urla scomposte del babbo. A me non so che stia accadendo, non lo saprei dire, ma con le mani strette strette alle sbarre dell’inferriata mi agito e tremo e d’improvviso senza che me ne renda conto viro un colpo al vetro della finestra con virulenza. Sento un grido, poi un secondo. Fisso con occhi sbarrati quel nucleo famigliare divenuto in breve nella mia coscienza una cerchia di componenti nauseante, e faccio loro l’unica cosa che in quell’istante mi venga da fare: una linguaccia bella e buona con tutta quella che ho in corpo. Vedo il padre scattare verso la porta.

Sto per farlo anch’io ma, in un momento di ritrovata lucidità, attendo. Lo sbatter di pugni e imprecazioni e di strusciar di pantaloni, mi fa intendere che quello stia accorrendo dal lato della casa da dove mi ero intruffolato. Scatto al lato opposto e di corsa, e prima che quell’altro se ne renda conto, arrivo al cancellino che scavalco con agilità. Sono in corsa mentre vedo uscire di fuori la moglie che grida ‘Eccolo, eccolo’ e lui come un forsennato giunge e tenta di trovare la chiave giusta e sbraita ai bambini di aprirgli il cancello dal citofono. Voglio raggiungere lo scooter e trarmi in salvo da quell’inferno, ma la mia faccia si ritrova spiaccicata contro un oggetto simile a un palo della luce.

“Tienilo, tienilo” urla Oliviero con tutto il fiato che ha in gola. E’ il corpo lungo e nervoso del vecchio, che poi così vecchio non mi pare più, che mi cinge con una stretta l’orecchio e grida: “Cos’ha combinato, ha suonato il campanello ed è fuggito?”

“Non fartelo scappare!” La stretta a quell’incitamento si fa tremenda.

“Io…io, non ho fatto niente” imploro agitando le braccia per discolparmi e non arrivando neanche lontanamente a sfiorare quello spilungone. Il mazzo di chiavi intanto risuona, sia nel tentativo di Oliviero di aprire la serratura e poi per essergli cadute a terra; ma l’impulso elettrico non tarda ad arrivare. Uscito dal cancello mi appare una bestia inferocita.

“Signore, volevo solo vedere che bella famiglia potevate essere…vi ho seguito perché sa mi manca terribilmente compagnia…e non ho saputo resistere…ho solo spiato dalla finestra, nient’altro, glielo giuro.”

“ Luana! Fa il numero della polizia!”

Sentendo quella combinazione di parole, la pronuncia con la quale sono state composte, quei numeri invadenti e ripetitivi che assalgono e rimbombano nelle mie tempie sudate, procedo con la forza della disperazione: scalcio come fossi un pony selvatico all’indietro, uno-due volte, cogliendo lo stinco dello spilungone. Avverto quell’ esclamazione di dolore che non proviene più da me e dimenandomi mi libero dalla morsa e corro verso il motore, prima che Oliviero mi possa agguantare. Il tempo di infilare la chiave con destrezza, spingerlo e accenderlo ed ecco che fuggo dalle grinfie di quel buon padre di famiglia che tenta in fondo di proteggere la sua prole.

“Buon figlio di puttana” sbraito accelarando, con il vento che mi appiattisce i capelli in fronte e le ingiurie che mi piovono da dietro.  Raggiungo la parallela della strada che avrei dovuto proseguire sin dall’inizio, ma non do la precedenza e mi infilo come provenissi da un pit-stop. Una brusca frenata avviene dietro di me, senza che io quasi me ne accorga, e che in fin dei conti non desta in me interesse alcuno. Una sgommata improvvisa però ridesta la mia preoccupazione. Questa volta scruto dallo specchietto un fuoristrada nero venire a tutta velocità verso di me. Tiro ancor più la manopola dell’acceleratore e abbasso la schiena per raggiungere l’incrocio col semaforo che segna verde. Ci sono quasi. Scatta ora l’arancione, mi trovo a dieci metri, dai che ce la faccio. Scatta il segnale rosso e passo con il ginocchio che sfiora l’asfalto, avendo svoltato la prima strada percorribile a sinistra. I clacson delle macchine che stanno per partire suonano all’impazzata, ma con mia somma sorpresa constato che non è dovuto alla mia di acrobazia bensì a quella del mio inseguitore: le gomme gli fischiano, il rombo del motore a diesel che tira è al massimo dei giri e borbotta. E’ veloce, e lo spazio che ci separa viene riempito in un attimo.

Un ragazzo della mia età, sceso il finestrino mi intima di arrestare; l’adulto che guida con dei leggeri colpetti al volante avvicina il muso dell’auto alle mie gambe. Un finestrino scende anche dal retro dell’auto e si affaccia un bambino dagli occhi brillanti e la lingua di fuori che cerca di capire cosa significhi quell’improvvisa corsa a zig-zag. Davanti intanto la strada si restringe per via di uno spartitraffico. Piego leggermente a destra e con la gomma più in linea che posso scavalco il marciapiede tirando più che posso il collo del manubrio, facendo ammortizzare il motore sul terreno. ‘Son davvero forti le forcelle di stò destriero’ penso rincuorato. Alzo il dito medio e le urla che fuoriescono dai finestrini non mi disturbano. Mi infilo dentro al parco e sgaiottolo via.

“A pensarci bene in sintonia com’erano, di sicuro sono padre e figlio quei due.” La figura del bambino con il moccio al naso affacciato al finestrino che mi guarda fuggire e nota un gesto che forse è la prima volta che  vede o per lo meno che gli sia stato rivolto, mi fa scoppiare in una sonora risata. Si son fatte le dieci meno cinque, e nonostante che entri con due ore di ritardo sarò lo stesso ancora in ritardo. ‘Tanto meglio, così quella stronza di inglese che mi voleva interrogare non mi vedrà e se la piglia in quel posto. Garantito.’ E’ sabato, e nelle narici sento quella fragranza di entusiastica attesa della sera e i colori e le forme della città acquisiscono tratti che concettualmente non saprei spiegare, ma che mi riempiono gli occhi e l’animo. La fronte si è asciugata e il desiderio di vedere i miei amici mi incita a far presto.

La scuola è stata costruita di recente e così com’è, bianca e verde con gli infissi rossi, mi da più l’idea di essere stata progettata per essere un ospedale psichiatrico. Parcheggio lo scooter distante dall’ingresso, dato che ogni spazio anche non consentito è già stato occupato, e con lo zaino sempre in spalla mi avvio. Noto però prima che faccia il mio ingresso, che proprio a fianco nel campo di basket, c’è qualcuno che sta ancora bighellonando e spero tanto sia un compagno di classe che tira le ultime boccate alla sigaretta. Mi avvicino e capisco che non sta proprio così: due di terza se la stanno prendendo con uno di prima.

“Uè! Smettetela voi due!” Quelli neanche si voltano e continuano a far ruzzolare a terra il ragazzo. Accorro e con lo zaino nelle mani e il fiatone dico: “Basta raga, non vedete che non ce la fa più?” I due ora mi guardano e pur conoscendomi di vista mi ordinano di farmi gli affari miei, se non voglio cacciarmi anch’io in guai seri. Con calma poggio lo zaino e mi presento davanti a loro con lo sguardo ritto. Si fermano dal prendere a calci quello a terra.

“Non hai sentito quello che ti ho detto? Fila che sei ancora in tempo, Mariolino…”mi sbeffeggia quello più grosso col chiodo e le cuffie bianche collegate al telefonino che ha in tasca.

“E’ così che si chiama?” chiede sghignazzando l’amico.

Non ci penso due volte, li vado incontro facendo finta di alzare le mani per scusarmi e patteggiare e invece rifilo un pugno sull’orecchio al ragazzo vestito di pelle nera il più spedito che posso. Questo si mette ad urlare cadendo sulle ginocchia. Non appena riesce di nuovo a mettersi in piedi, gli salto addosso sulle spalle e lo stringo alla gola. Il suo amico mingherlino e ben acconciato cerca di colpirmi e tirarmi giù senza riuscirci. La seconda campanella intanto risuona. Il ragazzo a terra decide che è giunto il momento, e tiratosi su zoppicante se ne va via più alla svelta che può. Io attaccato come una ventosa al collo di quello sto roteando a mulinello, e coi piedi allontano quell’altro che ha paura e fatica ad avvicinarmisi. Ben presto però il gioco finisce: mi sento prendere per il colletto del giubbotto da uno più lesto dello striminzito e più tosto di quel fantoccio e precipito al suolo per poi venire trascinato, e poi…

“Marioo! Mario è pronto!” Tiro fuori dal cassetto della scrivania una busta già stata aperta e la soppeso fra i palmi delle mani. Noto che fuori il tramonto si è spento e la sera col suo getto d’inchiostro sta riempendo ogni buco. Sfilo la lettera e la spiego per la quarta volta.

Gent.mi Sig.ri Mario Padovani e Sig.ra Caterina Sasso, sono spiacente nell’avvisarvi che vostro figlio Mattia, si è reso reo di un atto particolarmente spiacevole e violento. Ha aggredito due alunni della terza classe, provocandogli diverse e non lievi ferite, in particolare ad uno di essi. Nonostante la sua azione sia stata sollecitata dall’assistere ad un atto di bullismo da parte di… con la collaborazione di un complice…, nulla toglie che vostro figlio non sarebbe dovuto intervenire perché…bla bla… e così facendo può aver innescato un meccanismo dalle conseguenze oscure, che gli si potrebbero ritorcersi contro in futuro…bla bla…e aver peggiorato suo malgrado la situazione nei confronti dell’alunno di prima…  L’ideale sarebbe stato attendere l’intervento del bidello come poi in pratica è avvenuto…Per questi motivi dal giorno di lunedì 15.01  a mercoledì 17.01 compreso, vostro figlio Mattia non potrà partecipare alle normali lezioni scolastiche perché sospeso…Per tanto siete convocati…bla bla bla…

“Mario! Arrivi sì o no? Ragazzi andate a lavarvi le mani, forza.”

Ripongo la lettera ben piegata ma ormai sdrucita entro la busta e mi alzo. Ogni cosa è al suo posto. La tavola è apparecchiata e un profumo intenso di brodo di non so cosa, esce fumante dalla pirofila. I ragazzi sono seduti e fanno a gara a chi maneggia più destramente i pochi grissini rimasti nel cestino, tenendoli in equilibrio sulle dita.

“Alla fine sei riuscito a sbucare dal tuo studio” mi dice con un riso forzato Caterina. “Che poi che studio esattamente tu faccia, ancora non l’ho capito.” Sono contento. Mi siedo e guardo in viso Mattia. Lui non sa cosa sia meglio fare e mi evita abbassando lo sguardo. Si rivolge sommessamente a Davide cercando in lui forse un po’ di comprensione. Vorrei dirgli che lo capisco, che in fondo sono fiero di lui, che è capitato a tutti trovarsi in simili situazioni, e che tutto sommato non si può parlare di colpa, ma di responsabiltà, e dato che è tale la si può imparare a gestire, facendo propria la lezione, sospensione compresa.

Vorrei ridurgli la punizione che io e Caterina gli abbiamo inflitto, dopo tutto la sospensione è, e sarebbe stata sufficiente, ma non è così che funziona, è giusto che accetti la nostra autorevolezza e che senta la nostra presenza, se non a fianco per lo meno di fronte e vicino a lui. Ma tutto questo non sono in grado di dirglielo. Spero che il messaggio possa arrivargli ugualmente, che dal mio sguardo, dal mio portamento capisca, e che un giorno ricordando quest’episodio possa dire sorridendo: “I miei mi hanno aiutato a comprendere.” Spero solo sia così. Sarebbe l’ideale.

 

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