venerdì , Aprile 26 2024

Raccontami una storia: “Avelùt”

AVELÙT

di Valentina Belgrado

Ruben non era mai stato a un funerale prima che sua nonna se ne andasse.

I suoi genitori si erano illusi di riuscire a tutelarlo per sempre, evitandogli di farlo scontrare con gli avvenimenti tragici dell’esistenza ma questo non era possibile e, ben presto, se n’era reso conto anche lui.

Precisamente dieci mesi prima della morte di nonna Ada, il suo adorato coniglietto Nathaniel, schizzato fuori dalla recinzione arborea del giardino di casa, era stato investito da una moto, una Suzuki grigia scura e cangiante, dello stesso colore del coniglio: per questo, da principio, Ruben non aveva compreso bene cosa fosse successo.

Un pezzo del telaio laterale del veicolo si era staccato e aveva drammaticamente trafitto il suo amico di pelliccia, proprio all’altezza del cuore: quel tenero cuoricino già di per sé perennemente atterrito e in allarme, che pulsava forte tra le sue mani ogni volta che lo prelevava dalla cassetta di legno o dalla tana scavata in un angolo del giardino, per trasferirlo altrove. In quell’occasione, i suoi genitori non erano riusciti a proteggere Ruben, perché si trovava proprio di là dalla siepe di bosso, lunga tutto il perimetro del giardino, e aveva assistito alla dinamica dell’incidente affacciandosi tra le foglie.

Dopo l’impatto, il motociclista era sceso quasi subito ma non si era tolto neppure il casco: aveva alzato solo la visiera, e l’impressione del ragazzino fu che si fosse avvicinato al cadavere del suo migliore amico più per verificare l’entità del danno riportato dalla moto che per escludere che questa ne avesse arrecato uno a un essere vivente.

La morte della nonna non colse, quindi, Ruben impreparato. Tanto più che nonna Ada, benché fosse «di tempra forte», come ripeteva la sua mamma più o meno a chiunque si accostasse a lei per informarsi sulle condizioni di salute della madre, si era andata di anno in anno logorando nell’aspetto: un’oscura consunzione messa in opera al suo interno da un’entità malvagia e insidiosa, di quelle che popolavano ancora i sogni a occhi aperti del nipote undicenne, annidandosi nei due ripostigli di casa, dentro gli armadi, negli interstizi tra i mobili ma anche nei pori della pelle o nei padiglioni delle orecchie. Ogni orifizio, per Ruben, poteva essere ricettacolo di questa misteriosa e indefinibile presenza cui lui, però, aveva assegnato un nome ben preciso che risaliva certamente alle sue ascendenze ebraiche: Dybbuqù (1).

Il Dybbuq lo seguì anche quel giorno e, durante la sepoltura, si infilò nella bara insieme a nonna Ada, subito prima che venissero serrate elettricamente le viti con quel ronzio circolarmente insopportabile, che aveva qualcosa di definitivo e di eterno insieme.

Poi, il Dybbuq fu calato giù tramite le funi sulle quali gravava inesorabile il peso della cassa.

Purtroppo per Ruben, però, non restò sottoterra insieme alla nonna, ma uscì da una piccola screpolatura del legno in larice (la nonna aveva fatto in vita, della sobrietà, una cifra stilistica che volle coerentemente mantenere fino alla fine, e oltre), proprio quando la vanga carica di sabbia e brecciolino veniva faticosamente sollevata per tre volte dalle esili braccia del ragazzino per rovesciarsi pigramente, subito dopo, sulla buca rettangolare.

 

In quel frangente, il Rabbino recitava in ebraico un passo tratto dal Libro di Isaia, la cui traduzione era più o meno questa:

«Il Signore ti guiderà continuamente e sazierà l’anima tua nelle arsure, rafforzerà le tue membra e sarai come un orto irrigato e come una sorgente la cui acqua non manca mai».

E Ruben cercava di stargli appresso per ripetere, parola dopo parola, questa formula, in una liturgia che non aveva mai padroneggiato ma che, tuttavia, gli era confidenzialmente familiare. Allora, si ricordò della «usanza del viandante», che gli aveva spiegato sua cugina, e gettò nella fossa i tre sassolini raccolti prima di entrare al cimitero, lungo la strada che aveva percorso a piedi: uno da parte della mamma, che era sicuramente troppo frastornata dal dolore per ricordarsene; uno per il papà, che se ne stava in disparte, come se fosse stato tradito da quella suocera poco ingombrante in vita e già orrendamente assente da morta; e uno da parte sua. Ma il suo, di sassolino, fu lanciato con una veemenza tale da farlo rimbalzare sul cumulo di terra umida, o forse su un altro sasso che stava là dentro, ed eiettare fuori di nuovo dalla fossa, insieme al Dybbuq.

A zio Salomone, il fratello di poco maggiore di nonna Ada, avevano dovuto sistemare una sedia, procurata sul momento dal custode del cimitero.

Siccome non camminava bene, per un difetto all’anca destra che aveva da sempre ma che si era certamente accentuato in vecchiaia, il suo incedere claudicante, insieme alla costernazione per la perdita dell’adorata sorella, lo aveva reso ancor più instabile, tanto da far paventare ai presenti, quelli più lucidi almeno, che di lì a poco avrebbe seguìto la nonna, e non metaforicamente. Tutti temevano, cioè, che potesse cascare da un istante all’altro nella fossa, appresso alla sorella: per questo gli misero la sedia. Ma zio Salomone era inquieto, e seduto non ci voleva stare. Lo si percepiva dal suo pencolare tra i due braccioli, con movimenti appena accennati del bacino (visto che, grosso com’era, occupava per intero la seduta), e dal suo sporgersi con curiosità sulla buca, neanche fosse stato il Pozzo di San Patrizio.

Dopo il Qaddish (2), Ruben fu preso in disparte da zia Ariela che gli raccomandò sottovoce di «fare l’ometto», sostituendosi alla mamma nelle faccende di casa: faccende che le sue due figlie, Leà e Ada (come la nonna), avevano già cominciato a svolgere da tempo. Ma si capiva che lui non sarebbe stato all’altezza delle cugine, sia per l’età che per il genere di appartenenza. Tuttavia, in ottemperanza alle parole della zia, si avvicinò subito alla mamma e le sfiorò con dolcezza il polso destro, con l’intento protettivo di accompagnarla fuori dal tourbillon di abbracci e strette di mano, ma non poté evitare di piantare impudentemente gli occhi grigi su un angolo di carne del suo seno sinistro, lasciato scoperto dal brandello ciondolante della sottoveste, lacerata in quel punto dal Rabbino (3).

Finita la funzione, la mamma di Ruben domandò al Chazzan (4)se era possibile dire una piccola berakà (5) anche sulla tomba di suo padre, Isacco Modena, che era morto ad appena cinquant’anni, quando il nipotino non era neppure nell’anticamera progettuale di Dio. Ma il Chazzan le rispose alquanto seccato che la richiesta non poteva in alcun modo essere presa in considerazione, dal momento che erano tutti lì per la defunta e che la celebrazione dell’Avelùt (6)escludeva, per sua stessa definizione, qualunque altra preghiera commemorativa: come lei, del resto, avrebbe dovuto sapere chiamandosi Anodea. In effetti anì yodea, in ebraico, vuol dire «io so», e Ruben conosceva il suo significato grazie a una canzone tradizionale di Pesach (7), che veniva intonata per due sere consecutive all’anno dai commensali presenti al Sèder (8), al termine della lettura dell’Haggadà (9).

 

«Non sederti lì!»

«Perché?»

«Quelle sono le sedie per mamma e zia!»

«Credevo fosse un futon giapponese…»

A Emanuele venne quasi da sorridere, un risolino trattenuto ma a suo modo liberatorio.

«Hai ragione… non potevi sapere, per te è la prima volta».

«Che significa, papà?»

«Mamma e zia Ariela stanno iniziando la Shivà (10). È una settimana di lutto stretto, durante la quale non possono mangiare insieme a noi. O meglio, possono nella stessa stanza nostra, ma non alla nostra altezza. Staranno un po’ defilate, ecco».

Ruben mugugnò ma sottovoce, e né il padre né gli altri presenti lo sentirono, perché la sala da pranzo era pervasa da un brusio ininterrotto e indistinguibile.

La tavola era già imbandita di tutto punto.

Siccome la famiglia di Isacco aveva remote origini ashkenazite (11), che si erano tramandate soprattutto gastronomicamente, le pietanze cucinate da zia Ariela e da zio Abel, il suo sposo italo-americano (padre delle due zelanti cugine maggiori di Ruben), erano in prevalenza ricette polacche o ungheresi: il gefillte fish, col suo inconfondibile retrogusto dolciastro di carpa ripulita dalla fanghiglia lacustre. Questo pesce, dalla lunga pinna dorsale e dalla livrea bronzea, era stato diligentemente accorpato al caratteristico composto di cipolle, carote e zucchero e guarnito con salsa di cren, la radice di rafano ridotta in poltiglia e aromatizzata con aceto, mela e, a sua volta, zucchero; lo tzimmes di prugne, uno strano connubio tra un primo e un dessert, costituito da una specie di tagliatella detta farfel, sovrastata da prugne e miele, e cotta prima al forno e poi in tegame; i pfulden, sfoglie tra loro sovrapposte e intervallate da spessi strati di mandorle, noci, marmellata e uvetta che, in ultimo, assumevano la forma ─ e, con ogni probabilità, anche il peso specifico ─ di una mattonella; la challà, il pane a forma di treccia, conosciuto dalle donne ebree di ogni latitudine e preparato il venerdì, per la vigilia dello Shabbat (12); lo strudel di verza, arricchito con noci tritate e cannella; il pâté di aringhe, i cui ingredienti eterogenei erano stati assemblati con largo anticipo per produrre una fusione di sapori pressoché perfetta; e, infine, i latkes dolci, frittelle di patate con la granella di zucchero sopra, venerate da tutti i bambini, più o meno cresciuti.

Mancava soltanto zio Salomone per aprire le danze mangerecce post mortem.

Zio Salomone, il grande assente ingiustificato.

Ma dov’era finito? Ruben era certo che non poteva essere caduto giù, dentro la fossa, e sopra la bara di nonna Ada. E, quandanche gli fosse sfuggito un evento di tale portata ─ poiché magari si era verificato proprio nel momento in cui lui aveva voluto sottrarre la mamma all’esubero svenevole di dimostrazioni d’affetto ─ tutti gli altri presenti alla cerimonia funebre se ne sarebbero accorti e, con le funi della cassa, lo avrebbero ritirato su. Gli venne in mente che una volta, tanto tempo prima, la mamma gli aveva raccontato di aver scoperto da bambina, mentre nonno Isacco (che indossava sempre camicie rigorosamente a maniche lunghe) era intento a tirar su un secchio d’acqua da un pozzo, che il suo avambraccio sinistro era tatuato, ma Ruben non ne aveva approfondito la ragione. L’unica cosa che ricordò di aver pensato allora fu che il Dybbuq dovesse essersi insinuato nella pelle del nonno attraverso l’ago sottilissimo che gli aveva inoculato l’inchiostro nel braccio. Ma adesso, che era più grande, fu assalito dal dubbio che le cose fossero andate diversamente: che non esistesse alcun Dybbuq e che la mamma, quel giorno, fosse stata per rivelargli qualcos’altro. Forse, non si trattava di un tatuaggio di quelli che si vedono in giro, a forma di farfalla o di àncora o, magari, di pistola. Forse, non si trattava nemmeno di una frase d’amore per nonna Ada, o per le due figlie che ─ gli aveva confidato in segreto papà Emanuele ─ nonno Isacco non era mai riuscito a prendere in braccio, per paura. Ma paura di cosa? Si ricordò anche di un vecchio proverbio yiddish(13) che zio Salomone era solito ripetere, non senza averne assegnato la doverosa attribuzione proprio a Isacco, suo cognato:

«L’inchiostro si asciuga rapidamente, le lacrime no».

In quel preciso istante, Ruben fece mente locale sulla reazione della mamma alla morte della nonna, così discorde da quella di zia Ariela. La mamma non aveva potuto cucinare niente, non ne aveva avuto il tempo (così si era giustificata). Ma zia Ariela, sì. Eppure, erano state entrambe al cimitero, ed entrambe erano figlie di nonna Ada. Gli si cominciò a delineare dentro, con sempre maggior nitidezza, anche il senso delle parole della zia: la sua esortazione a comportarsi da ometto, alleggerendo la mamma dalle faccende di casa. Sicuramente la zia già sapeva che sua sorella Anodea avrebbe reagito in modo diverso da sé alla perdita della madre: più lentamente, anche in séguito.

Fu allora che il campanello di casa garrì con un verso stridulo, da rapace.

Il grande assente si materializzò di fronte a tutti con un sonoro «Shalom(14)!», che echeggiava altezzoso il suo nome proprio. Poi, porse un vassoio d’argento, precariamente adagiato sulle sue ulne, ad Anodea: vi basculavano sopra, scivolando beatamente da una parte all’altra, otto uova sode(15), intere ma già sgusciate (un uovo per ciascuno dei presenti).

Dopodiché, rincalzatosi il tovagliolo sotto il mento, strizzò l’occhio a Ruben con un ghigno sardonico e, scusandosi del ritardo, si sedette a tavola, per primo.

Valentina Belgrado

 

Note

 

  1. Spirito maligno o demone. È generalmente l’anima di una persona morta che non trova pace e penetra in una persona vivente. Nel folklore ebraico, il dybbuq è una sorta di vampiro.
  2. Preghiera che glorifica il nome di Dio. È la più solenne e una delle più antiche preghiere ebraiche e si recita in occasione di funerali e anniversari di morte.
  3. La tradizione ebraica vuole che chi è in lutto si faccia uno strappo (keriah) nell’abito. Lo strappo viene effettuato sul lato sinistro (in corrispondenza del cuore) per la perdita di un genitore.
  4. Funzionario della sinagoga, principalmente addetto al canto, che assiste o sostituisce il Rabbino nella liturgia.
  5. Espressione con la quale nell’ebraismo è intesa un’offerta di gratitudine, che loda Dio per un beneficio ricevuto.
  6. «Lutto» in ebraico.
  7. Festività solenne, che commemora la liberazione di Israele dalla schiavitù in Egitto e il cui racconto si trova nel libro dell’Esodo. Si celebra dal 15 al 22 del mese di Nissàn (settimo mese del calendario ebraico, corrispondente al periodo lunare di marzo/aprile) e prevede la consumazione di cibi non lievitati e le due cene rituali del Sèder.
  8. L’ordine delle cerimonie e delle azioni che si svolgono durante la cena pasquale (per estensione indica anche la cena stessa nel suo insieme), celebrata la prima sera di Pesach in Israele; nella diaspora, anche la seconda. Scopo di tutti i riti del Sèder è quello di mantenere vivo nel cuore degli ebrei l’esodo dall’Egitto.
  9. Il testo che narra dell’esodo dall’Egitto e che viene recitato melodicamente nelle prime due sere della festività di Pesach.
  10. Il periodo di sette giorni di lutto stretto che si osserva in casa del defunto, durante il quale gli amici vanno a trovare e confortano i parenti, che siedono scalzi su bassi sgabelli.
  11. Termine usato dal XVI secolo per indicare gli ebrei dell’Europa centrale e orientale di origine germanica (ashkenazim). L’ebreo ashkenazita si oppone tradizionalmente all’ebreo sefardita (di origine spagnola o portoghese) e vi si differenzia per alcune pratiche rituali, per il formulario liturgico e per la pronuncia stessa della lingua ebraica.
  12. Giorno di riposo settimanale, che ricorda il settimo giorno dall’inizio della Creazione, in cui Dio stesso si riposò. Inizia il venerdì sera, col tramonto del sole, e termina il sabato sera, con l’apparizione delle prime tre stelle nel cielo. Durante questo intervallo di tempo, l’ebreo praticante deve abbandonare tutte le sue occupazioni abituali.
  13. Lingua parlata dalla maggioranza degli ebrei ashkenaziti, con elementi lessicali ebraici, slavi e neolatini.
  14. Saluto ebraico, che significa «la pace su di voi!»
  15. L’uovo sodo, nell’ebraismo, è il simbolo dell’eternità della vita.

Nata a Firenze nel 1975, Valentina Belgrado si è laureata in Letteratura Teatrale Italiana nella sua città, per trasferirsi successivamente ai Castelli Romani, dove vive con il marito e il figlio.

Ha pubblicato poesie su riviste e antologie, recensioni a libri e film su riviste, i romanzi Ius (eBook ©2017 Amazon Formato Kindle), Eloheinu (Nulla Die, 2018), Il gioco interrotto (Nulla Die, 2019, finalista al Premio del Mare Marcello Guarnaccia) e Reborn (Nulla Die, 2019; in eBook, 2020) e il racconto Volto nel blu, incluso nell’antologia La ragazza venuta dal mare (Nulla Die, 2020).

 

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