giovedì , Marzo 28 2024

L’antica Torre

L’Antica Torre scricchiola allo stormire del vento d’autunno, la vite americana  sbuffa rosso amaranto, la banderuola sul tetto, inquieta, gira su se stessa. I corvi, da quando hanno sfrattato i piccioni, sicuri e arroganti, volteggiano alti, prima d’infilarsi nel vano dei finestroni.

L’orologio ormai suona solo le ore del giorno, senza curarsi di dire la verità, dimentica spesso l’ora legale e pure quella solare, la notte poi silenzio assoluto. Anni fa non si sarebbe sognato di sbagliare un solo minuto, perché era la bussola della vita, per tutti: i contadini che faticavano nei campi, i boscaioli che tagliavano legna nella macchia, gli artigiani che lavoravano in bottega, le donne che sfaccendavano dentro e fuori casa. Anche di notte non smetteva di battere ogni quarto d’ora, teneva compagnia ai vecchi che soffrivano d’insonnia.

Le campane dormono silenziose anche quando Don Edo, troppo vecchio e traballante per tirare la corda, suona per la Messa. Ha affidato il compito ad un congegno elettronico che fa a meno della Teresa, della Maria e della Margherita, come si chiamano le tre campane, dovute alla religiosità e generosità dei paesani, nei primi anni del novecento.

Da quella volta l’antica Torre fu promossa a campanile della Chiesa parrocchiale, posta al lato di fronte che, se non fosse per le arcate d’ingresso, nella sua struttura architettonica, assai poco ricorda un luogo di culto.

Una volta le campane suonavano per ogni occasione, ci pensava Lallo a farle ballare, soprattutto per annunziare i giorni di festa, due colpi ravvicinati alla piccola dalla voce squillante, un colpo alla media più melodiosa, un colpo alla grossa dal suono caldo e profondo.Riusciva ad armonizzare i suoni in maniera ardita e originale: di-don… di-don… DON-DON… di-don…di-don… DON-DON, a volte variava di-di-don…di-di-don- DON… di-di-don…di-di-don- DON… oppure: di-di-don-DON… di-di-don-DON… All’epoca c’era chi giurava che le campane ripetessero all’infinito: “Lallo, scoreggio e ballo!”, il vecchio campanaro non si offendeva, nascondeva mezzo sorriso mentre tirava con forza alla sua pipa.

Adesso le campane raramente suonano davvero e solo per accompagnare qualcuno al cimitero, ma anche i morti sono pochi, tutto è scomparso, di quel mondo pieno di vita sono rimaste solo poche tracce.

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L’Antica Torre sembra sussultare, quasi volesse tendersi verso il testimone e compagno fedele che non c’è più, un lamento silenzioso: il declino del paese è iniziato allora, quando Romolo ha preteso la chioma del pero rossino e, poiché un pero senza rami non dà frutto, allora giù anche il tronco, l’inverno sarà caldo per il prete.

Il pero era diventato il rovello del vecchio fabbro, in autunno le foglie finivano immancabilmente per otturare la grondaia. L’acqua dal tetto correva libera lungo il muro e filtrava fin dentro casa. Romolo doveva chiamare il muratore per stappare il tubo almeno tre o quattro volte, prima che l’albero finisse di perdere tutte le sue foglie. Il pero, troppo grande e troppo alto, da un po’ di tempo era diventato suo nemico, non solo per le foglie, erano in molti a saltare sulla pianta dal suo terrazzo e c’era sempre qualcuno che rompeva i gerani della Caterina, quella poi se la prendeva con lui che non faceva “buona guardia” e che, invece di badare alla roba sua, preferiva andare a spasso con Renato e Crescentino.

Veramente i gerani erano della Caterina, e con Renato e Crescentino non andava a spasso, ma a funghi, a more, a “cardline”…

Se non fosse stato per la grondaia, e per la Caterina, a lui il pero piaceva,  gli piacevano pure le pere color ruggine, piccole e succose, dal sapore dolce e asprigno.

Eccezionale, per l’inverno, la marmellata e, quando alla Caterina le girava dritto e si metteva a fare la crostata, allora era una vera goduria.

La Caterina però da un po’ di tempo strombazzava che era troppo vecchia per la marmellata, e anche per la crostata. Riuscì a convincere anche lui quando, al posto dello zucchero, mise duecentocinquanta grammi di sale nella pasta frolla.

Erano finiti i tempi in cui la Caterina si vantava della sua abilità culinaria e godeva della fama, più che giustificata, di superba pasticcera.

Con due figliole da marito cercava di prendere per la gola i partiti più appetitosi. Con la Lulla c’era ormai poco da sperare, s’era intestardita con il Gianetto di Renato, da un pezzo aveva visto che si guardavano di sguincio da una bottega all’altra, ma la Giulia, quella sì che le somigliava. Non si sarebbe confusa con un campagnolo senza arte ne parte, lei aveva studiato, meritava un vero cittadino. Avevano adocchiato il nipote ingegnere della maestra Bonelli, non era giovanissimo, neppure una bellezza, ma di una simpatia…!

Ultimamente veniva sempre più spesso a trovare la zia, arrivava con la moto, lo sentivano rombare quando girava alla curva del Ponte, la Giulia s’affrettava al fornello a gas, accendeva sotto l’acqua per il tè, la Caterina tirava fuori la crostata dal forno.

Capitava che il rombo proseguisse per il Convento, allora spegnevano il gas e rimettevano la crostata nel forno spento. Scrutavano dalla finestra, lisciavano la tovaglia ricamata, tendevano l’orecchio ad ogni rumore, fino quando l’ingegnere non parcheggiava nella Piazzetta.

La Caterina, per caso sul terrazzo tra i suoi gerani, invitava il giovanotto, mentre la Giulia finiva i preparativi per “il solito tè”.

Il giovane accettava l’invito, gradiva la crostata, un po’ meno il tè, ma la Caterina, previdente, non mancava mai di mettere vicino al dolce la bottiglia del vin santo.

Un giorno Romolo, più affaticato che mai, per avere ferrato il cavallo e i muli a Tajavent di Prato Alto, arrivato nel mezzo del rinfresco gli scappò: “A chi sa c’è, ‘na festa d’ fidanzament?!”.

Si accorse della domanda importuna  dall’improvviso pallore della Giulia e, ancora di più, dagli occhi di fuoco della Caterina. Tuttavia la sua uscita si rivelò provvidenziale, finalmente l’ingegnere si decise a chiedere la mano della Giulia.

Il pero rossino troneggiava nell’angolo destro dell’orto della canonica, cresciuto  alto, dritto, con rami larghi e possenti. “Per abbracciare il suo tronco bisogna essere in tre!”, Crescentino, ortolano per passione e sacrestano per dovere, ne andava orgoglioso. Alla moglie Milla, nipote per nascita e perpetua per vocazione, il pero un po’ di fastidio lo dava, occupava troppo posto, faceva troppa ombra, le sue dalie crescevano rachitiche, le rose sbiadite: “Come faccio ad addobbare l’altare?”. Si era già dimenticata la primavera scorsa quando, per lo sposalizio della Giulia, la figlia istruita di Romolo e della Caterina, aveva tagliato al pero quattro bei rami pieni zeppi di bianchi fiori delicati, e come l’insolito addobbo floreale le avesse assicurato un bel successo. Perfino i parenti dello sposo, tutti signori di San Marino, si sprecarono in lode.

Da quando Milla aveva smesso di fare la scrivana al Comune dedicava anima e corpo alla casa e alla chiesa, era diventata solerte e zelante, e mentre un tempo Crescentino si sentiva “padrone dell’orto”, adesso la moglie, sempre con la sua aria serafica, metteva becco anche lì.

Una volta Milla e Crescentino s’azzuffarono perché lei pretendeva di trapiantare le dalie nella fossa preparata per i sedani. Crescentino risentito ringhiò: “Seconda te, ia, do’ mett’ i sellere?” Milla, con un’ombra di provocazione, nel suo perfetto italiano rispose:  “I sedani mettili sotto il pero”. Ragnarono per un’ intera settimana.

Crescentino si sarebbe fatto seppellire nella fossa, piuttosto che cederla alle dalie.

Al colmo del furore un giorno dimenticò di suonare mezzogiorno, il giorno dopo lo suonò due volte. Colto da improvvisa dislessia disorientò il fedele Tibi chiamandolo “Biti”, che in risposta uggiolava più inquieto del solito al suono delle campane.

Milla, ostentatamente serena, un giorno dimenticò di mettere il sale nell’acqua dei maccheroni,  il giorno dopo lo mise due volte, dando un bel colpo alla sua credibilità di perfetta donna di casa, tuttavia non cedeva di una spanna.

Alla fine, giocando la carta del compromesso, sbrogliarono la matassa: i sedani rimanevano nella fossa, le dalie passavano nel posto dei carciofi, i carciofi sotto il pero.

L’Antica Torre, civettuola come conviene ad una dama di rispetto, pensava al pero come ad un coetaneo,  barava di qualche centinaia d’anni, ma all’albero poco importava. Di fatto avevano trascorso migliaia di giorni, ore e minuti uno di fronte all’altro, alla sinistra e alla destra nel lato sud della Piazzetta del Salvatore. C’era tra loro un’intesa perfetta, poche volte si trovarono su posizioni contrapposte, una fu nel primo dopo guerra, intorno agli anni cinquanta, uno dei primi comizi elettorali. Anzi, un dibattito politico tra due donne: “La Giannina”, compagna del Partito Comunista ed ex partigiana, posizionata in un palchetto improvvisato sotto il pero, contro Emilia Bonafede della Democrazia Cristiana che stava ai piedi del Monumento, ricoperto per l’occasione dal mezzo tappeto verde che don Fantoni esibiva all’altare nei giorni di festa.

In attesa che finisse la Messa, a cui la Bonafede partecipò con devozione, nella Piazzetta c’erano solo Mondo, Solindo e Padella ad accogliere calorosamente la compagna Giannina che non si mostrò né sorpresa, né delusa, dal numero dei sostenitori.

Alle undici e quaranta, con dieci minuti di ritardo, don Fantoni si decise all’Ite missa est.

La Bonafede, con il fazzoletto in testa e l’aria mistica, condotta dal maestro Severi, segretario della sezione locale del partito, salì sul tappeto. La maggior parte delle donne si precipitò a casa a preparare il pranzo, rimasero solo la Milla e la Marta del sarto con la sorella Maddalena, si tenevano strette, quasi abbracciate. Cominciarono ad approvare con la testa, la loro beniamina, ancora prima che prendesse la parola, mentre lanciavano sguardi sbiechi alla rivale.

Gli uomini riempivano la Piazza disseminati in gruppetti, a debita distanza dalla candidata comunista. Il gruppo più consistente faceva blocco ai piedi della candidata democristiana.

La Bonafede diede inizio al confronto con tono comprensivo e pacato, quasi recitasse il rosario. La Giannina, con voce vibrante e sicura, fece subito sfoggio del suo piglio oratorio, una vera passionaria.  La Caterina  intanto s’era affacciata alla finestra della camera da letto, alle spalle della compagna Giannina, nessuno avrebbe trovato da ridire, in fondo era a casa sua.

Tuttavia si notava un visibile compiacimento, più per  “i diritti e il cambiamento”, invocati dalla compagna, che per  “i doveri e la tradizione” sottolineati dalla rivale.

Un timido sole di primavera riscaldava l’angolo sotto il pero, mentre ai piedi dell’antica Torre, ostinata, rimaneva la rigida ombra. Crescentino fu il primo a spostarsi nella zona assolata, dietro lui Romolo, Renato e altri ancora. La compagna Giannina sottolineò l’avanzata con un respiro profondo che le sollevò il petto prosperoso, mentre lanciava un sorriso smagliante all’indirizzo del gruppo e al Sacrestano in particolare.  La Milla, annusando il pericolo, con un balzo felino si pose accanto al marito. La Bonafede, sconcertata e preoccupata vedendo assottigliarsi  il suo gruppo, lasciò scivolare il fazzoletto dalla testa e prese una posa più decisa, mentre il Parroco e il Maestro lanciavano sguardi al veleno all’indirizzo degli “eretici”.

La Bonafede, sull’orlo del collasso, provò ad alzare il tono, la voce le uscì rantolosa, nessuno tornò sui suoi passi. Don Fantoni, temendo una disfatta, all’una meno un quarto, non potendo contare su Crescentino, si precipitò a tirare la campana per annunciare il mezzogiorno.

Venti minuti dopo, quando rosso e sudato uscì dall’Antica Torre,  nella piazzetta del Salvatore erano rimasti solo Mondo, Solindo e Padella che smontavano, concitatati e soddisfatti, il palchetto della compagna Giannina. Alle elezioni vinse con ampio margine la Democrazia Cristiana, tuttavia il Partito Comunista conquistò un preoccupante aumento di voti.

Don Fantoni dall’altare guardava fisso i suoi parrocchiani uno per uno, mentre rimuginava tra sé: “Chi sarà il traditore?”.

Quella primavera l’Antica Torre non indossava ancora la vite americana, mentre il pero ostinatamente teneva serrati i boccioli dei suoi fiori, l’aria dal Monte arrivava più fresca che mai, la macchia tardava a verdeggiare. La Giulia era sposata da un anno, già era nato Pier Marino, la Lulla, con un improvviso voltafaccia, aveva lasciato Giannetto con un palmo di naso e si era fidanzata con Brandoni, brigadiere dei carabinieri, parente alla lunga di don Fantoni che, da un po’ di tempo, frequentava assiduamente Piazza del Salvatore, tanto che si cominciava a sospettare qualcosa di losco, invece, poco dopo, il fidanzamento ufficiale.

Romolo sul principio era rimasto mortificato, per via del suo amico Renato.

La Caterina un po’ meno, anche se non capiva del tutto la scelta della figlia: il Brigadiere non era  avvenente, non era tanto giovane e neppure tanto alto, mentre la Lulla, detta anche Lullona, era un tocco di figliola alta  e robusta, con tutto il ben di dio al  posto giusto.

Era successo che la Lulla, come la sorella, voleva farsi cittadina.

Anche Giannetto, che ormai gestiva la bottega di falegname al pari del padre, si era consolato in fretta con Maria Rosaria, detta Rosy, unica figlia del maestro Severi. Si era consolato tanto in fretta che la Rosy era già incinta, si sarebbero sposati entro il mese di maggio.

La Lulla aveva fatto fuoco e fiamme per sposarsi prima dell’antico moroso, ma il Brigadiere doveva spicciare i doveri dell’arma, la Lucia era sovrastata dal corredo della “maestrina” che maestra non lo era mai diventata, la sarta Adele era affogata di lavoro per cucire i vestiti nuovi alle spose, madri, sorelle, zie e altre invitate ai matrimoni.

Don Fantoni era frastornato e confuso, con l’intero mese di maggio impegnato tra feste patronali, cresime, prime comunioni… In realtà il parroco riteneva doveroso sanare prima la vergogna: “Ma quella j’ arriva la panza ma i dent!”.

La Lulla non si era data per vinta,  un affronto così non lo avrebbe sopportato, “Se non posso sposarmi prima, mi sposo con Giannetto!”.

Meglio chiarire: si sarebbe sposata con il Brigadiere lo stesso giorno che l’ex fidanzato portava all’altare la sua sposa.

La Caterina storse la bocca, le sembrava un atteggiamento un tantino provocatorio, a rischio di ridicolo. Romolo invece pensò che fosse una buona idea, lui e Renato avrebbero festeggiato assieme le nozze dei figlioli.

L’ultimo sabato di maggio, tra invitati confusi da che parte stare, le due coppie di sposi s’unirono in matrimonio. La Lulla, imponente come una regina, brillava nel suo vestito di raso argentato, sovrastato da sei metri di strascico bianco che le scendeva dai biondi capelli inanellati.

Il Brigadiere indossava l’alta uniforme dell’arma con il pennacchio rosso sul cappello, al fianco destro della sposa faceva la sua “porca figura”.

Al fianco sinistro della Lulla, Giannetto, dritto e alto come un pioppo, i riccioli neri impomatati, elegante nel suo gessato blu, piegava leggermente la spalla verso la sposa sua che, nonostante i tacchi, le arrivava sotto il mento. La Rosy nascondeva la pancia sotto una bianca nuvola di tulle e pizzo mentre, appuntato sui capelli, teneva il prezioso velo ereditato dalla nonna Esterina.

In mezzo ad una generale commozione gli invitati s’ imbrogliarono, si confusero, si mischiarono, tutti si scambiarono auguri, baci e abbracci. Tutti tranne Giannetto e la Lulla.

Era tornato ancora un autunno, le ultime rondini infreddolite stavano rannicchiate sui fili della luce, respiri di fumo uscivano dai comignoli sui tetti, la via deserta.

Dopo la morte di don Fantoni era seguto un periodo buio per i fedeli parrocchiani, il Vescovo non riusciva a trovare un prete per la piccola comunità.

Poi un giorno inaspettato giunse don Edo, un vecchio parroco vissuto da eremita a Santa Maria del Monte, fino quando la chiesa fu dichiarata inagibile e il tetto della canonica cadde sbriciolato sopra il suo letto. Per fortuna la pendola nera non batteva giusto e lui era andato dal Cenci a cercare di scoprire perchè. Don Edo è un solitario dall’aria selvatica e spinosa, non s’interessa di feste, l’unica sua passione sono gli orologi, di tutte le fogge e di tutte le dimensioni, la maggior parte a muro, pendole e cucù  che farebbero la gioia dei bambini, ma don Edo non ama i bambini e, d’altra parte, i bambini non ci sono più.

I bambini erano la gioia del pero, a lui piaceva che vi salissero sopra, si nascondessero tra i rami o, con le gambe a penzoloni, discutessero come cow boy a cavallo. Una volta permise di costruire una capanna tra i rami, poi don Fantoni si accorse che non vi andavano a nascondersi solo i bambini, ma pure i ragazzi con le morose. Addio costruzione!

L’Antica Torre invece, stava sempre in apprensione quando i ragazzini, elusa ogni sorveglianza, azzardavano, incoscienti, l’arrampicata delle lunghe scale a pioli per giungere nel vano delle campane, preferiva osservarli scapicollare nella piazza o per i vicoli.

I bambini abitualmente s’incontravano nelle prime ore pomeridiane e si mettevano a giocare a “filotta” nell’angolo sotto il pero. D’estate i più grandicelli salivano sui rami  bassi, raccoglievano i frutti ancora acerbi,  ne tiravano anche ai piccoli che sotto reclamavano vogliosi.

La Caterina ancora non si arrabbiava per i gerani e neppure per le pere, era così abbondante la produzione, lei e la Milla se la spartivano equamente, non sapevano mai come castigare tutta quella benedetta frutta, ce n’era d’avanzo anche per il maiale.

In quel frangente don Fantoni si mostrava generoso, per i piccoli era l’occasione di togliersi “le gricce dalla panza”, purchè gli lasciassero fare tranquillamente il riposino pomeridiano. Difficilmente accadeva, appena il gruppo era diventato consistente, subito iniziava il gioco e, fosse tingolo, guerra, o ruba-bandiera, risate, urla e schiamazzi si facevano sempre più alti e concitati, rompevano i timpani anche a Titon che era nato sordo e non sentiva neppure le campane, diceva lui.

L’Antica Torre, rifatto il lifting e ridimensionata la stretta soffocante della vite americana che si era infiltrata tra le pietre e le nascondeva fino al tetto, spicca indomita al centro del paese deserto. Disposta, ma non rassegnata, a parlare solo alle nuvole e alle lucertole grosse come ramarri che si divertono a mimetizzarsi tra le foglie del rampicante, sbadiglia smaniosa al vento di ponente.

Scampanellio di biciclette?!

Due giovanissimi ciclisti pedalano come dovessero vincere il Giro d’Italia.

Rossi come pomodori maturi, si fermano, parcheggiano le biciclette e siedono per terra.

La  vecchia bottega da falegname, stranamente, ha le porte aperte.

Anche quella che è stata la casa di Romolo e della Caterina, guarda caso, ha le persiane spalancate. Oggi le sorprese non finiscono mai. L’Antica Torre tende l’orecchio, curiosa come sempre origlia le parole che si scambiano i due ragazzini:

     –  Bella la tua bici, è anche da cross?

     –  No, però ha cinque marce.

     –  Non è mica una macchina?!

     –  Tu non sei di Frontino, non ti ho mai visto.

     –  Neanche tu sei di Frontino, neppure io ti ho mai visto.

     –  Io vengo ogni tanto, mi chiamo Giovanni Maria, però mi chiamano Giannetto.

     –  Io sono Maria Luisa, però mi chiamano Lulla, come la mia nonna. Anch’io ci vengo

         ogni tanto. La mia nonna abitava in questa casa.

     –  Il mio nonno abitava in quella lì di fronte.

     –  Forse si conoscevano.

     –  Magari erano amici!

     –  Magari erano innamorati!

L’Antica Torre, incredula, sbatte gli occhi più volte, nel posto del pero rossino, troneggia un olivo gigantesco: “Avrà almeno cento anni!”, miracolo della natura o moderna scienza agraria?!

L’Antica Torre non se ne cura, è troppo contenta di avere ritrovato un compagno con cui condividere giorni, ore, minuti…

Pierina Dominici

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