giovedì , Marzo 28 2024

La terrazza

La temperatura dell’aria si stava abbassando ancora.
Forse avrebbe nevicato quella notte stessa.
Forse avrebbe fatto meglio a indossare il cappotto, prima di uscire sulla terrazza a fumare l’ultima sigaretta della giornata.
Era l’ultima persona rimasta, nel vecchio palazzo dove la sede della società presso la quale lavorava si era trasferita: aveva ancora una decina di minuti, poi il custode avrebbe terminato il suo turno chiudendo il pesante portone, fino alle sette del mattino successivo quando sarebbero arrivate le donne delle pulizie. Di solito in casi come quello gli faceva un colpo di telefono, ma aveva dovuto finire un lavoro urgente e non aveva dato uno sguardo all’orologio fino a pochi istanti prima. Voleva fare quella telefonata, ma i suoi polmoni reclamavano nicotina. Tabacco. Una rata per l’affitto del loculo.
Non sentì il lieve rumore, coperto dal traffico delle auto che scorrevano una trentina di metri sotto la sua posizione.
Schiacciò il filtro e quel che rimaneva della sigaretta nel posacenere ormai pieno, quindi si affrettò alla porta.
Chiusa.
Ma come era possibile? Forse spingendo… doveva essersi incastrato qualcosa…
Nessun incastro. La maniglia era verticale, qualcuno l’aveva chiusa.
Vide la luce del proprio cellulare brillare intermittente sulla scrivania, oltre i vetri rinforzati.
Dentro, a pochi centimetri da dove si trovava, il riscaldamento permetteva di abbigliarsi in modo comodo e leggero, ma lì fuori cominciava a fare un freddo cane.
Un paio di manate, un grido che si perse nel vento che si era alzato in quell’istante.
Si voltò spalancando la bocca, ma la sentì chiudersi: era a decine di metri dall’essere umano più vicino, praticamente al buio. Anche mettendosi davanti alla vetrata, nessuno avrebbe pensato che era in pericolo, ammesso che riuscisse a vedere una sagoma nel buio incipiente. Anche la luce del lampione davanti, ci si era messa. Sembrava emanare meno luce di qualche minuto prima.
Forse era un effetto della paura.
Doveva conservare la calma, se lo ripeté più volte.
Guardò di nuovo la luce lampeggiante del cellulare.
A casa non l’aspettava nessuno, il suo lavoro era consorte e amante al tempo stesso.
Pensò di chiamare casa dei suoi, o di suo fratello. Forse non erano ancora partiti per il weekend lungo: avevano detto che se fosse stato brutto tempo lo avrebbero fatto la mattina dopo, con calma.
Chiamare con cosa, deficiente?
Il cordone ombelicale era sulla scrivania, le persone più care erano a pochi centimetri eppure troppo lontane.
Un brivido lungo la schiena.
Dietro il vetro, le luci si erano spente. Restavano accese solo quelle del corridoio.
Vide la sagoma stagliarsi sulla porta. Riconobbe a chi apparteneva, con un’onda di malessere.
Da qualche parte, nella sua mente, quella sagoma sembrava bussare sulla porta dei ricordi.
Centomila anni prima, nella sua cameretta. Una sagoma controluce, la porta che si chiudeva. Accadeva d’estate, nella villa al mare. Al mattino sembrava dimenticare, se ne rendeva conto solo ora. Una miriade di immagini e suoni, che aveva addebitato a sogni venuti male, ma che invece facevano parte di un passato oscuro che albergava nella sua memoria.
Un urlo, nuovo e terrificante e muto.
Una nuova serie di immagini, nascosta appena dietro l’altra. Immagini di violenza e sangue, le sue mani sporche, mani di persona adulta.
Quando aveva letto le cronache di quegli agghiaccianti delitti aveva pensato che il colpevole fosse un mostro, qualche essere malato la cui follia si agitava nell’ombra ai limiti della normalità.
La luce si accese di nuovo.
La sagoma apparteneva a Fiorenzo, il suo collega più anziano: era stato un militare di carriera, prima di diventare responsabile per la sicurezza aziendale. Aveva avuto un breve periodo di notorietà tre anni prima, quando lavorava per una banca a Milano. Uno dei dipendenti era morto cadendo nella tromba dell’ascensore, durante la pausa pranzo. La banca era su tutti i giornali per altri motivi, quindi quel fatto tragico aveva avuto una risonanza maggiore del previsto.
Fiorenzo aveva deciso pochi giorni dopo di tornare a Roma, per motivi di famiglia.
Lo vide trafficare col computer, incurante dei suoi colpi contro il vetro, delle urla che lanciava senza posa.
La mente, provata dal freddo e dalle immagini devastanti che la attraversavano, cominciava a cedere.
Fiorenzo avrebbe scoperto tutto, era sicuramente una persona capace di leggere quello che la gente provava, abituato a decidere a colpo d’occhio se qualcosa stava diventando una minaccia.
Si voltò, passandosi la mano sulle guance ispide di barba. Si mise in piedi sulla balaustra, allungò uno sguardo sulle auto.
Poi Riccardo alzò le braccia tese, vicino alle orecchie, e si tuffò lontano dai ricordi.

Fiorenzo aveva appena terminato di scrivere al computer la lettera d’addio di Riccardo, in lettere giganti. Avrebbe atteso un’ora prima di liberarlo, quando sarebbe stato ormai al limite delle forze. Lo avrebbe violentato, come era accaduto a lui tanti anni prima e come aveva poi fatto tante volte in passato, sia sotto le armi che nella vita privata. Bastava simulare episodi di nonnismo, o strani incidenti, e trovarsi un alibi. Quello per stasera era un cinema a poche centinaia di metri da lì. Era uscito dalla porta di sicurezza, era entrato nel palazzo di uffici da una entrata secondaria e contava di tornare dopo aver rimesso tutto a posto. Aveva portato nella ventiquattrore diverse armi mortali per simulare il suicidio: siringhe, fiale, una piccola pistola senza numero di serie, barbiturici. Però doveva aspettare che il custode se ne andasse.
Guardò fuori, in tempo per vedere Riccardo in piedi sulla balaustra.
Fiorenzo si precipitò alla porta, doveva fermarlo: il custode non era ancora uscito, rischiava di rovinare tutto.
Non fece in tempo neanche ad aprirla.
Doveva pensare velocemente.
Aprì la porta che dava sulla terrazza, proteggendosi nuovamente la mano con la cravatta per non lasciare impronte.
Poi corse alla porta di sicurezza.
Non voleva perdersi il finale.

Alessandro Maiucchi

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