sabato , Aprile 20 2024

“Giorno di visita” di Davide Pezzi

Immagine realizzata da Marta Muratori

GIORNO DI VISITA

di Davide Pezzi

Ogni domenica il pensionato per anziani si riempiva di gente: parenti e amici dei suoi stanchi ospiti portavano per qualche ora un po’ di gioventù, di vita e di rumori tra i vialetti del cortile e nel vasto salone della televisione. Al vecchio Berto non piaceva la domenica e non gli piacevano le visite. Avrebbe dovuto alzarsi dalla sua panchina preferita, e già questo comportava un certo sforzo, e avrebbe dovuto affrontare la stupida esagerata giovialità di suo figlio e le sue chiacchiere assurde.

A Tobia faceva invece enormemente piacere ricevere visite; il vecchio Tobia non era molto normale, da molto tempo gli era andata via la testa, e si trovava lì poiché il pensionato accoglieva anche ritardati di mente. Non aveva parenti che venissero a trovarlo, il suo unico fratello pagava la retta pur di non vederselo intorno e lui si accodava a tutti i visitatori ridacchiando e scroccando sigarette e caramelle, era stato insomma adottato da tutto il pensionato.

Berto osservò i coniugi Morri che si avviavano lentamente verso il cancello, parevano finti da quanto erano gentili e cortesi. Mano nella mano come due fidanzati non litigavano mai ed erano sempre insieme, probabilmente quello era il vero amore. Berto scrollò la testa: che noia! Era ancora domenica e lui era come sempre di cattivo umore. Suo figlio gli avrebbe ancora domandato di tornare a casa con lui e Berto per l’ennesima volta avrebbe rifiutato! Andava avanti così già da qualche anno e cominciava ad esserne un po’ stanco. Perché non lo lasciavano in pace? Aveva scelto lui dopotutto di andare all’ospizio, nessuno l’aveva costretto o convinto… “Ospizio”, sorrise perché quella parola era vietata lì dentro, bisognava dire ”pensionato”; ai suoi tempi non c’erano tante complicazioni, ogni cosa aveva il suo nome, i ciechi erano ciechi altro che “non vedenti” e se uno era scemo, beh, era scemo e non “portatore di handicap” o “diversamente abile”… quest’ultima definizione poi Berto la trovava particolarmente divertente. E quello era un ospizio.

Triste e malinconico come qualsiasi ospizio, col suo odore di medicine e di vecchiaia ed i suoi rumori di tosse sputi bestemmie e passi strascicati sulle mattonelle. Ma Berto aveva deciso di restare lì per i suoi ultimi anni e nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea. Il mondo fuori d’un tratto gli era parso ostile, estraneo e non aveva più saputo trovarvi un posto. Gli sembravano tutti pazzi e correvano troppo per lui, era inutile illudersi: per il vecchio Berto non c’era più niente da fare là fuori. E allora? Cercare di adattarsi ad una vita assurda e finta, cambiare le proprie abitudini e il proprio linguaggio, rinunciare alle proprie idee per “restare al passo coi tempi”? No no, ormai non era più aria per lui, l’aveva capito appena in tempo e aveva deciso di chiudersi lì dentro con quelle patetiche avvizzite figure che un tempo erano state cacciatori, dame di compagnia, contadini, autisti, ballerine e che ora sembravano palloni sgonfi e inutili.

Alzò gli occhi ancora vispi e vide suo figlio nell’atrio che parlava con una suora. Meno male che stavolta non aveva portato i bambini! A Berto non piacevano i bambini perché in loro vedeva il futuro, e il futuro non lo riguardava più. Cosa c’è di bello in un bambino? Ben presto crescerà e odierà i genitori, sputerà sui valori come l’amicizia e la lealtà, riderà di Dio e trasformerà le chiese in discoteche e a sua volta insegnerà ai suoi figli a distruggere il mondo. O almeno quello che ne sarà rimasto. Quando Berto udiva dei bambini giocare si tappava le orecchie infastidito. Le loro risa sembravano tutte per lui, per il mondo in cui lui aveva creduto, per l’amore che non era riuscito a dare, per il suo corpo stanco e appassito… Povera povera foglia accartocciata, viene l’autunno ormai. Appoggiò le dita al bastone e si alzò in piedi barcollando.

Suo figlio stava venendo verso di lui sorridendo e Berto pregò in cuor suo che restasse poco, giusto il tempo dei saluti. Non che non gli volesse bene, anzi, ma ormai avevano così poco in comune che restare insieme e parlare era una pena per entrambi. “Ciao Fe“Ciao Alberto, scusa il ritardo ma ho accompagnato Patrizia e i bambini da alcuni amici e la domenica c’è un traffico che non ci si gira!”  “Federico. Mi vuoi spiegare una cosa: perché continui a chiamarmi Alberto?” “Ma perché è il tuo nome!” “lo non avrei mai chiamato mio padre per nome! Ma questi sono i tempi moderni … come si dice: largo ai giovani eh?” “Perché sei sempre così ostile?” il ragazzo sospirò “Se non vuoi più che venga a trovarti dimmelo e ti accontenterò, ma me ne dispiacerebbe molto.” “Ma no, scusami… Parlo e non mi accorgo neanche di quello che dico. E poi lo sai che sono un brontolone!” I due si guardarono in silenzio per qualche minuto. Lontane voci portavano racconti di nipotini e cresime e nascite e morti, colpi di tosse e clacson, tristezza e foglie che scivolavano sul terreno spinte dal vento. Avevano davvero così poco da dirsi? Federico sospirò e si sedette sulla panchina.

“Allora?” Berto restò in piedi in silenzio come se non avesse udito ed il ragazzo ripeté la domanda: “Allora? Hai deciso qualcosa?” “Deciso! Deciso! Certo che ho deciso qualcosa! Lo sai benissimo cosa ho deciso e allora perché continui a tormentarmi? Davvero vuoi vedermi sereno? Allora smetti di chiedermi sempre la stessa cosa, e forse andremo più d’accordo!” “Ma non è giusto che resti qui! Lo capisci?” “Che cosa non è giusto? Ho tolto il disturbo e sembra che dia più fastidio restando qui che se mi aveste sempre tra i piedi! Ti prego Federico, lasciami qui e lasciami in pace. Sono stanco e acido e ti tratto sempre male, non lo vedi? Mi vorresti davvero in casa con te? E per che fare? Per guardare fuori dalla finestra tutto il giorno accarezzando un gatto, e andare al parco ad incontrare altri vecchi e raccontarsi le malattie? Credi che allora starei meglio? Ho scelto io di venire qui e di restarci, non sentirti in colpa. lo ti voglio bene lo sai, ma davvero non posso. Non resisterei là fuori… non è più un mondo per me quello!” .

Il ragazzo si soffiò il naso per nascondere le lacrime e si infilò gli occhiali da sole per coprire gli occhi rossi. Si alzò di scatto come per scrollarsi qualcosa di dosso e diede un’occhiata all’orologio. Non sapeva cosa dire e non sapeva cosa fare. Guardò Berto negli occhi e scrollò la testa. “Se devi andare non preoccuparti.” “Ma se sono appena arrivato!” “È meglio se vai, credimi, tanto cosa abbiamo da dirci? Io ti voglio bene Federico, ma non so cosa raccontarti, il mio presente qui non è molto interessante e tu hai una vita che ti aspetta… a me basta vedere che ti ricordi di me. Anche cinque minuti bastano.” “Ma ascolta…” “E poi sono stanco, mi sa proprio che andrò un po’ a sdraiarmi adesso.” Federico tese la mano verso il vecchio Berto e gliela strinse con forza, poi lo abbraccio forte forte. “Ciao allora, può darsi che faccia un salto mercoledì, non so. Altrimenti domenica…” “Sì va bene. Ciao Federico, salutami i bambini, e Patrizia naturalmente.”

Lo guardo allontanarsi con le mani in tasca e gli sembrò ancora più giovane, lo rivide bambino coi pantaloni corti e quel berrettino giallo in testa che gli piaceva tanto e si sedette oppresso dalla commozione. Dio quanto era stanco! La suora si fece incontro a Federico: “Allora? Niente di nuovo?” “Macché. È sempre peggio ed io non so più cosa fare, non so davvero più cosa fare. Lo sa che fra una settimana è il suo compleanno? Compie trent’anni capisce? Ed è rinchiuso cui come un vecchio!” “Non faccia così. Noi qui siamo sicuri che suo fratello prima o poi tornerà in sé. Ma ci vuole molta pazienza… e molto amore.” “Pazienza! Sono tre anni che è qui ed io sono distrutto. Le abbiamo davvero provate tutte ma lui è sempre più perso! Mi crede suo figlio ed io sono imbarazzato, non so cosa dire, come comportarmi. Eravamo così amici noi due… Perché ha rifiutato il mondo? La vita?” “Perché suo fratello è una persona sensibile, troppo sensibile e fragile. Il mondo che aveva dentro di sé, quello in cui credeva e in cui probabilmente voleva vivere era in contrasto con quello che quotidianamente viveva, e allora la sua mente ha reagito così. Certo lo so: è terribile!” Giunti al cancello si diedero la mano: “Sorella, le sia vicina la prego. Per me è una persona molto importante da quando sono morti i miei genitori. Mi dica che c’è ancora una speranza…” “C’è sempre una speranza.” Il vecchio Berto guardò l’auto di Federico uscire dal cortile e allontanarsi e sospirando allungò le gambe magre e stanche appoggiandosi alla spalliera della panchina. Quel ragazzo era proprio un bravo figliolo! Un po’ testardo forse, ma in quello gli assomigliava. Sorrise al povero Tobia che passò di corsa con la sua risatina idiota, poi si alzò per andare un po’ a riposare prima della cena. Guardò le foglie gialle a terra che formavano un meraviglioso e variegato tappeto che cambiava ad ogni folata di vento, ed alzò gli occhi al cielo. “Stanotte piove, ci scommetto.” Il sole tramontò dietro le antenne della TV, il rumore delle ultime auto e poi il telegiornale.

Un’altra giornata era andata.

 Immagine realizzata da Marta Muratori

Davide Pezzi  nace a Rimini, città che ha sempre amato alla follia. Dopo aver lavorato per quasi 20 anni in una piccola casa editrice come grafico, editor e responsabile impaginazione, da 25 anni vive a San Marino con la moglie un figlio e due gatti, dove lavora come giornalista. Da sempre appassionato di musica, letteratura, cinema e fotografia ha cercato spesso di incrociare queste sue passioni, scrivendo di musica e cinema su vari giornali, siti e blog , e ha lavorato come deejay in varie radio riminesi nei tempi gloriosi delle “radio libere” , tra anni ’70 e ’80. Quando non lavora ama fantasticare di viaggi, e qualcuno riesce anche a farlo.

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